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I motivi e le prove oggettive che rendono la "storica versione" assolutamente inattendibile

Morte Mussolini: fine di una "vulgata"

Maurizio Barozzi   

 

«Quella morte doveva essere raffigurata comunque come vile, spregevole, infame e abietta: ed ecco la necessità di ricorrere, senza timori di essere smentiti, alla più smaccata e sistematica manipolazione dei fatti".

A. Zanella, "L'ora di Dongo", Rusconi 1993

 

L'impropriamente detta "storica versione" o "versione ufficiale", raccontata dal colonnello Valerio, alias Walter Audisio, sulla morte del Duce, così tanto impasticciata e contraddittoria, dopo essersi malamente barcamenata per oltre 60 anni di fronte alle tante e sacrosante critiche che gli sono state elevate, si può dire che sia stata, almeno ufficiosamente, liquidata quando il regista Carlo Lizzani già autore del film "Mussolini ultimo atto" del 1974, che tanto aveva contribuito a divulgarla nell'immaginario collettivo, in un passaggio del suo libro di memorie, ha reso noto nel 2007 che Sandro Pertini, un pezzo da novanta della Resistenza, subito dopo aver visto il film, gli scrisse una lettera nella quale affermò: «... e poi non fu Audisio a eseguire la "sentenza", ma questo non si deve dire oggi». [1]

Ciò che ha consentito a questa vulgata, come la definiva Renzo De Felice, di sopravvivere per tanti anni è dovuto, oltre alle necessità politiche del tempo, soprattutto al fatto di rappresentare comunque una parte della verità, anche se "una parte" stravolta in alcuni episodi determinanti, spesso verosimile, ma non veritiera, la quale miscelava fatti veri ad altri inventati, ma pur sempre e almeno in parte, attestabili qua e là, nella raccolta delle testimonianze visto che certi eventi si erano effettivamente verificati anche se non nei termini in cui venivano raccontati.

Occorre premettere che questa "storica versione" è articolata attraverso multiformi resoconti che possono riassumersi nei seguenti passaggi, ai quali dobbiamo giocoforza riferirci nonostante le profonde contraddizioni che presentano tra di loro:

1. Il primo anonimo resoconto, pubblicato da "l'Unità" il 30 aprile 1945;

2. i 24 articoli pubblicati da "l'Unità" dal 18 novembre al 24 dicembre 1945, su relazioni del colonnello Valerio, avallati da due righe di presentazione scritte da Luigi Longo, già comandante delle Brigate Garibaldi e vice comandante del CVL;

3. i sei articoli, nomati "Il Colonnello Valerio racconta", pubblicati ancora su "l'Unità" a partire dal 25 marzo del 1947 e questa volta firmati da Walter Audisio;

4. il libro postumo "In nome del Popolo italiano", Edizioni Teti 1975, di Walter Audisio:[2]

5. la "Relazione riservata al partito" del 1972 di Aldo Lampredi (Guido Conti) resa nota integralmente da "l'Unità", il 26 gennaio del 1996;

6. le testimonianze di Michele Moretti (Pietro Gatti), raccolte da Giusto Perretta, al tempo presidente dell'Istituto comasco per la storia del movimento di Liberazione, nel libro "Dongo, 28 aprile 1945. La verità", Ed. riveduta Actac 1997.

Visto che non venne mai resa una relazione ufficiale al CLNAI, al tempo rappresentante del governo italiano al Nord Italia, nè al CVL (Corpo Volontari della Libertà, praticamente il comando militare della Resistenza) e neppure in seguito, agli organi dello Stato italiano, sono questi i testi base che possono definirsi "ufficiali" della "storica versione", ma in realtà occorre dire che la stessa storiografia di parte resistenziale ha prodotto, in tutti questi anni, un certo revisionismo non dichiarato, più che altro apparente, con il quale ha ridimensionato molti degli sproloqui e delle fanfaronate raccontati da Walter Audisio, oggi considerati come una necessità del dopoguerra, atta alla smitizzazione del mito del Duce.

Questo revisionismo apparente può già riscontrarsi nella stessa Relazione riservata di Aldo Lampredi del 1972, con la quale l'autore ridimensionò sensibilmente molte delle fanfaronate di Audisio, ma in ogni caso si può dire che, nonostante queste precisazioni, la "storica versione" di Audisio è rimasta sostanzialmente immutata, in particolare per gli episodi decisivi che attestano la fucilazione del Duce e riguardano il luogo (il cancello di Villa Belmonte in via XXIV maggio a Giulino di Mezzegra), l'orario (le 16,10 del 28 aprile 1945) e il terzetto dei partigiani comunisti presenti (Walter Audisio Valerio, Aldo Lampredi Guido, e Michele Moretti Pietro) con Audisio nel ruolo di "sparatore".

Qualche autore revisionista ha tuttavia lasciato un piccolo margine di incertezza, supponendo che a sparare a Mussolini non sia stato il solo Audisio, ma forse, in una fase caotica di quei momenti, anche il Michele Moretti e/o il Lampredi così come sosteneva Luigi Carissimi-Priori al tempo capo dell'ufficio politico della questura di Como. [3]

Riassumendo, in estrema sintesi, questa "storica versione" possiamo dire che essa vorrebbe attestare quanto segue:

Mussolini e la Petacci nascosti all'alba del 28 aprile '45 a Bonzanigo in casa dei contadini De Maria; incarico segreto assegnato, nella notte precedente, dal comando generale del CVL e da Luigi Longo in particolare, a Walter Audisio, alias colonnello Valerio, coadiuvato da Aldo Lampredi Guido, per andare a fucilare sbrigativamente il Duce e gli altri ministri e personalità del fascismo arrestate a Dongo; partenza di Audisio e Lampredi da Milano per Dongo verso le 7 del mattino del 28 aprile, passando per le autorità locali del CLN nella Prefettura di Como, scortati da un plotone dell'Oltrepò pavese di circa 12 partigiani più i loro comandanti Alfredo Mordini Riccardo e Giovanni Orfeo Landini Piero; lunga sosta in Prefettura a Como per presentazioni, chiarimenti e incomprensioni varie con gli esponenti locali del CLN.

Di seguito, arrivo di Audisio a Dongo verso le 14,10 e, quasi contemporaneamente, di Lampredi (giunto con alcuni dirigenti della Federazione comunista di Como) che in Prefettura si era separato da Audisio; spiegazioni con i comandi della 52ª Brigata Garibaldi; diversivo pomeridiano verso Bonzanigo del trio "giustizialista" Audisio, Lampredi e Moretti, accompagnati dall'autista requisito sul posto Giovanbattista Geninazza e fucilazione alle 16,10 del Duce e della Petacci nella sottostante Giulino di Mezzegra davanti al cancello di Villa Belmonte; ritorno a Dongo di Audisio e gli altri e fucilazione pubblica di 15 esponenti, o presunti tali, del governo e del fascismo, più Marcello Petacci, ecc.

È questo il quadro generale della versione ufficiale, raccontata con il corollario di molte incongruenze, nominativi e particolari poi smentiti o variati da una versione all'altra, tanto che possiamo dire che essa costituisce una parte di verità, ma non tutta!

Ferma restando la spedizione di Valerio a Como e Dongo, infatti, basta inserire in questo quadro il diversivo, rimasto segreto, di una sbrigativa e proditoria uccisione del Duce al mattino, tramite un altro commando appositamente partito da Milano o reperito sul posto (Como e dintorni) e quindi la messa in scena, nel pomeriggio, di una finta fucilazione a Villa Belmonte, perché i pezzi del mosaico vadano a posto e si spieghino tutte quelle incongruenze e assurdità e le tante testimonianze spesso inverosimili o altrimenti incomprensibili che più avanti illustreremo.

E la supposizione di questo "diversivo", non è un esercizio gratuito o aleatorio, ma scaturisce dalla constatazione di elementi e fatti oggettivi, oltre ad alcune importanti testimonianze, che lo possono ragionevolmente far ricostruire con molta attendibilità.

Lo scopo di questo nostro studio, però, non è quello di svelare e ricostruire quanto esattamente accadde quel giorno a Bonzanigo e Giulino di Mezzegra, ma dimostrare innanzi tutto la assoluta inattendibilità della "storica versione".

