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COMUNICATO STAMPA
(29 gennaio 2002)

 

IL VENTO DIVINO

 

La Federazione Nazionale Combattenti della RSI ritiene opportuno formulare alcune riflessioni sul recente incontro interreligioso di Assisi: non perché ivi sia avvenuto un qualcosa di nuovo che implichi una renovatio  o una reformatio  del senso di marcia prescelto dal cristianesimo contemporaneo, bensì per costatare che, come era logico aspettarsi, ad Assisi si è deciso di persistere nel «mettere il vino nuovo nelle otri vecchie».

Il cristianesimo può procedere secondo tre basilari direzioni: verso la creazione dello Stato universale come concretizzazione dell’ordine celeste, verso la netta separazione dei poteri, in attuazione del principio «il mio potere non è di questo mondo», oppure verso il compromesso con Cesare, così da trasformarsi in struttura di supporto e di servizio del suo potere.

Che il cristianesimo abbia optato per la direzione a suo tempo presa dall’ambiente sacerdotale contro cui fu costretto a combattere il Cristo, non vi sono dubbi, né vi possono essere incertezze sul carattere sovversivo del suo agire.

Caduti i muri, una sola superpotenza ora gestisce la situazione mondiale e lo fa seguendo i canoni operativi espressi nel Congresso di Vienna (chi non ricorda le sciocchezze sublimi di Pio VII ?) e quelli stabiliti nell’incontro di Yalta: privare i popoli di ogni possibilità rivoluzionaria prevenendo con tutti i mezzi i motivi di turbamento e di insorgenza contro la plutocrazia.

Siffatte regole hanno prodotto quella globalizzazione delle merci, del terrore e delle fedi religiose, diretta contro singoli, gruppi e popoli che stentino ad adeguarsi o che si ribellino al nuovo ordine mondiale. L’odierno trionfo del DIO-DENARO dimostra la chiaroveggenza e l’effettiva fondatezza della guerra del sangue contro l’oro, e che il sacrificio dei nostri Caduti non è stato vano.

Tornando ad Assisi, il quotidiano della CEI del 25 c.m. ha fornito la chiave di lettura, dell’avvenimento, il quale avrebbe avuto il significato dell’«11 settembre rovesciato, un grido di amore e che si sovrappone e s’oppone all’urlo dei terroristi suicidi …», e ha registrato la cronaca di una spettacolarizzazione delle religioni in vero magistrale. Indubbiamente, il fatto che duecento capi religiosi, in rappresentanza di dodici religioni, che pregano il proprio Dio insieme col Papa, costituisce un accadimento inusitato. Nessuno però si è fatto carico di verificare se quel che essi abbiano fatto e detto sia espressione autentica delle esigenze religiose, sociali e politiche dei rispettivi popoli.

Senza minimamente rilevare l’indebita intrusione di elementi specificamente politici, in un clima ferreamente manicheo, dall’arcivescovo di New York a Rutelli, da Berlusconi al coreano Chang-Gyou Choi, tutti hanno rilasciano dichiarazioni convergenti nell’unica volontà di lotta al terrorismo e alla guerra. Soltanto Roberto Piccardo, segretario dell’Unione delle comunità islamiche in Italia, ha mostrato una certa divergenza di vedute. Fra l’altro, egli ha giustamente sostenuto: «Noi siamo disposti a perdonare come ci sollecita il Papa, ma dobbiamo vedere la stessa disponibilità dall’altra parte. In difetto questo perdono rischia di essere interpretato come un segno di debolezza».

Del tutto fuori del coro si sarebbe posta la voce del rabbino Singer, se però avesse avuto il coraggio di leggere «il testo del suo discorso distribuito in anticipo ai giornalisti» in cui, come ha riferito L. Gianinazzi, «c’era una lunga disquisizione sul diritto di condurre guerre contro gruppi specifici, battaglie che devono essere combattute spietatamente e senza misericordia …».

Alla fine, con un imprevisto fuori programma riguardante le condizioni atmosferiche, il Papa ha esclamato: «Hanno parlato gli uomini. Ha parlato anche il vento. Vento forte, vento dello Spirito. Che lo Spirito voglia parlare al cuore di tutti noi».

Ancora una volta, negando le intenzionalità etico-religiose che connotano (sempre in minor misura, purtroppo) la missione dei veri politici, si è data l’impressione essere la teologia prerogativa esclusiva dei chierici. I quali però si sono ben guardati dal ricercare possibili relazioni fra lo Spirito evocato dal Pontefice e quello dei Kamikaze.

Il che ci riconduce nel nostro alveo naturale, nella nostra temperie etico-religiosa e politica, la quale, di contro alla strumentalizzazione del sentimento religioso, impone la recisa negazione del dovere additato dal Papa, il quale dovrebbe consistere nel «… più netto e radicale ripudio della violenza, a partire da quella che pretende di ammantarsi di religiosità …».

È nostra convinzione che non sia né da uomini né da cristiani invocare la pace ad ogni costo, poiché tale atteggiamento a fronte di coloro i quali invadono nazioni, bombardano indiscriminatamente popolazioni inermi e affamano i 4/5 dell’umanità per meschini interessi materiali, significa sottrarsi ad un necessario dovere.

Noi crediamo che, al pari dell’amore per il camerata che si batte per la difesa della patria comune, l’odio del nemico, quale espressione concreta del male, sia un sentimento autenticamente umano e cristiano.

