Italia - Repubblica - Socializzazione

.

"Frammenti" di storia

Il calice della stupidità e della vergogna

Filippo Giannini 
 

A seguito di un mio articolo pubblicato di recente, un lettore di Como, Ubaldo Croce, mi ha inviato (e lo ringrazio), a mezzo posta elettronica alcune interessanti notizie che mi danno modo di affrontare un argomento che ritengo di considerevole importanza per noi italiani ed europei. Argomento che ci è d’aiuto per comprendere gli avvenimenti che ancor oggi ci umiliano.
Quante volte abbiamo ascoltato, da persone anche di un certo spessore culturale, che parlare di Fascismo e del suo Capo dopo più di sessant’anni dalla sconfitta (militare!) del primo, e dalla morte (assassinio!) del secondo è completamente fuori luogo perché si tratta di argomenti superati dal tempo? Nel migliore dei casi, le suddette persone, invitano a «far giudicare dalla storia».
La "storia". È proprio per questo affascinante sostantivo che respingo l’ipotesi (tanto cara a "certi individui") di "storicizzare" il Fascismo.
«Attenzione a non storicizzare il Fascismo... Il Fascismo è davanti a noi» ammoniva Giorgio Almirante. E allora, per evitare la "mummificazione" del Fascismo, dobbiamo scrivere la Storia per come realmente si svolsero i fatti che l’hanno caratterizzata, e capire, così, come siamo giunti ad essere vassalli del più rozzo dei popoli.
Tarda primavera del 1940; sì, amico lettore, quasi settanta anni fa, anzi, per essere ancora più precisi, spostiamo quella data indietro di almeno un lustro. In quegli anni il Fascismo era trionfante non solo in Italia: le sue idee (ecco il punto focale: le sue idee) si stavano espandendo in tutto il mondo e questo terrorizzava i Paesi plutocratici capitanati dagli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Quelle "idee" che partivano, per la terza volta nella storia mondiale, dal nostro Paese e mettevano in discussione i principi finanziari e politici sui quali si basava il potere delle Nazioni ricche, che detenevano i due terzi dei beni del mondo. Mussolini «aveva osato» prospettare nuovi princìpi per giungere ad una equa distribuzione delle ricchezze. Questo, ovviamente, non poteva essere più tollerato da quei Paesi nei quali la politica era (ed è) pilotata dai "poteri forti"; più concretamente: dalla massoneria.
Contro l’Italia fascista fu decretata la condanna a morte.
Sarebbe troppo lungo elencare i mezzi messi in opera per costringere l’Italia alla guerra; perché i Governi democratici la guerra non la dichiarano, ma la impongono.
Rutilio Sermonti -di cui condivido completamente il pensiero- nel suo libro "L’Italia nel XX Secolo", ha scritto: «La risposta poteva essere una sola: perché "esse" volevano un generale conflitto europeo, quale "unica risorsa" per liberarsi della Germania -formidabile concorrente economico- e, soprattutto dell’Italia. Questo è necessario comprendere se si aspira alla realtà storica: "soprattutto dell’Italia"».
Sarebbero sufficienti queste poche righe per aprire un esame storico, quell’esame che agli italiani e agli europei non solo non è stato concesso, anzi è stata data loro in pasto una storia la cui "chiave di violino" è ben custodita nei forzieri di Wall Street.
Ho poco sopra accennato alle provocazioni messe in atto per spingere l’Italia alla guerra. Per ragioni di spazio mi limito a semplici richiami, senza entrare nel merito; anche se, entrando nel merito si bollerebbero come "criminali di guerra" persone come Roosevelt e compagni. "Semplici richiami" che hanno per nome: guerra civile di Spagna (chi si rifiutò di circoscriverla?) e seconda Guerra Mondiale, per evitare la quale bastava «rivedere i trattati per adeguarli alle mutevoli esigenze della vita delle Nazioni e non considerarli intangibili per l’eternità». (Dal discorso di Mussolini del 10 giugno 1940).
I Paesi capitalisti avevano ben costruito l’edificio per spingerci alla guerra; e per vincerla era necessario eliminare per prima l’Italia. Essi erano consapevoli che la guerra sarebbe stata vinta sul mare e sul mare impostarono le basi per l’eliminazione -o la neutralizzazione- della poderosa flotta italiana. Per ottenere ciò utilizzarono ogni mezzo, il più ignominioso fu il tradimento. Evito di richiamare alla memoria i lavori di Antonino Trizzino, o anche dell’ammiraglio Angelo Jachino, ma riporto quanto ha scritto un ufficiale dell’"Intelligence Service" britannico, Lowrence Bonnet, nel suo libro "Spionaggio nella Seconda Guerra Mondiale", pag. 220: «La battaglia di El Alamein avrebbe deciso le sorti della guerra nel Mediterraneo. Bisognava, quindi, che l’Inghilterra convogliasse tutte le sue forze per vincere quella battaglia. Si è servita di tanti antifascisti italiani i quali, calati nei pressi dei porti di Taranto, Catania, Messina, Palermo e Napoli e muniti di falsi documenti, segnalavano i convogli in partenza per l’Esercito di Rommel».
L’Ammiraglio Da Zara (uno dei massimi esponenti della Marina Militare italiana) così ha scritto nel suo libro "Pelle di ammiraglio", pag. 158: «Sono orgoglioso di essere un anglofilo classificato e schedato».
Potrei ricordare anche l’ammiraglio Franco Maugeri e tanti altri per osservare che a questi "soldati" venne affidato l’incarico di combattere la guerra sul mare e condurre alla vittoria il loro Paese: cosa che era alla nostra portata stando a quanto ha scritto, con amarezza, l’Ammiraglio Teucle Meneghini: «In Mediterraneo potevamo mettere in ginocchio l’Inghilterra».
Ecco alcuni motivi con i quali sostenere che la storia per come ci viene raccontata oggi è una colossale montatura: montatura necessaria per ridurre l’Europa, con la sua millenaria civiltà, vassalla al potere del «più rapace e senza scrupoli morali, il più corrotto e corruttore, ipocrita e prepotente (e spaccone) convinto di potersi permettere qualsiasi cosa, di poter superare qualsiasi difficoltà e di far accettare questo suo comportamento in virtù della forza della propria ricchezza, del proprio denaro …». Così si esprime Renzo De Felice per etichettare gli Stati Uniti d’America.
È auspicabile che gli europei, una volta smaltita la sbronza da whisky, possano riscoprire e riproporre quelle idee abbattute esclusivamente dal potere dell’oro, della corruzione, del tradimento e prospettare una nuova era: quella definita da Giovanni Gentile l’«Umanesimo del Lavoro».
 

Filippo Giannini