Gli irriducibili paladini di questa "vulgata", infatti, sostengono che essa può essere smontata soltanto da documenti accertati nella loro validità e da testimonianze comprovate. [4]

Una asserzione certamente legittima se non fosse che documenti e testimonianze mancano del tutto, proprio laddove si vuole attestare l'episodio più determinante di questa "versione", cioè quello che alle 16,10 del 28 aprile 1945, in Giulino di Mezzegra, davanti al cancello di Villa Belmonte furono fucilate due persone ancora in vita! [5]

Mai come in questo caso, infatti, la raccolta delle testimonianze, più o meno veritiere, non porta da nessuna parte per il semplice motivo che quel pomeriggio, al cancello di Villa Belmonte venne inscenata, alla chetichella, una fucilazione con tanto di sparatoria, così come poco prima ci fu il breve transito di due soggetti, presunti Mussolini e la Petacci per la piazza del Lavatoio in Bonzanigo, episodi questi che si sono sovrapposti ad altri episodi, mistificando tutta la realtà dei fatti. [6]

Viceversa alcuni elementi oggettivi e molti altri di enorme rilevanza, stanno a dimostrare che, prendendo ad uno ad uno certi eventi narrati da questa multiforme e inattendibile "storica versione", si nota subito come per alcuni di loro è impossibile che si siano effettivamente verificati nei termini in cui sono stati narrati, altri hanno una evidente assurdità di fondo perché sono privi di un minimo di logica o troppo incongruenti ed altri ancora non sono credibili perché pongono seri dubbi e non collimano con molte testimonianze e dati di fatto.

Parafrasando lo scomparso Franco Bandini, possiamo dire che ognuno dei singoli attestati della "storica versione", che noi ora andremo a mettere in dubbio, mostra una massima inverosimiglianza, spesso un grado zero di credibilità. Presi tutti insieme, mettono a nudo l'impossibilità fisica che le cose siano andate come si è voluto far credere. [7]

Nel presentare la nostra controinformazione, dobbiamo premettere che essa è il frutto di un attento studio delle documentazioni inerenti questa materia, della comparazione e dell'incrocio delle testimonianze riconosciute dalla stessa storiografia resistenziale, scartando invece quella letteratura in argomento che risulta alquanto inattendibile [8] e applicando a tutto questo un minimo di logica per gli avvenimenti narrati, sia pure considerando le imprevedibili contingenze di quei caotici e difficili momenti.

Riporteremo ora di seguito tutti i motivi per i quali la "storica versione", comunque la si prenda, risulta assolutamente inattendibile. Per non estendere a dismisura la presente trattazione, abbiamo escluso tante contraddizioni e variazioni di minor conto, anche se pur sempre significative, che si riscontrano comparando tra loro le varie versioni di Audisio.

Il nostro studio, comunque, coinvolgerà sia episodi e testimonianze che potrebbero anche avere un carattere relativo, nel senso di riguardare particolari magari introdotti nella "storica versione" per motivi denigratori o necessità politiche, e che forse potrebbero costituire solo un "falso espositivo", ma non sostanziale e sia particolari che invece, comunque li si consideri, dimostrano oggettivamente la non verità degli eventi raccontati.

In ogni caso, tutto l'insieme di questa "versione", ovvero le alterazioni per esigenze politiche e le alterazioni per mistificare la realtà dei fatti, ne costituiscono la sua sconfessione piena.

Useremo tre termini, Non credibile, Assurdo ed Impossibile per qualificare, con un diverso grado di importanza e gravità, i fatti insoliti, i dubbi, le incongruenze, le assurdità e le impossibilità di fatto della versione ufficiale. Questi termini però non sono categorici.

- In pratica, con Non credibile, vogliamo intendere che quanto ci è stato, a volte anche contraddittoriamente raccontato, ha poca credibilità anche se non ci sono prove oggettive per dimostrare il contrario e rientrando l'episodio o la testimonianza in un minimo di logica non può neppure essere definito assurdo: può quindi anche essere andata, almeno in buona parte, come raccontato, ma si stenta a crederlo.

- Assurdo, invece, è proprio ciò che viene attestato, ma che oltre a non essere credibile è anche privo di una certa logica. Quindi è molto probabile, anche se non è oggettivamente e pienamente dimostrabile, che il fatto in questione non sia come riportato, perché è difficile che possa essersi verificato nella realtà anche se, certi avvenimenti, possono spesso realizzarsi dietro logiche, fatti e risvolti assurdi oppure a seguito di circostanze non conosciute.

- Impossibili infine sono quei fatti e quelle testimonianze che ogni logica e/o un minimo di prove ne attestano la loro impossibilità ad essersi effettivamente verificati.

 

Non è credibile, Assurdo, Impossibile

 

NON È CREDIBILE. Iniziamo con un evento che per l'aleatorietà dei fatti raccontati e la mancanza di attestazioni comprovabili, non consente di indagarlo a fondo e resta di minore importanza rispetto alla confutazione della "storica versione". Parliamo del castelletto di racconti che, in parte, potrebbero anche essere veritieri, ma sicuramente non nelle modalità e finalità di come sono stati riferiti. Si tratta del viaggio intrapreso da Dongo, dai comandanti della 52a Brigata la notte tra il 27 e 28 aprile '45 e terminato con il nascondere Mussolini e la Petacci a Bonzanigo dopo esser passati (dicono) per Moltrasio.

Le giustificazioni rese, più che altro dal Bellini e successivamente dal Moretti Pietro, con l'aggiunta di contraddittorie testimonianze da parte di Raffaele Cadorna o di Giovanni Sardagna (Comando del CVL a Milano e referente a Como), tutte poi modificate negli anni e contraddicendosi alquanto per il loro insieme nebuloso, per gli scopi ambigui presupposti dalla missione, per i presunti e fantasiosi piani di salvataggio del Duce e per la loro dinamica indefinibile, fanno risaltare una inverosimiglianza nello svolgersi di quelle vicende notturne. [9]

Con quel poco e contraddittorio che ci è stato fatto conoscere, non è possibile stabilire con certezza e dove trovasi la falsità dei racconti. Una testimonianza che forse dimostrerebbe il viaggio a Moltrasio è quella del comunista Alonso Caronti che vide due macchine dove in una c'era una donna ed un uomo con la testa fasciata, che vide due macchine dove in una c'era una donna ed un uomo con la testa fasciata, ma si riportano anche le stesse testimonianze in modo divergente.[10] Come possiamo fidarci?

Comunque sia, per prima cosa, non convincono affatto le spiegazioni fornite sul "perchè" a Mussolini venne aggiunta la Petacci, esponendo in tal modo la donna a rischi mortali. Tra tante personalità e gerarchi importanti (per esempio Pavolini) si va a scegliere una donna che non ha ricoperto ruoli nella politica o nelle Istituzioni. Si consideri poi che si era in un epoca in cui le donne, pur poco considerate dal punto di vista socio-politico, erano però ritenute pressoché intoccabili persino dalla malavita ed è quindi evidente che si agì in tal modo dietro precisi ordini, ma di chi? In sede locale a Dongo, visto che a Milano forse neppure sapevano che con Mussolini c'era una donna? O qualcuno lo sapeva? Un altrettanto preciso ordine (di chi?) mosse questo gruppo da Dongo, dopo aver caricato anche la Petacci, dopo le 2,30 di notte verso una meta ben precisa. Difficilmente a Dongo, senza ordini superiori, avrebbero potuto prendersi queste responsabilità. Dai partigiani del posto, al massimo, può essere stato consigliato e approntato il precedente provvisorio trasporto di Mussolini nella vicina casermetta delle GdF di Germasino, ma non un ordine di occultamento in luogo segreto e distante, con tutti i rischi di trasporto che ne conseguono (da Dongo all'imbarcadero di Moltrasio sono quasi 45 Km. da farsi in una nottata dove poteva ancora accadere di tutto e di tutto si poteva incontrare).

E a questi ordini, il trio Pier Bellini delle Stelle, Luigi Canali, Michele Moretti (tra l'altro con posizioni e storie politiche e personali diverse), si è conformato, nonostante qualsiasi divergenza possa poi essere subentrata durante il viaggio.

Si racconta, o meglio si "romanza", che questo trio di comandanti, dietro un fantomatico progetto poi revocato, di Cadorna e Sardagna, avrebbero dovuto portare i due prigionieri (con Mussolini bendato da garze sulla testa per non farlo riconoscere), fino a Moltrasio dove una imbarcazione li doveva prelevare per conto del CLNAI-CVL e portarli nella villa dell'ingegnere caseario Remo Cadermartori.

Non è chiaro però chi sia al corrente di questo progetto, che di fatto prevede una successiva consegna di Mussolini agli Alleati.

