Italia - Repubblica - Socializzazione

 

COMUNICATO STAMPA
(25 aprile 2002)

 

Repubblica Sociale Italiana - 57 anni dopo

 

 

La costituzione della Repubblica Sociale Italiana -la cui necessità storica risiede nel fatto che sarebbe impensabile la sua non esistenza- rappresenta l’ultimo evento storico nazionale al quale le generazioni a venire possono guardare senza arrossire.

Da millenni le vicende umane non registravano significative presenze catalogabili come squisitamente italiane; con la RSI oltre un milione di italiani (non più veneziani, pisani o genovesi) a guerra perduta, sorsero in armi per riaffermare dinanzi al mondo valori essenzialmente spirituali:

* la coscienza di sé della Nazione e il diritto alla sua sovranità;

* l’assoluta originalità ed inconciliabilità della propria rispetto alle altre concezioni del mondo esistenti.

Benché sia stato sciaguratamente tentato d’infrangere i vincoli che uniscono queste vitali esigenze, siffatta restitutio in integrum è parte non marginale della nostra storia, ed è il solo accadimento foriero di un fecondo destino di dignità e fierezza per i nostri figli e nipoti.

Dai primi documenti riguardanti la formazione del governo repubblicano emerge una situazione generale oltremodo desolante. Le città semidistrutte, le FF.AA. disperse o fatte prigioniere, i Corpi di polizia disgregati, le autorità locali latitanti o inefficienti e la incombente minaccia della polonizzazione dell’Italia fornivano un quadro che taluno ha visto come la morte della Patria.

A ciò si aggiunga che, per opposte ragioni, tedeschi e angloamericani presentavano gli italiani alla stregua di gente pavida, che non ispira fiducia; e che si trattò di vivere e operare sotto l’incubo del terrorismo aereo, quello dei partigiani che ci sparavano alle spalle e quello psicologico di Radio Londra, che ogni notte, incitava all’odio e al massacro fra italiani.

C’era tutto da rifare e si disponeva di niente altro che di uno sterminato amore per l’Italia e per il suo popolo cento volte traditi.

Quel che si riuscì a fare ebbe il sapore sacro della fede, del dovere e della non rassegnazione.

Tuttavia, solo dopo qualche mese, il Tricolore repubblicano comparve sui campi di battaglia. Anziani, giovani e giovanissimi ripresero a cantare gli inni della Patria. Ammirevole, ed esaltante la condotta delle donne, di tutte le nostre donne. E fu vera gloria: non si chiedeva più di vincere, ma di combattere, di combattere e morire. In quelle condizioni, contraddistinte da tensioni e settarismi, era fatale che si manifestassero divergenze di vedute e malintesi; malesseri che, dovendosi interpretare come meri segni dei tempi, non debbono più costituire motivo di ulteriori divisioni.

Le vicende interne alla RSI sono abbastanza note, ma non sempre, ad es., si è compreso a pieno il senso del grave contrasto Ricci - Graziani in relazione all’ordinamento delle nuove FF.AA.; né è stato mai sufficientemente posto nel dovuto rilievo l’atteggiamento super partes assunto dal Duce in varie occasioni, ma soprattutto in ordine al processo di Verona. Ciò trasse origine dalla inadeguata capacità di taluni ambienti del PFR d’immedesimarsi nella nuova condizione psicologica e nei veri pensieri di Mussolini, il quale, essendo ora a capo di una repubblica, secondo l’efficace espressione di Giorgio Pini, era sempre meno Duce.

Tant’è che si giunse all’inopinato e drammatico intervento di Alessandro Pavolini: «Duce, non sono io che vi parlo; attraverso la mia bocca vi parlano i trecentomila fascisti repubblicani che, (…) vi hanno sempre ciecamente seguito; in considerazione di questa loro lealtà, per questioni sentimentali che appartengono esclusivamente a voi e alla vostra famiglia non dovete permettere che i fascisti rimangano ancora una volta delusi e traditi (…) ma se giustizia non sarà fatta, vi prego di accettare sin da questo momento le mie dimissioni».