Siamo cultori e divulgatori di riflessioni teologiche che hanno per oggetto il buon Dio, ma non escludono affatto l’uomo in quanto microcosmo necessariamente inserito nel contesto sociale, economico, giuridico, religioso e politico. Riflessioni organiche e aggiornate le nostre, le quali ci inducono alla radicale contrapposizione rispetto all’odierno relativismo religioso, secondo il quale l’amore, la bellezza, la verità e la religiosità sarebbero valori validi soltanto a seconda dei tempi e dei luoghi. La nostra teologia nacque e si maturò nella battaglia come prodotto di profonda rigenerazione ontologica; essa ha il sapore del sangue: non si piegherà mai alle lusinghe delle realtà contingenti.

I kamikaze, lungi dal pretendere «di ammantarsi di religiosità», dando e dandosi la morte, compiono azioni che trascendono l’inarrestabile declino delle religioni e il totale eclisse del sacro. E dal momento che la moralità dell’agire si concretizza nei comportamenti, l’etica kamikaze esige, a nostro parere, più adeguati criteri assiologici e più caute considerazioni su quel che sta avvenendo nel mondo. Poiché l’errore –che non è mai assoluto– reca pur sempre in sé istanze implicite di verità e di giustizia. Dice a riguardo Tommaso d’Aquino: «Impossibile est aliquam cognitionem esse totaliter falsam absque admixtione alicuius veritatis» (Cfr.S.Th.II-II,q.172,a.6).

Per coloro i quali sono permeati del concetto cristiano che considera la vita come dono di Dio di cui l’uomo, similmente per quanto attiene ai beni terreni, è amministratore e non proprietario, il suicidio contraddice ogni legge morale. Tuttavia, ciò impedisce loro di cogliere a pieno l’intima essenza  dell’etica schintoista e quella del Kamikaze che ne deriva, sebbene vi sia una notevole analogia escatologica fra le due religioni, la morte quale passaggio ad altra esistenza.

La denominazione Kamikaze (Nomina omina, il nome indica il destino di chi lo porta) risale al 1281, anno in cui il Dio ISE, con una spaventosa tempesta, sbaragliò la flotta di Kublai-Kan in procinto d’invadere il Giappone con migliaia di giunche cariche di guerrieri. Conseguentemente furono chiamati Kamikaze quei piloti giapponesi che, consapevoli dell’impossibilità di affondare le navi americane con mezzi normali, facendo propria la concezione della morte necessaria, si scagliarono sulle navi nemiche con l’aereo carico di bombe.

Simili azioni furono compiute anche da reparti speciali delle fanteria nipponica durante la guerra russo-giapponese dal 1904/5 e vennero chiamati proiettili umani. Per analogia, noi abbiamo chiamato siluri umani gli ardimentosi uomini della Decima Flottiglia MAS, che arrecarono ingenti danni alla flotta britannica del Mediterraneo. Si deve riconoscere, quindi, che quello del Kamikaze sia un atto autenticamente umano, in quanto realizza la più compiuta sintesi di essere-conoscere-volere-agire. Intriso di altissima religiosità e di totale abnegazione per una causa ritenuta nobile e giusta, tale atto assume tutti i caratteri della necessità estrema e attinge i vertici massimi dell’eroismo, cioè della santità laica. È da osservare altresì che, anche per quel che concerne l’islamismo, l’ambivalenza fra il piano religioso e quello socio-politico, non è di facile distinzione.

Attesi gli inconfondibili aspetti culturali, religiosi e geostorici dell’Europa, che la distinguono nettamente dall’Occidente e dall’Oriente, ci domandiamo dove sia la sua religiosità e che fine abbia fatto «l’uomo tempio di Dio». Capaci ormai di compiere soltanto atti dell’animale-uomo, atti cioè non imputabili alla libera scelta personale, ma inetti a produrre quelli veramente umani nel senso di efficaci deliberazioni della volontà, gli squallidi epigoni dei bottegai d’oltreoceano striscianti sul suolo europeo, sono ridotti a meri tubi digerenti in grado unicamente di produrre per consumare. Del tutto secolarizzati essi non solo non comprendono, ma osano bensì dileggiare la disperata azione-reazione del vento divino. Per contro, gli attacchi Kamikaze sferrati a Nuova York e a Washington, quali ne siano gli ideatori e organizzatori (non siamo convinti che trattasi di un affare made in USA), sono stati effettuati però da persone religiosamente convinte di adempiere un supremo dovere rispetto al loro Dio e ai loro popoli ingiustamente e troppo lungo resi oggetto di rapina e di inumani sfruttamenti: identificarli per fanatici terroristi, costituisce, a nostro avviso, atteggiamento del tutto irreligioso, che cela l’eteronomo adeguarsi ad un potere contrario agli interessi dei popoli oppressi.

Come che sia, non crediamo che il «Satana di turno», dall’interno delle caverne dell’Afghanistan, abbia potuto ideare, preparare e far effettuare azioni tanto così difficili e complesse; oppure che un qualunque Stato possa essersi spinto a mettere in pericolo la propria esistenza, senza domandarsi cui prodest? Infine, ammesso pure che sia vero tutto quello che i media ci propinano, di quali diverse e meno distruttive possibilità potevano disporre gli autori di quegli attacchi per far valere le proprie ragioni? Forse di qualche migliaio di inutili ricorsi all’ONU (del padrone)?

Di terrorismo (in quanto tale sempre condannabile) semmai sono responsabili coloro che, adducendo a pretesto gli attacchi in argomento, stanno attuando sanguinosi piani di dominazione mondiale. Opporvisi è un semplice dovere morale e religioso, prima che etico e politico.

 

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p. Il Comitato Direttivo
F. G. Fantauzzi