Si dice che forse ne è a conoscenza solo il Bellini Pedro¸ mentre gli altri sanno che i prigionieri devono finire in una base segreta presso Brunate (sulla montagna di S. Maurizio, 1.000 mt. sopra Como), altri dicono che è proprio Brunate la meta di tutti (chi dice la Baita Noè, chi la baita dell'artigiano tessile Felice Noseda, chi una dependance di Villa Baffa, ecc. Ed inoltre chi dice che era una base comunista, chi dice di no, chi dice che la conosceva soprattutto il Canali, altri dissentono, e così via). [11]

Perchè Bellini, Canali e Moretti si mossero, dicesi con la paura di farsi sequestrare il prigioniero dagli Alleati quando, in pratica, il piano di Sardagna implicava proprio una consegna del Duce agli Alleati, mentre il trasferimento a Brunate (non si capisce nella mani di chi), era altrettanto pericoloso dovendo comunque scendere il lago proprio verso le zone di un probabile arrivo degli Alleati?

Moretti raccontò: «Nella notte del 27 quando stavamo portando l'ex duce a Brunate, di fronte alle luci che si vedevano brillare verso Como, all'altezza di Moltrasio mi sono impuntato perchè ritornassimo indietro. Ricordo soltanto che il Neri e Pedro erano contrari e si è corso davvero il rischio di consegnare Mussolini agli alleati …». [12]

Si dice comunque che poi ci furono contrordini al progetto Sardagna, contrordini che arrivarono a notte inoltrata direttamente a Moltrasio, ma è tutta una vicenda avvolta in un susseguirsi di eventi imperscrutabili e piena zeppa di racconti fantasiosi uno diverso dall'altro. La tesi più sostenuta (si fa per dire) è che la barca (portata da un certo Alonso Caronti) che doveva prelevare i prigionieri a Moltrasio, non arriverebbe, e quindi le due macchine, dopo una breve attesa, fanno marcia indietro. Si sostiene anche che furono intravisti in lontananza razzi e luci verso Como e si presuppose che vi erano arrivati gli Alleati (i quali invece arrivarono verso le 10 del 28 aprile) e quindi, dopo discussioni e incertezze, per non farsi sequestrare il prigioniero si decise, sul momento, di fare marcia indietro verso il nascondiglio segreto di Bonzanigo.

Intanto, che abbiano potuto vedere dai pressi di Moltrasio, razzi (così in lontananza avrebbero dovuto anche essere altissimi nel cielo) è alquanto difficile; per le stesse luci poi, la cosa lascia perplessi (anche se si racconta, forse a proposito, di accensioni di luci cittadine o fuochi d'artificio per festeggiare gli eventi di quei momenti). Scrisse giustamente Urbano Lazzaro:

«Carate dista più di 11 km. da Como, e Moltrasio 9. Il promontorio dov'è sita villa Este a Cernobbio da un lato, e la punta di Geno dall'altro lato del Lago, occultano totalmente la vista di Como a chi si trova a Carate o a Moltrasio. Chi di voi aveva l'orecchio tanto fino da percepire, tra il rombo del motore e la pioggia sferzante, spari, ripeto spari, non cannonate, a 11 o 9 km. di distanza? E chi di voi era munito di periscopio per riuscire a scorgere luci a Como? E chi accendeva fuochi sulla montagna durante il diluvio di quella notte?». [13]

Ma soprattutto come credere che il nascondiglio di casa De Maria a Bonzanigo fu escogitato di punto in bianco, ritornando indietro, quando poi non fu neppure comunicato a Sardagna o a Milano l'improvviso cambiamento di programma ed il Bellini delle Stelle, uomo di collegamento con Sardagna o comunque il CVL, all'alba si defila ed esce di scena?

Non c'è certezza su tutti questi racconti, nè sul quando, come e da chi, vennero emanati ordini e contrordini e si ha la sensazione che l'attestare un cambiamento di programma improvviso (Bonzanigo) e l'andirivieni da Moltrasio, implichi la logica giustificazione per i fantomatici "contrordini" e l'asserita paura che gli Alleati sequestrino il prigioniero). [14]

Tecnicamente, Urbano Lazzaro Bill, ha cercato di dimostrare con una certa logica, ma partendo dalla sua attestazione che era presente alle 2,45 al momento della partenza delle macchine da Dongo (Mussolini e la Petacci sembra che vennero ricongiunti al ponte sull'Albano detto anche della ferriera appena fuori Dongo), che considerando le distanze e le attese per i tanti posti di blocco (oltre 10) di quella notte, più una sosta sia pure non prolungata a Moltrasio, non era possibile un andirivieni tra Dongo, Moltrasio e poi indietro ad Azzano (Bonzanigo), nel numero di ore che la versione ufficiale indica.

Nulla si è mai potuto appurare con certezza e si può sospettare la presenza di varie forze contrastanti in gioco e la necessità da parte del Comando del CVL di mascherare, con una cortina fumogena, quanto invece "qualcuno" voleva fare (uccisione di Mussolini).

In ogni caso, dovendo fare varie congetture per poi scegliere la più probabile, dobbiamo almeno partire da alcuni presupposti, che pur non avendone le prove, la logica e il buon senso ci dicono siano verosimili:

1. Dal momento della cattura di Mussolini e fin oltre l'1 di notte, quando lo andarono a prendere, è ragionevole pensare che il PCI aveva già dato disposizioni a Moretti e forse anche al Canali e/o il CVL al Bellini e forse anche al Canali.

2. Questi ordini, volenti o nolenti, trovarono consenzienti, prima, durante e dopo, tutti e tre questi partigiani che pur avevano storie e riferimenti diversi.

 

NON È CREDIBILE, che un incarico prioritario di rintracciare, prelevare e uccidere il Duce prima che se ne impossessi qualcun altro e che richiede doti decisionali e militari non indifferenti venga affidato da Luigi Longo, la notte del 27 aprile 1945 presso il Comando generale del CVL di Milano, soltanto ad un uomo militarmente sprovveduto come il ragioniere Walter Audisio, ma ancor più non è credibile il fatto che Audisio venga fatto partire verso le 7 del mattino, con meta Dongo, previo passaggio alle autorità cielleniste di Como, quando si doveva almeno sapere che Mussolini a Dongo non c'era. [15]

Ma altrettanto stride il fatto che, di fronte ad evidenti difficoltà incontrate durante la missione, Audisio non prende una qualunque iniziativa finalizzata a raggiungere prima il Duce che, a differenza dei gerarchi prigionieri a Dongo, ha una custodia problematica, a causa di svariate forze concorrenti che per motivi diversi se lo vogliono accaparrare.

Oltretutto il partito comunista a Como, informato verso le 7 (se non prima) da il Canali e il Moretti sul trasferimento notturno di Mussolini, [16] per tutta la mattinata non informerebbe Milano e quindi il PCI da Milano non avviserebbe Valerio di queste novità e lo lascerebbe a perdere tempo in Prefettura a Como e infine andare a Dongo dove arriverà alle 14,10.

Evidentemente chi aveva affidato la missione a Valerio prescindeva dal raggiungere subito Mussolini, perché a questo compito ci stavano già pensando anche altri!

 

È ASSURDO, sia da quanto appena accennato e sia da quanto ora illustreremo, che possa essere andata come ci è stato raccontato.

Dicesi che il 28 aprile '45 verso le 7 di mattina, Audisio alias Valerio è stato fatto partire dal Comando CVL di Milano per recarsi a Dongo, passando per le autorità cielleniste di Como, per andare a fucilare sul posto Mussolini e gli altri gerarchi arrestati il giorno prima. [17]

Già qui è difficile credere che non si sappia (e quindi non sia stato detto ad Audisio) che Mussolini, il più importante e super ricercato dei prigionieri, è stato trasferito nella tarda notte, da tizio e caio¸ in altra località e a Dongo non c'è! tanto che Audisio, ignaro, resterà poi invischiato per ore in litigi e richieste inconcludenti nella Prefettura di Como prima di proseguire per Dongo (dove, ripetiamo, Mussolini non c'è).

Ma facciamo finta di credere che a Milano, al primo mattino, pochissimo si sapeva del trasferimento notturno di Mussolini, anche se poi è ancor più difficile credere che i partigiani della 52a brigata Garibaldi abbiano nascosto Mussolini di loro iniziativa o comunque senza informare, almeno a grandi linee, chi di dovere.

Alle ore 11 però, ci dice la storica versione, Audisio telefona al Comando a Milano e parla con Longo (chi dice con altri dirigenti, ma anche questo non cambia le cose) per risolvere i suoi problemi in Prefettura, e qui la leggenda dice che gli sarebbe stato detto, a brutto muso, più o meno: «O fucilate lui o sarete fucilati voi!». [18]

Ma ancora nessuno gli dice che Mussolini, il prigioniero più importante ed in custodia più critica, a Dongo non c'è!

Nessuno gli dice, almeno, che invece dovrebbe subito recarsi lì vicino, alla Federazione comunista di Como, appena trasferitasi in Palazzo Terragni, perché proprio lì hanno informazioni aggiornate o addirittura dovrebbe esserci chi sa dove si trova il Duce e ve lo può accompagnare. E così Audisio resta in Prefettura a discutere e a cercare di ottenere un grosso camion per più di un altra ora ancora (partirà da Como per Dongo dopo le 12)!