Incomprensioni di animi esacerbati a parte, l’eccidio sulle rive del lago di Como, la barbarie di Piazzale Loreto e l’«epopea delle radiose giornate» suggellano col marchio dell’infamia «gli inglesi di dentro e quelli di fuori», e relegano l’Italia nel ruolo internazionale di mera comparsa.

Non vi sono dubbi che in ciò si palesano tracce evidenti dell’aberrante tradizione ebraica concernente la strage sacra.

Un importante elemento subdolamente occultato dalla dirigenza massonica del neofascismo è l’ultima Dichiarazione del PFR: del 5 aprile 1945, che reca più incisive norme sull’applicazione del programma sociale di Verona, «senza falsarlo con esagerazioni parziali o con parziali omissioni», e che avrebbe dovuto costituire oggetto di costante riflessione critica allo scopo di ristabilire il contatto diretto e fecondo di quelle idee con la realtà del mondo del lavoro, dal momento che nelle civiltà tradizionali e volontaristiche il futuro non è visto come un dato possibile di conoscenza, bensì come concreta opera dell’uomo.

Poiché, come recita la mozione conclusiva approvata a Treviso il 23 aprile 1967 dalla VII Assemblea nazionale della FNCRSI, (documento pressoché sconosciuto anche nel contesto dei Combattenti della RSI): «Il PCI (…) ha trasformato il suo carattere di partito rivoluzionario (…) Nel 1946 si poteva credere che l’appoggio del PCI alla costituzione borghese italiana fosse di origine tattica, oggi lo stesso appoggio al sistema democratico (politica unitaria fino ai cattolici, rinuncia all’ortodossia rivoluzionaria, pacifismo, clientelismo organizzato, ecc.) non può che definirsi di carattere strutturale».

Analoga metamorfosi era stata propiziata nell’ambiente neofascista: «Tutta l’azione del MSI è stata una testimonianza di questo indirizzo riformista e collaborazionista (…) la stessa qualificazione di partito di destra sollecitata in mille modi (…) ma non possono tacersi gli effetti che il sacrificio dell’indirizzo politico rivoluzionario ha prodotto nella stessa struttura organizzativa del partito, nell’abbandono della preparazione dei quadri, nella rescissione di ogni rapporto con una dottrina politica derivante da una concezione del mondo e nella conseguente adozione di una tematica e di una prassi politica impostata sulle piccole idee occasionali …».

Tale insulsa linea etico-politica ha prodotto il dissolvimento di quell’ambiente, e ora -di contro al nobile gesto di G. Battista Perasso- si va completando nelle assurde manifestazioni con sventolio di bandiere USA e di compunte deposizioni di sassolini sui gradini delle sinagoghe.

 

La resistenza

Contemporaneamente, con i soldati sbandati dopo l’8 settembre (che non potevano raggiungere le famiglie nelle regioni occupate dal nemico) e con i seguaci dei partititi antifascisti riorganizzatisi dopo il 25 luglio, gli Alleati propiziarono la formazione dei primi nuclei partigiani e apportarono ulteriori elementi di disgregazione sociale, morale e politica.

Col passare del tempo, l’organismo partigiano, non potendo continuare ad autofinanziarsi «doveva essere approvvigionato, sfamato, mantenuto», poiché «agli Alleati non conveniva rompere con la resistenza, ma al contrario, cercare un punto d’accordo con essa che permettesse loro di servirsi il più possibile delle sue potenzialità e che per parte sua la resistenza non poteva fare a meno degli Alleati». (Cfr. R. De Felice,"Mussolini l’alleato - La guerra civile 1943-1945", Einaudi, Torino 1998, p. 259).

