La crisi dell’antifascismo
Giorgio Vitali
In un fondo di "Avvenire" di
Venerdì 1 luglio, Antonio Airò, intellettuale che non abbiamo il piacere di
conoscere, scrive: «l’antifascismo forse non è morto, ma certamente se la passa
proprio male». Airò cita lo “storico” Sergio Luzzatto, il quale ha scritto: «la
crisi dell’antifascismo esplode con il rapimento Moro, con il naufragio del
progetto di unità nazionale … e la difesa dell’antifascismo contribuì a
prepararne la crisi». Airò continua: «è una tesi che non ci convince. Già prima
durante e dopo la resistenza (o meglio le resistenze che segnarono i 20 mesi
dopo l’8 settembre) l’antifascismo, per dirlo con un altro storico Aurelio
Lepre, “non fu un fenomeno univoco, non soltanto per le differenti ideologie e
interessi di quelli che lo professavano, ma anche perché nemmeno il fascismo lo
era”… Si può rilevare piuttosto che l’antifascismo non è stato per nulla il
collante dal quale sono derivate con il ritorno alla libertà la scelta della
repubblica, l’Assemblea Costituente e la conseguente Carta fondamentale e quindi
l’affermarsi ed il consolidamento della democrazia nel nostro paese». Queste
considerazioni richiedono un nostro commento.
Finalmente si comincia a leggere qualcosa che non è condizionato dalla
propaganda bellica di stampo ideologico. L’antifascismo viene preso per quello
che è: un espediente politico messo in gioco molti anni dopo la fine della
guerra per usi interni alla dinamica politica italiana, nell’ambito molto
stretto dell’atlantismo. Per antifascismo dovendosi intendere quella posizione
assunta da alcuni esponenti dei partiti politici borghesi che si opponevano alla
conquista del potere da parte di coloro che avendo combattuto e vinto nelle
trincee del primo conflitto mondiale pretendevano, secondo una giustizia
storicamente affermata nei secoli, de impossessarsi del potere. Cosa peraltro
avvenuta tranquillamente. A conferma delle ineluttabili determinazioni storiche.
Antifascisti possono essere logicamente definiti quelle cariatidi, sempre
appartenenti alla borghesia di provincia, che ritornarono in Italia dall’esilio
statunitense a guerra finita, per riprendere un potere malamente gestito prima
ed ancor peggio gestito dopo. S’intende con queste parole caratterizzare quella
minima parte di potere concesso a costoro dal padrone atlantico e dal più
concreto potere clericale. (Con, a mo' di cacio sui maccheroni, l’egemonismo
comunista della cultura, alibi di “democratizzazione” ormai chiaro agli occhi di
tutti gli studiosi).
Tuttavia, trattandosi di gestione “locale” dell’economia, nell’ambito di
quell’orizzonte che oggi chiamiamo globalizzazione, i risultati di una politica
gretta improntata a criteri propri del notabilato di fine ottocento si sono resi
intelligibili agli italiani grazie alla crisi economica di questi ultimi tempi.
Non esistono posizioni univoche e coerenti “antifasciste” come ideologia della
cosiddetta resistenza, perché durante gli avvenimenti susseguenti l’8 settembre
coloro che si sono allineati agli Atlantici lo hanno fatto per ragioni ben poco
coerenti con il mito unitario dell’antifascismo inteso come “lotta per la
libertà”. Ed in effetti è ormai difficile sostenere che parteggiare per i
vincitori, qualsiasi sia l’ideologia da questi sostenuta, corrisponda ad un
anelito di “libertà”.
Importante è anche la considerazione che il fascismo, qui sempre valutato come
”nemico principale”, non fosse un tutto unitario e coerente, cioè “totalitario”
secondo l’accezione comune post resistenziale. Esistevano nella RSI forze
politiche e militari provenienti da ideologie disparate, spesso contrastanti,
prodotte dal dissolversi del compromesso del Regime ventennale, ma unite nel
comune interesse della difesa del territorio nazionale dall’invasione atlantica
e dell’Onore nazionale.
Infine, fondamentale il riconoscimento della totale assenza dell’ideologia
dell’antifascismo dalla Costituzione repubblicana. Infatti, la Costituzione è un
avvenimento di rilevanza storica al quale sono sostanzialmente estranei
contenuti ideologici storicamente irrilevanti come l’antifascismo. Gli elementi
determinanti della Costituzione essendo invece il frutto, e non poteva essere
diversamente, dell’elaborazione dottrinaria culturale ed ideologica degli anni
precedenti. Cioè dell’epoca fascista, esperienza social repubblicana compresa,
consistendo questa nel completamento politico delle istanze nate col movimento
fascista.
Antonio Airò conclude riferendosi all’opera di un altro storico, Francesco
Germinario il quale, nel suo recente libro: "Da Salò al governo. Immaginario e
cultura politica della destra italiana" esprime un tagliente e duro giudizio
sugli intellettuali di destra, anche quelli post-fascisti, che pure rifiutano il
totalitarismo. «Sono infatti portatori di una condanna simultanea di fascismo e
comunismo» scrive il Germinarlo, secondo il quale «la destra di estrazione neo
fascista risulta ben lontana dall’aver metabolizzato la sconfitta del
1943-1945». Sempre secondo questo autore, un progetto unitario accomuna la
destra post fascista e quella liberale: «sfrattare l’antifascismo dalla
coscienza civile e dalla memoria storica della Nazione».
Commenta Airò: «ma come si fa a sfrattare un antifascismo se questo è solo un
nemico di comodo?»
Nostro commento: il ragionamento di Airò non fa una piega. Tuttavia egli avrebbe
dovuto aggiungere che il gioco politico cui si dedica l’attuale classe dirigente
è proprio quello di stringere i concittadini nella camicia di Nesso di parametri
ormai desueti come fascismo-antifascismo, partendo dalla facile constatazione
dell’invecchiamento medio della popolazione, abituata finora a questa
contrapposizione di comodo, e del suo progressivo rincoglionimento. Infatti un
Berlusconi continua ancora con la litania del pericolo comunista mentre il
centro sinistra continua ad agitare lo “spettro fascista”. La realtà che ci
circonda, il progressivo aumento della pericolosità globale ed il peggioramento
della crisi economica essendo, secondo loro, riconducibili al dilemma
fascismo-comunismo. È peraltro evidente che il sottofondo culturale dei tanti
intellettuali post fascisti che gravitano sulla Destra più o meno di governo non
può che provocare il tagliente giudizio di Germinarlo: «Non hanno imparato la
lezione del 1943-45».
Infatti, il presupposto culturale della condanna comune al fascismo ed al
comunismo non può che consistere in una superficiale ed edulcorata definizione
comune di “totalitarismo” inteso come qualcosa di contrario alla democrazia,
presa come parametro di ”buongoverno”. Il ché è un falso storico prima che
ideologico. Con anima vergine, dimenticando una feroce guerra civile che vide
scontrarsi, e non a caso, due fondamentali concezioni del mondo, gli
intellettuali di destra disquisiscono del sesso degli angeli e non solo:
difendono le “Democrazie Occidentali” contro il “pericolo islamico”! Ed in
questo andirivieni di ideuzze e di mezzi termini, sprofondano nell’indifferenza
e nell’alienazione generali. Se si ignorano i contenuti, le concrete esigenze e
le concrete realizzazioni del passato, infatti, tutto si diluisce in una pappa
insignificante come, appunto, l’antifascismo che sta perdendo ormai tutti i fili
della trama che ha tenuto in piedi finora il regime postbellico filo-atlantico.
Giorgio Vitali
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