Eppure, attesta sempre la storica versione, verso le 7 del mattino (ma addirittura Giovanni Aglietto, disse verso le 6!) [19] Moretti e Neri, reduci da Bonzanigo, sono arrivati in Federazione comunista a Como ed hanno informato i compagni e, sia che gli abbiano fornito il preciso indirizzo o li abbiano solo (improbabile) messi al corrente dei fatti notturni, qui in federazione gli hanno detto che bisognava informare il partito a Milano ed attendere ordini. [20]

Dunque, almeno al PCI a Milano dovevano per forza essere al corrente della situazione anche perché, viceversa, non si spiegherebbe l'apparente tranquillità del partito e dello stesso Longo, tanto datosi da fare la sera e la notte precedente ed ora apparentemente affaccendato in altre incombenze, tanto che dopo le 14 se ne va ad incontrare Moscatelli e le sue divisioni.

Ma il PCI a Milano, dalle 7 del mattino, partito Valerio sembra che sostanzialmente non faccia più niente di niente! Come niente fa il Comando del CVL, sembrano tutti in attesa che Valerio, abbandonato a sè stesso, compia la sua missione.

Non è logico pensare che se veramente il partito non sapeva nulla di dove, come e chi ha tradotto Mussolini in un luogo segreto, non sarebbe certo rimasto con le mani in mano visto il pericolo di imprevisti, tradimenti e sorprese che avrebbero potuto sottrarlo alla morte? Quindi al partito sanno!

E allora perché non informano il loro uomo, Audisio, che si dice sia l'unica spedizione organizzata per andarlo a fucilare sul posto ed oltretutto si trova in difficoltà con quelli del CLN e della Prefettura di Como?

Perché, ancor prima, non si sarebbe informata la federazione comunista dell'imminente arrivo di Valerio e Guido a Como? Perché non si è fatto attendere al Moretti e al Canali l'arrivo di questa missione? [21]

Non c'era una maledetta fretta, data dal pericolo di farsi soffiare il Duce?

Si lascia invece Valerio a perdere tempo in Prefettura a Como e lo si lascia poi andare a Dongo dove Mussolini non c'è, anche se ci sono i gerarchi da fucilare, ma quelli di certo non li libera nessuno. Assurdo!

In federazione comunista ci va invece Lampredi, ma dice lui, di sua iniziativa e unicamente per trovare un aiuto (??) ai problemi sorti a Valerio in Prefettura (anche se poi in Prefettura neppure ci tornerà). [22]

Finisce che Audisio infatti, ignaro di tutto, partirà dopo le ore 12 proprio per Dongo, dove Mussolini non c'è e dovrà poi andarlo ad ammazzare (dice lui) dopo le 15!

Questo svolgersi irreale degli avvenimenti, così come sono stati narrati, dimostra, da solo, la falsità della versione ufficiale, e indica chiaramente che, mentre Audisio deve necessariamente perdere tempo in Prefettura per coinvolgere tutte le componenti della Resistenza nelle imminenti fucilazioni, altri stanno provvedendo al Duce!

 

È ASSURDO, quindi, tutto l'atteggiamento di Valerio e Lampredi in quella mattina del 28 aprile con il genere di incarico che dovrebbero avere ed il pericolo che Mussolini possa essere soffiato da un momento all'altro.

Infatti, Valerio, già poco e mal giustificatosi per essere partito tardi da Milano, arriva a Como, e si infila nel caos di problemi e incomprensioni trovati in Prefettura perdendo l'intera mattinata (come se volesse, più che altro, lasciare un attestato ufficiale del suo incarico) a cercare un grosso camion ed a litigare con le autorità locali.

Lampredi, invece, arrivato a Como, svicola dalla Prefettura e da Valerio e a sua insaputa, portandosi dietro il comandante del plotone dell'Oltrepò Alfredo Mordini e l'autista Giuseppe Perotta, fa un salto in Federazione comunista alla ricerca di notizie e di aiuti (dice lui, per Audisio in difficoltà in Prefettura), [23] quindi entrambi spariscono all'improvviso per riapparire solo molte ore dopo a Dongo, dove il Duce non c'è ed infatti giustificano questo viaggio sostenendo di essere andati a incontrare Moretti e il Canali che sanno dove sia.

Come è possibile credere che in Federazione non trovarono l'indirizzo di Bonzanigo e che quindi non abbiano fatto una preliminare deviazione a mezza strada per Azzano per andare almeno a controllare i prigionieri?

Come credere che, partiti da Como prima di Valerio, arrivino invece alcuni minuti dopo o comunque (a dar retta a Lampredi) partiti invece poco dopo, nessuno dei due gruppi sappia del passaggio dell'altro nonostante avessero percorso una lunga strada a fettuccia piena di posti di blocco, ma non certo di traffico? [24]

Ma, oltretutto, giova ripeterlo, come è possibile credere che Canali e Moretti alle 7 del mattino (o verso le 6 come disse Giovanni Aglietto), dopo aver riferito in federazione comunista della messa in custodia di Mussolini, siano stati lasciati andar via, proprio loro che, conosciuti dai guardiani del Duce, possono e sanno come arrivare a Bonzanigo?

Ed invece, visto che Audisio si muoverà per andare a Bonzanigo dopo le 15, si è tutti arcisicuri che i prigionieri, i padroni di casa e gli stanchi carcerieri, ignorati da tutti, stanno buoni, tranquilli e protetti, in casa De Maria!

Il capitano Neri, Luigi Canali, fino all'alba vero organizzatore di tutte le vicende del trasbordo notturno di Mussolini in quella casa, sparisce di scena.

Pedro, il Pier Bellini delle Stelle, pomposo e orgoglioso comandante dell'eroica impresa, se ne va a Dongo e lì resta affaccendato senza riferire, chiedere o dare ordini per Mussolini.

Eppure era lui il comandante della 52ª Brigata che aveva, assieme al Canali e Moretti, condotto Mussolini nel nascondiglio di Bonzanigo (prendendosi anche la responsabilità di aggiungerci una donna, la Petacci), e come mai che, uscito all'alba da quella casa a lui fino a quel momento sconosciuta, si defila poi in questo modo e neppure informa Como o Milano delle novità e cambiamenti notturni? E soprattutto: se non fosse arrivato alle 14 a Dongo l'inaspettato Valerio, fino a quando continuava a ignorare il "problema Mussolini"?

Non è invece eloquente che sono state date precise disposizioni di comportarsi così, perché al Duce si sta già provvedendo in altro modo?

 

È ASSURDO, che con la prima relazione, anche se stringata e romanzata, data da "l'Unità" il 30 aprile '45, resa a sole 48 ore dagli avvenimenti e che quindi, a rigor di logica, dovrebbe essere precisa, si trovino tante incongruenze che poi si è dovuto, in qualche modo correggere e così via nelle successive versioni, aggiungendo e incappando in altre inesattezze e incongruenze. Cosa ha impedito al PCI di emettere un comunicato più preciso e privo di inesattezze? Perché lo stesso CLNAI, rappresentante del governo Bonomi a nord Italia, non ha ricevuto un dettagliato rapporto e di conseguenza non ha mai potuto emettere una sua pur doverosa relazione?

 

NON È CREDIBILE, che il PCI, oltre alla presentazione di Longo che garantiva la relazione de "l'Unità" del novembre-dicembre '45 e le tante rivendicazioni di quell'impresa, non abbia fatto, se non subito, almeno qualche tempo dopo, una completa ed esauriente relazione dei fatti, nascondendosi invece dietro la sola versione di Valerio.

Ed altrettanto non credibile è che si voglia far intendere che nessuna relazione venne al tempo stesa al proprio partito (per non parlare delle autorità del CVL) dal forse principale partigiano inviato in missione, ovvero Aldo Lampredi. Poi questi, nel 1972, sente improvvisamente il desiderio polemico e la necessità di farlo, in via riservata [25], confermando però il ruolo di sparatore di Audisio (negato anche, ma non solo, dalla citata confidenza di Sandro Pertini al regista Carlo Lizzani) e quindi mentendo assurdamente persino al proprio partito che non può che non essere a conoscenza dei fatti! Ergo quella relazione è un espediente atto a fronteggiare altre eventuali critiche.

In ogni caso se non ci fosse stato nulla da nascondere, il PCI (come del resto il CVL) avrebbe rivendicato la fucilazione del Duce attraverso una dettagliata relazione dei fatti, accompagnata da riscontri certi quali ad esempio la consegna delle armi impiegate, magari mantenendo un provvisorio anonimato sui nomi degli esecutori.