Al di là della inaffidabile memorialistica partigiana, e al fine di una più chiara comprensione della situazione attuale, è opportuno che i Combattenti della RSI e i loro simpatizzanti considerino con maggiore attenzione la documentazione riguardante la resistenza contenuta nell’opera sopra citata.

Da essa emerge anzitutto che sia RSI che la resistenza operarono nel contesto di una realtà sociale e morale completamente occultata  o travisata dalla vulgata resistenziale. Secondo un protagonista non secondario del movimento partigiano (il banchiere Alfredo Pizzoni), questa era la situazione a due mesi dal 25 aprile 1945: «soltanto una minoranza di una determinata classe -quella operaia- era interessata politicamente alla resistenza, mentre la massa era apatica, ineducata e sospettosa» (ibidem. p. 296). Pertanto, l’atteggiamento della assoluta maggioranza degli Italiani sarebbe stato di «sostanziale estraneità e di rifiuto sia della RSI che della resistenza» (ibidem, p. 275). Quindi, senza il denaro degli Alleati «la resistenza avrebbe cessato di costituire una realtà politica e militare» (ibidem. p. 270). Ciò non vuol dire che nella resistenza non fossero operanti alcuni idealisti del tutto estranei alle suddette macchinazioni. Nondimeno, ad essi va rammentato che è blasfemo il solo parlare di libertà in una patria che non sia integralmente libera. E che, se la resistenza non fosse stata soprattutto restaurazione sociale e politica, avrebbe elevato i lavoratori italiani a livelli di vita culturale ed esistenziale ben superiori a quello che vede ancora posti a difesa del neoschiavistico mercato del lavoro, e dell’art. 18 del loro statuto, il quale, rispetto alla socializzazione fascista rappresenta una vera e propria regressione, nell’accezione più negativa di questo termine.

A prescindere dalla truffaldina politica del gonfiare al massimo le file partigiane, tutto procedeva secondo la sferzante espressione di Macmillan «chi paga il sonatore stabilisce la musica» (ibidem, p. 269).

Importante, a riguardo, è la riflessione di Aga Rossi: «All’interno del campo occidentale vi erano divergenze non soltanto tra il governo americano e quello inglese, ma anche tra i militari e i politici (…) e coloro che si trovavano in diretto contatto con la realtà del paese …».

Secondo G. Bocca: «pressoché tutte le formazioni, quale che fosse il loro colore politico, tra ottobre e dicembre (del 1944, N.d.R.), quindi a pochi mesi del 25 aprile, gli effettivi della resistenza persero, caduti a parte, oltre trentamila uomini su circa ottantamila» (Cfr. "Storia dell’Italia partigiana", p. 515).

Ci domandiamo dove fosse il tanto vantato consenso totalitario di popolo per la resistenza. E come si possa storicamente giustificare l’appoggio incondizionato fornito dal governo del Sud alle bande di Tito che, spalleggiate soprattutto dagli inglesi, si apprestavano a compiere una delle più vergognose pulizie etniche della storia recente.

Deve inoltre essere sottolineato che la resistenza italiana risulta essere del tutto anomala rispetto agli analoghi movimenti europei, in quanto combatteva contro un legittimo governo nazionale riconosciuto da una pluralità di nazioni e contro un esercito straniero non invasore, bensì non occasionalmente alleato dell’Italia.

In ogni modo, i Combattenti della RSI che intendano acquisire piena consapevolezza del valore morale, politico e militare della resistenza italiana, la quale fu voluta, diretta e pagata (con diritto di rivalsa garantito del governo demomassonico italiano) dal nemico invasore, non possono non conoscere ogni dettaglio previsto dal promemoria di accordo, sottoscritto per il CLNAI, a Roma il 7 dicembre 1944, da Alfredo Pizzoni, Giancarlo Pajetta, Edgardo Sogno e Ferruccio Parri (Cfr. pp. 245-46 della citata opera di R. De Felice).

 

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p. Il Comitato Direttivo
F. G. Fantauzzi