Ed è altrettanto assurdo che le stesse autorità del governo provvisorio di allora, e neppure quelle successive, vollero stendere una relazione ufficiale come invece era doveroso per la storia, per la posizione del governo del Sud rispetto agli impegni sottoscritti e non adempiuti con gli Alleati, circa una consegna di Mussolini e per gli stessi parenti eredi di tutti i fucilati di Dongo (molti dei quali, tra l'altro, giustiziati arbitrariamente) e che avrebbero dovuto avere il diritto di rivendicare oggetti, documenti, preziosi appartenuti ai loro cari [26].

 

NON È CREDIBILE, che per una missione del genere, oltretutto da eseguirsi inspiegabilmente di nascosto, cacciando anche via eventuali abitanti del luogo ivi sopraggiunti, Valerio che ha tre autisti sicuri nel suo plotone dell'Oltrepò giunto da Milano (per esempio Giuseppe Perotta, oppure Arturo Giacomo Bruni, o il Barba dalle generalità non note) o può farsi indicare a Dongo qualche autista comunista (per esempio il famoso Carletto Maderna detto scassamacchine) requisisce e si porta dietro lo sconosciuto Geninazza.

Solo la necessità di utilizzare poi questo autista d'occasione quale teste non di parte per avallare una versione di comodo può spiegare questa stranezza.

Senza contare il fatto che pur avendo varie autovetture a disposizione (la sua 1000 con la quale sono giunti a Dongo Lampredi, Aglietto, Ferro, ecc., la grossa auto con la quale il Bellini Pedro, ha trasbordato la notte i prigionieri a Bonzanigo, l'auto con la quale sono giunti a Dongo il Canali Neri, la Tuissi Gianna, il Remo Mentasti Andrea ed altri, la fiat 2800 con la quale era giunto a Dongo, perché chiamato dal Bellini, Urbano Lazzaro Bill, l'Aprilia di Oscar Sforni e Cosimo M. De Angelis del CLN di Como arrivati con Audisio), preferisce requisire una vettura sulla piazza di Dongo. [27]

 

SONO ASSURDE e troppo imprecise le diverse indicazioni fornite da Valerio per accedere e uscire da casa De Maria (salite e discese incredibilmente invertite come se fosse arrivato dallo spiazzo erboso sotto via del Riale e non dalla piazzetta del Lavatoio), nonché la stessa inesatta descrizione dello stabile: indicano una chiara non conoscenza diretta e personale dei luoghi.

 

NON È CREDIBILE, quanto racconta la "storica versione" ovvero che Audisio arrivato a Bonzanigo per prelevare i prigionieri da fucilare, scese dalla macchina sulla piazzetta del Lavatoio e provò il mitra Thompson sparando un colpo, quando quel mitra, poi inceppatosi durante le fasi della fucilazione, come disse Alberto Mario Cavallotti Albero che glielo aveva consegnato alla partenza da Milano, aveva quattro dita di grasso perché era nuovo e proveniva da un aviolancio Alleato. È questo un fatto teoricamente possibile, ma alquanto improbabile a verificarsi, ma oltretutto come si spiega che questo sparo, vicino ad alcune persone che pur si trovavano nella piazzetta, non provocò il fuggi fuggi generale ed invece, poco dopo, quando arrivarono Mussolini e la Petacci scortati da uomini armati, sulla piazzetta c'era ancora qualcuno?

E per quale motivo Geninazza, l'autista di quella spedizione, raccontò che non era vero che Audisio si era recato a casa De Maria, ma era invece rimasto nei pressi della macchina smentendo così anche tutti i fantasiosi dialoghi che Audisio raccontò di aver fatto con Mussolini? [28] Non sono tutti eventi alquanto ingarbugliati, contraddittori e difficili da credere?

 

NON È CREDIBILE, che la Petacci possa essersi fatta trovare senza le mutandine, tanto più che, come sembra accertato, aveva le mestruazioni. Insinuazioni su presunte ultime arti amatorie del Duce sono ridicole, anche perché riferite ad un uomo di quasi 62 anni, dopo tre giorni di stress incredibile, sotto controllo dei carcerieri e dopo una nottata assolutamente devastante. Pertanto la mancanza di questo indumento intimo, riscontrata nel cadavere e che la Lia De Maria non risulta lo abbia poi ritrovato in casa, ha un altra casualità o altro movente e soprattutto indica una uscita frettolosa da quella casa.

Ed altrettanto è inspiegabile, se non a causa di fasi precedenti e caotiche di rivestizione del cadavere, che Mussolini non avesse indosso la sua giacca di ordinanza e questa non sia stata successivamente rinvenuta in casa De Maria. [29]

 

È IMPOSSIBILE, che venga ripetutamente descritto da Valerio, un Mussolini che «cammina sicuro e spedito» per quei viottoli, [30] dopo aver osservato che ha uno stivale sdrucito dietro, ma specialmente oggi che sappiamo che, invece, lo stivale era totalmente impossibilitato ad essere richiuso e quindi, forse, consentiva a mala pena di trascinarsi saltellando per non perderlo [31].

 

È ASSURDO che alcune confuse testimonianze, compresa quella dell'autista Geninazza, abbiano descritto due soggetti, presunti Mussolini e la Petacci (non precisamente riconosciuti come tali) trasferiti scortati dalla piazzetta del Lavatoio verso la macchina che li condurrà sul luogo dell'esecuzione, e il presunto Mussolini cammina rimpannucciato in un pastrano con il bavero rialzato e il berretto calato sugli occhi, mentre nessuno osserva che pur dovrebbe avere uno stivale aperto che gli impediva di camminare normalmente e la Petacci viene addirittura descritta con stivali da equitazione. [32]

 

È IMPOSSIBILE, che nella seconda versione fornita da Valerio (novembre-dicembre 1945) si sia potuto "inavvertitamente" confondere Bill, Urbano Lazzaro, partigiano ben conosciuto e non comunista, con quello che successivamente è stato indicato con Pietro, Moretti commissario politico, comunista di vecchia data, della 52a brigata Garibaldi. Questo scambio di identità, se non fosse stato immediatamente smentito dagli interessati, doveva probabilmente conseguire determinati fini per una mistificazione che doveva avere coinvolgimenti e dimensioni ancor più estese di quelle che poi ha comunque avuto.

 

È ASSURDO, che i ministri e i componenti RSI della colonna fermata a Musso siano stati rabbiosamente ed esemplarmente fucilati in piazza, davanti a donne e bambini, ed alla schiena, mentre per Mussolini, «il capo dei malfattori», sia progettato di ucciderlo, già dalla partenza di Valerio da Dongo, oltre che in fretta e furia, anche di nascosto e con fucilazione frontale. E oltretutto poi, per far questo in assoluta discrezione, si sceglie il tragitto fino a Villa Belmonte, mentre sarebbe stato molto più semplice farlo ben appartati sotto casa De Maria!

 

È IMPOSSIBILE, che Lino Giuseppe Frangi e Sandrino Guglielmo Cantoni, due giovani partigiani stanchissimi, che praticamente non dormono da oltre due giorni, siano lasciati tranquillamente soli nella casa con i prigionieri, senza un cambio o un controllo, per più di 11 ore filate e se non arriva a Dongo l'inaspettato Valerio chissà fino a quando!

- Eppure poteva esserci il concreto pericolo che l'arrivo a casa De Maria era stato notato dai paesani o poteva esser confidato a qualcuno dai due contadini propagandosi la voce;

- bisognava pur mettere in conto, anche se era molto improbabile, un tentativo di qualche gruppetto fascista sbandato ed in armi;

- c'era il pericolo dell'arrivo di qualche spedizione di servizi o emissari stranieri, che avevano molte basi nei dintorni, scatenati sulle tracce del Duce che volevano prelevare o uccidere;

- oppure, anche se improbabile, non c'era neppure la garanzia che Mussolini poteva, con qualche grossa promessa, vera o falsa che fosse, corrompere i giovani carcerieri;

- o meglio ancora, che si potesse verificare un tentativo di ribellione o addirittura di suicidio dei prigionieri con risvolti cruenti e imprevedibili;

e comunque tanti altri imprevisti ancora che sarebbero stati incontrollabili da Dongo e che partigiani con una certa esperienza come Pedro il Bellini, Neri il Canali e Pietro il Moretti, quali responsabili dell'impresa, non potevano non mettere in conto e temere.

Per la versione ufficiale, invece, sono trascorse undici ore, durante le quali Mussolini e la Petacci hanno tranquillamente dormito, si erano svegliati, avevano chiesto o gli era stato offerto qualcosa da mangiare. Undici ore quasi allegre, assurdamente tranquille, poi l'arrivo del colonnello Valerio e l'inferno.

 

È IMPOSSIBILE che con questo super ricercato prigioniero, i partigiani che lo hanno portato a casa De Maria, possano ciecamente fidarsi tra loro!

Intanto ci sono i due autisti Edoardo Leoni e Dante Mastalli (che stranamente non vengono ricordati), che pur lasciati con l'imposizione del silenzio, non si può avere la certezza che, a lungo tempo, confidandosi con qualcuno non facciano la frittata; ci sono poi:

- Pedro (Bellini) che non è comunista ed ha, sì operato in sintonia con gli altri, ma è pur sempre in contatto e dipende da ambienti e forze non comuniste ed addirittura si dice che, durante la notte, doveva mettere in pratica un tentativo di consegna dei prigionieri al CLNAI - CVL, a Moltrasio; a chi deve dar di conto costui?

Non potrebbe rivelare la prigione e far venire a prelevare i prigionieri?

E lui stesso come può fidarsi dei comunisti che, in quel momento i più efficienti, potrebbero arrivare ed imporre le loro decisioni?

- Pietro (Moretti), che è invece un comunista ligio agli ordini di partito, come può garantire al partito e a lui stesso che gli altri non gli soffino il Duce?

- Neri (Canali), con la sua amante la Gianna, (Tuissi) è un altro comunista, però atipico, sul quale pende addirittura una condanna a morte del Comando Lombardo delle Brigate Garibaldi e nei mesi precedenti gli è stato fatto il vuoto attorno; come ci si può fidare che ora non operi da indipendente appunto o peggio per conto di qualche servizio straniero?

E tutti costoro, all'alba del 28 aprile, si lasciano ognuno per conto loro sulla reciproca e cieca fiducia?! Assurdo, impossibile!

Neppure dei dirigenti partigiani, comunisti o non comunisti che siano, inesperti e da operetta, avrebbe potuto agire in questo modo!

Pedro, che conosce il luogo di prigionia di Mussolini (tra l'altro a lui fino allora sconosciuto), se ne sta affaccendato a Dongo per tutto il giorno e neppure comunica a Milano il sopraggiunto cambiamento di programma attuato nella notte precedente;

Neri e Pietro dopo essere passati e aver riferito alla Federazione comunista di Como, non si sa bene cosa fanno (anzi Moretti è tanto tranquillo che dice di essere andato a trovare moglie e figlio a Tavernola, mentre il Canali che gironzola ancora un po' per Como e forse passa anche dalla madre, ignorerebbe addirittura l'arrivo del plotone di Valerio), ma comunque non tornano a Bonzanigo a controllare, né ci mandano qualcuno di rinforzo o di ricambio.

La Gianna, pare che non si interessa di nulla. Gli autisti vengono lasciati andare per conto loro. Che pace, che tranquillità e fiducia reciproca! [33]

 

NON È CREDIBILE che Valerio, a Dongo, nello stilare la lista dei prigionieri da condannare a Morte includa subito la Petacci, tra l'altro sembra non compresa nel foglio che aveva sottomano con la cernita dei famosi 31 nomi dei prigionieri, solo perché ha da poco saputo che si trova reclusa assieme a Mussolini. Non da giustificazioni, la condanna a morte contro tutti e tutto, eppure è una donna ed all'epoca c'era un forte rispetto nella incolumità delle donne. [34] Possibile che il CVL a Milano gli aveva dato questa segreta disposizione omicida? È evidente che sapeva che era già morta e quindi andava in qualche modo inclusa nella lista dei condannati.

 

NON È CREDIBILE, che Lino Giuseppe Frangi e Sandrino Guglielmo Cantoni, dopo aver assolto con abnegazione e relativo pericolo un lungo ruolo di carcerieri, siano rimasti esclusi dalle fasi del compimento finale della fucilazione e non siano stati in grado di dare una testimonianza. Come è pensabile che arrivarono solo a cose fatte al cancello di Villa Belmonte, pur sapendo che vi si andava a fucilare il Duce? Come credere che non vollero avere parte nella gloria di quell'evento?

Assurdo poi asserire che questo loro ritardo all'esecuzione avvenne perché, all'arrivo di Valerio erano senza scarpe (oltretutto, dato l'accesso alla casa, non è che Valerio potè apparire all'improvviso) e ancor più assurdo che, poco dopo, quando Valerio uscì da casa De Maria portandosi dietro Mussolini e la Petacci, ancora non se le erano rimesse! [35]

E neppure è credibile il fatto che l'autista, il Geninazza, che pur doveva essere lì presente, non possa aver fornito una testimonianza veramente attendibile e circostanziata, ma solo un polpettone contraddittorio neppure in linea con la versione di Valerio [36].

 

È ASSURDA, nei vari racconti "western" di Valerio, la fantasmagorica, contraddittoria e continuamente variata, descrizione delle caotiche fasi della fucilazione di un Duce atterrito e demenziale al quale Audisio si spaccia per un liberatore e gli si rivolge con un insolente «tu» (che nessun fascista o esponente della RSI gli avrebbe mai dato!). Rivediamo le assurdità al momento della fucilazione: [37]

- prima, si racconta dell'invio dell'autista e Bill (il Lazzaro) a distanza per stare di vedetta (poi invece per quest'ultimo si dirà che era il Pietro Moretti), ma poi addirittura è il Geninazza, che racconta di essere rimasto vicino a Valerio; [38]

- poi scambi d'arma, numero di colpi sparati e loro sequenza sempre variati da una relazione all'altra, contraddittori ed illogici;

- quindi pistola (che si inceppa) ora di proprietà di Valerio, poi invece assegnata definitivamente a Guido, e questi viene prima ritenuto «freddo e distante» e poi nell'ultima relazione definito «attento e partecipe», ed infine altra pistola di Moretti per il colpo di grazia. Oltretutto si parla di mai ben precisati colpi di grazia, stranamente al petto; [39]

- infine dinamica incoerente, assurda e non giustificata della morte della Petacci, colpita oltretutto alle spalle, di cui vengono riferite versioni strampalate e illogiche. [40]

Ed è altrettanto assurda la versione revisionata che ipotizza un caotico contendersi, quasi litigando, l'onore di uccidere il Duce, tra Audisio, Lampredi e Moretti, tanto che non si sa bene chi e quanti poi gli spararono, in quel fazzoletto di spazio davanti al cancello della Villa, quindi con poco sicurezza per sè stessi, ammazzando per di più la Petacci alle spalle. [41]

Ma è tra l'altro improbabile che Valerio abbia avuto l'ordine del CVL di uccidere una donna (della cui presenza assieme al Duce non è neppure sicuro che a Milano ne erano al corrente) e quindi la sua morte va ascritta ad altri avvenimenti, mai raccontati.

È chiaro che dietro tutta questa confusione e incoerenza si nasconde una diversa modalità e dinamica d'esecuzione che si vuol tenere segreta. [42]

 

È IMPOSSIBILE, che questa fucilazione di Villa Belmonte (sia nella versione di Valerio che nelle moderne versioni revisionate), non abbia un riscontro (pur fatto con tecniche di alta definizione), dalle foto e filmati del vestiario. Foto che non evidenziano assolutamente fori o strappi su quello strano giaccone e neppure su la camicia nera indosso al cadavere di Mussolini. Addirittura si vede un probabile alone di sparo sul braccio dx nudo, il rispettivo foro di uscita, ma nessun foro sulla manica dx del giaccone!

 

Niente sul pettorale di destra (parasternale e sopraclaveare) e niente alla spalla sinistra, dove il Duce venne attinto da una raffica, alquanto ravvicinata, di 4 colpi. Il giaccone è intatto e quindi Mussolini non fu ucciso con indosso quel giaccone! [43]

Anche i mutandoni al polpaccio che si rendono visibili solo quando al cadavere di Mussolini, appeso alla pensilina, viene sfilata, per trazione dal basso, la camicia che li copriva e proteggeva, mostrano delle slabbrature sul davanti indice di una precedente fase di lotta o di un trascinamento di un cadavere seminudo o altre manipolazioni. [44]

Si configura quindi una fucilazione precedente di un uomo privo di indumenti, tranne la maglietta di salute e forse i pantaloni. Nessuno, infatti, ha detto o riportato che il Duce venne condotto davanti a quel cancello seminudo, né che poi davanti a quel cancello ci si mise a rivestirlo tanto per addobbarlo meglio.

È evidente che Mussolini fu prelevato, in prima mattinata, quando ancora non si era rivestito, forse perché i suoi abiti erano ancora bagnati dalla pioggia della notte precedente e quindi soppresso in quattro e quattrotto così come si trovava.

Poi, mistificando i fatti, è stato rivestito da morto e quindi buttato davanti al cancello di Villa Belmonte per simulare una fucilazione [45].

 

È IMPOSSIBILE, oltre che assurdo, che si siano verificati i tre diversi atteggiamenti di Mussolini di fronte alla morte, così come attestato dai tre diretti partecipanti presenti a quella fucilazione:

- Valerio descrive un Duce come tremante, pavido, immobile, incapace di dire e fare alcun chè (tranne, biascicare frasi improbabili e senza senso); [46]

- per Lampredi, invece il Duce, dopo essersi scosso da questa inanità, aprendosi il pastrano, griderebbe: «Mirate al cuore!» (e scrive Lampredi che di questo ne è al corrente anche Moretti che si impegna a tacerlo); [47]

- Moretti, infine, molti anni dopo, nel 1990, confesserà che lo vide non troppo sorpreso e quindi lo sentì gridare con foga: «Viva l'Italia!» (e risponde all'intervistatore che gli chiese se questa esternazione gli ha dato fastidio, che non lo ha infastidito affatto, in quanto si trattava dell'Italia di Mussolini, non certo della sua). [48]

Se la descrizione di Audisio può essere scaturita da un gratuito intento denigratorio per Mussolini, e quella di Lampredi invece venne aggiunta per rendere credibile tutto il resto della sua Relazione, in virtù di un riconoscimento di bella morte a Mussolini, da parte di un comunista, quella di Moretti non ha alcuna giustificazione, se non che fosse veritiera. In ogni caso, due o tutti e tre questi diretti partecipanti alla fucilazione hanno mentito!

 

È ASSURDO, sia pure prendendo tutto con estrema cautela, che si riscontrino troppe anomalie nella fucilazione di Villa Belmonte. Particolari problematici, anche se alcuni deducibili solo in via ipotetica o rilevabili dallo studio critico dell'autopsia, nonchè dall'esame di svariate foto, ma che comunque non collimano o mal si adattano alla versione di Valerio, di un solo tiratore che agisce da tre passi, per esempio: [49]

- una strana fucilazione che si presuppone eseguita a poca distanza dal condannato e quindi alquanto innaturale e persino pericolosa se poi gli sparatori sono in due; [50]

- la probabile azione contemporanea di sparo di due tiratori e con armi diverse (mitra e pistola), con corpi stranamente in movimento scomposto, come viene dimostrato dalle traiettorie polidirezionali dei colpi all'emisoma destro e a quello sinistro, e quelle inclinate mostrate dalle ferite sotto al mento (dal basso in alto), al fianco dx (dall'alto in basso) e al braccio dx di Mussolini con foro di uscita e traiettoria quasi tangenziale e non perforante, più altre ferite un po' ovaliformi, tutte distribuite con una certa distanzialità tra loro. [51]

Tutti riscontri che non confermano la versione di Audisio.

- la sventagliata di mitra alla schiena (quasi inspiegabile) alla Petacci; [52]

- la tumefazione, sicuramente pre mortale, nella zona dello zigomo destro riscontrabile sulla Petacci stessa che attesta o una violenza da viva o un improvviso impatto mentre colpita proditoriamente a morte piombava al suolo; [53]

- un condannato messo al muro, a cui addirittura si pronuncia una breve pseudo sentenza, il quale alzerebbe istintivamente la mano a schermo (evento questo non impossibile, ma psicologicamente estremamente improbabile in un "fucilando"). [54]

- il muretto, alto circa 1,24 cm. che rimarrà colpito da qualche colpo, come se si fosse sparato al petto verso soggetti dell'altezza di un nano. [55]

 

È ASSURDO (ma forse dovremmo dire "impossibile", per la somma di tutti questi singoli elementi considerati anche nei rispettivi opposti casi), che la morte di Mussolini e della Petacci sia avvenuta alle ore 16,10 del 28 aprile:

a) sia pure con molta cautela e qualche riserva, per il fatto che lo stomaco del Duce, nonostante la "vecchia" versione ufficiale attesti che avesse mangiato polenta (forse) e un po' di pane e salame è risultato privo di ogni residuo di cibo e con poco liquido torbido bilioso (anche se ci sarebbe la possibilità fisiologica di una completa digestione di un pasto, ma solo se estremamente scarno, consumato intorno alle ore 12,30, la presenza del sia pur poco liquido torbido bilioso indica un digiuno più prolungato). [56]

Quindi l'allestimento dei resti del pasto nella stanza sarebbe una messa in scena; [57]

oppure, viceversa, come nella "nuova" versione ufficiale riveduta, [58] dicesi che non aveva affatto mangiato, ma allora ci sarebbe una contraddizione con la richiesta o l'offerta accettata di cibo del mezzogiorno e il non averlo poi consumato, pur digiuni dalla sera prima e addirittura fino alle 16. Anche in questo caso è legittimo sospettare una messa in scena (con il pasto in mostra nella stanza e intatto fin dopo le 16) avallata dai coniugi De Maria.

b) le testimonianze, anche se poi se ne ritrovano alcune contrarie (però chiaramente di parte), che hanno notato il particolare del rigor mortis presente alla raccolta dei cadaveri davanti a villa Belmonte e poi al caricamento, al bivio di Azzano, dei corpi sull'autocarro che li ha portati a Milano (i due cadaveri sono stati maneggiati per caricarli, prima sull'auto e poi sul camion, verso sera, poco meno di 3 ore dopo le 16, ma se risultavano già rigidi, si deve concludere che la morte è avvenuta molto prima). A queste vanno aggiunte le testimonianze che hanno notato il pochissimo, quasi inesistente residuo di sangue davanti al cancello di Villa Belmonte. [59]

c) la valutazione, sia pure indicativa, problematica e presa con tutte le cautele (vista la mancanza di una precisa indagine necroscopica e le vicissitudini subite dai cadaveri), delle foto dei due cadaveri, tra il tardo pomeriggio e l'alba del 29/30 aprile (non si sa) nei corridoi dell'obitorio che mostrano i due corpi già abbastanza sciolti al collo, al tronco, al polso e alle braccia, indicando una risoluzione in stato avanzato e quindi una morte anticipata di alcune ore, rispetto alla versione ufficiale (16,10 del 28 aprile). Una constatazione questa che, per sua natura, seppur non di certo assoluta per risalire all'ora del decesso, pone però gravi interrogativi almeno per il rilievo trascritto dal professor Cattabeni nel suo verbale autoptico dove scrisse: «Rigidità cadaverica risolta alla mandibola, persistente agli arti». [60]

 

NON È CREDIBILE, che il colpo post mortem notato sulla nuca di Mussolini, gettato a terra sul selciato di piazzale Loreto ed adagiato sul petto della Petacci (foto dunque ripresa non molto tempo dopo l'arrivo dei cadaveri in piazza), sia stato sparato ad un cadavere, con arma tenuta quasi rasoterra e orizzontale, in mezzo alla gente. [61]

Quando fu sparato quel colpo post mortem sulla nuca del Duce? Forse durante la finta fucilazione di villa Belmonte? E si è forse è voluto simulare goffamente un colpo di grazia?

 

NON È CREDIBILE, né giustificabile, che sia stato ritenuto (o addirittura dato un ordine) di non eseguire l'autopsia sul cadavere della Petacci se non ci fossero stati dei gravi motivi per impedirlo. E soprattutto non è credibile neppure il fatto che il fantomatico "Guido, Generale medico della Direzione Generale di Sanità del Comando Generale del CVL", firmatario del verbale di Cattabeni, sia sparito nel nulla, nè abbia mai più dato segni di vita, se non avesse avuto altrettanti gravi motivi per agire in questo modo. Ed altrettanti buoni motivi li hanno avuti le fonti resistenziali a non indicarlo!

 

È ASSURDO, che non sia stata consegnata alla storia della Resistenza l'arma (il mitra e aggiungiamoci anche la pistola) impiegato in questa decantata impresa di giustizia popolare, per la quale si richiese un alta onorificenza.

Perché far credere per anni che l'arma fosse stata smembrata ed i pezzi donati come cimeli, oppure che è stata spedita a Mosca, [62] o ancora che la conservasse Moretti [63] ed infine invece, come oggi si dice, ma non tutti ci credono (e sempre che poi sia l'arma effettivamente usata per uccidere il Duce e non magari quella usata per la sceneggiata della finta fucilazione), fatta sparire nel 1957 in Albania, dodici anni dopo i fatti, con l'impegno di tenerla segreta? Ma il professor Paolo Murialdi Paolo, storico e al tempo capo Stato Maggiore delle Divisioni dell'Oltrepò, affermò in proposito: «Il mitra di Mussolini a Tirana? Ogni anno esce una versione diversa sulla fine fatta dall'arma che ha ucciso il Duce. Sono state dette tante sciocchezze, ma questa è una delle più grosse che ho sentito finora». [64]

Eppure la consegna dell'arma alle autorità, descritta persino con l'indicazione di un nastrino rosso alla canna e numero di matricola, oltre che ad assolvere ad un dovere storico verso la Resistenza, avrebbe potuto chiarire i tanti dubbi che nel frattempo si addensavano su le famose e contraddittorie versioni di Valerio.

Se questo non è stato fatto è perché c'era una grave ragione per agire così!

 

È ASSURDO, che non molto tempo dopo quei fatti, si siano avute molte testimonianze, anche se la maggior parte delle quali solo successivamente e approssimativamente rese note, di chi aveva potuto vedere o sentire particolari da testimoni vari presenti quel giorno a Bonzanigo e Giulino di Mezzegra: particolari non ben collimanti con la versione ufficiale, ma come depositari di un qualcosa di diversamente accaduto.

Per esempio: strani via vai di partigiani al mattino, spari nel paese, arrivi di macchine, gruppetti di partigiani che bloccano l'accesso a determinate strade poco prima che arrivi Valerio, ecc., tutti eventi che non avrebbero dovuto verificarsi se, come si sostiene, nessuno sapeva dove erano rinchiusi Mussolini e la Petacci (casa De Maria) e Valerio era partito da Dongo per Bonzanigo solo alle 15,10. [65]

Altrettanto assurdo è il fatto che, anni dopo, ex attori di quegli eventi (vedi per esempio Piero, Orfeo Landini, Bill, Urbano Lazzaro, il Geninazza e tanti altri attori minori) hanno potuto, soprattutto grazie a queste incongruenze, sostenere le più disparate, divergenti e spesso inattendibili versioni sia su quei fatti, che sul nome dei partecipanti alla fucilazione in buona parte o totalmente, in contrasto con la versione ufficiale. [66]

 

SONO ASSURDI, i pochi racconti che si sono ricavati dai coniugi De Maria; soprattutto il fatto che il padrone di casa Giacomo se ne era andato tranquillamente a veder passare il Duce prigioniero, quando lo aveva in casa e comunque lasciando la moglie molte ore da sola con i prigionieri e gli uomini armati!

Addirittura poi non è neppure escluso che anche la De Maria, alle 15,30 del 28 aprile, si trovasse sulla statale con il resto della gente ad aspettare che passassero i prigionieri (come raccontato da una certa Rosa di Rizzo) fatto questo che dimostrerebbe la falsità di tutta la versione ufficiale e di tutti i racconti strappati negli anni alla stessa De Maria.

Suona di artefatto, inoltre, anche l'accurata messa in scena della stanza dei prigionieri, realizzata con minuzia di particolari e foto: la tuta della Petacci appesa all'attaccapanni, il suo baschetto da pilota, la cassapanca con i panini ed il resto del cibo, la coperta sul letto, ecc. Notò giustamente A. Zanella: «questo aspetto è parallelo alla sovrabbondanza di oggetti della Petacci trovati davanti al cancello di Villa Belmonte». [67]

 

NON È CREDIBILE, che il subdolo "invito" (sembra organizzato dagli uomini di Martino Caserotti, "Roma") per spedire la gente di Azzano, Giulino e Bonzanigo a lasciare le loro case e a recarsi sulla provinciale a veder transitare nel pomeriggio un Mussolini prigioniero, sia una fatto marginale e non sia in relazione invece con la finta fucilazione a Villa Belmonte.

Sembra che lo stesso Michele Moretti si sia lasciato sfuggire un «Non volevamo essere disturbati in quello che dovevamo fare», [68] frase che anche se è in relazione alla fucilazione delle 16,10 già lascia perplessi, visto che Valerio non ebbe tutto questo tempo per preavvertire del suo arrivo, ma potrebbe essere invece indicativa proprio per la sceneggiata da mettere in atto davanti al cancello della Villa.

Ma ancor di più tutta la falsità di quegli avvenimenti è dimostrata dal fatto (ben testimoniato anche se prove certe a suo tempo non vennero cercate) che forse intorno alle 13 venne sparsa nel paese questa voce relativa ad un transito di Mussolini prigioniero nel primo pomeriggio. Fatto questo che praticamente svuotò le case dei circa 50 abitanti di Bonzanigo e dintorni.

Visto che a quell'ora Valerio doveva trovarsi in viaggio verso Dongo ed ancora non sapeva del luogo dove era custodito Mussolini, è praticamente impossibile per la versione ufficiale giustificare questa manovra diversiva, finalizzata per la discrezione di Valerio, fatta con così largo anticipo. [69] Ancor meno credibile è il presupporre che questo avvenimento avvenne per cause indipendenti dalla fucilazione di Mussolini.

 

È ASSURDO che ci siano, come già detto, varie testimonianze di persone che trovatesi quel pomeriggio del 28 aprile nei pressi del luogo dell'esecuzione attestano inequivocabilmente che la zona di Giulino di Mezzegra era stata isolata e bloccata da nord e da sud da svariati partigiani armati già da almeno mezz'ora prima della fucilazione. Quindi Valerio non arrivò improvviso ed inaspettato, non scelse sul momento il fatidico cancello per eseguirvi l'esecuzione, non c'era lui solo, con Guido, Pietro e l'autista, ma c'erano indaffarati molti elementi sia del luogo che venuti da fuori, c'era già da tempo in atto un qualcosa di preordinato e di completamente diverso!

Ed analogamente, altrettante testimonianze sia pure incontrollate, attestano strani via vai di partigiani armati al mattino, spari sospetti e quant'altro, tutti particolari questi che non dovevano assolutamente verificarsi visto che nessuno sapeva che in casa De Maria c'erano, tranquilli a riposare, Mussolini e la Petacci e quindi il paesino avrebbe dovuto essere relativamente immerso nell'anonimato. [70]

Per il momento dell'esecuzione al cancello della Villa poi, non sono attendibili le tardive testimonianze, come quella della signora Edvige Rumi, moglie di Edoardo Leoni, che dopo molti anni asserì di essere partita da Dongo con alcuni curiosi per andare dietro ad Audisio e guarda caso arrivarono nel punto giusto proprio per godersi lo spettacolo, da un specie di boschetto (quale?) di fronte a Villa Belmonte e nel momento esatto, oltretutto non visti dai 3 "giustizieri" all'opera, che pur si premunirono di cacciare anche via i pochi abitanti della Villa che si stavano avvicinando. È indubbio che ci troviamo di fronte ad un racconto, sia pure in buona fede, frutto della sceneggiata davanti al cancello della Villa e di quello che si potè vedere subito dopo quella "fucilazione" e delle tante voci che presero a circolare in zona. [71]

 

NON È CREDIBILE che sia stato ufficializzato, solo dopo quasi sette mesi (novembre '45), il nome di battaglia di Valerio (già sussurrato, o fatto sussurrare, a maggio del '45 dal Lanfranchi) per l'esecutore di Mussolini e rabbioso giustiziere di Dongo e poi che si sia impiegato ancora oltre un anno (marzo '47), per attribuire il nome di Walter Audisio, un ragioniere militarmente sprovveduto, a quello di Valerio. Nè è credibile che questi nomi non siano stati ufficializzati prima (ad eccezione dei servizi del giornalista Lanfranchi a maggio e ottobre del 1945) solo perché c'erano ragioni di sicurezza.

Chi aveva vissuto quegli avvenimenti, chi aveva dato o firmato gli ordini al comando generale del CVL di Milano, chi aveva avuto modo di vedere i documenti presentati dal famoso colonnello Valerio (ed erano in molti) a Como ed a Dongo quel 28 aprile del '45, come è possibile che non ricollegò mai e rese noto, nè che lo sconosciuto esecutore si chiamava Valerio, nè che poi questo irascibile e rabbioso Valerio in realtà fosse Audisio?

Non ci sono elementi oggettivi per sostenere che ci potesse essere stata una sostituzione postuma di un altra persona con Audisio (come sostenuto senza prove da F. Bandini e U. Lazzaro) [72] e quindi una mistificazione così generalizzata da parte di molti attori presenti a Milano, Como e Dongo. Si può quindi condividere la ricerca storica di Marino Viganò che ha dimostrato l'identità Audisio = Valerio, [73] è però plausibile che ci sia stato un diverso svolgersi degli avvenimenti: sicuramente c'era stato un Audisio che era partito da Milano verso le ore 7 del 28 aprile e vi era rientrato la notte dello stesso giorno, ma c'erano stati all'opera anche altri personaggi poi spariti e che, intanto, l'Audisio che era stato visto a Como e Dongo, non era e non poteva essere, all'interno dell'episodio mattutino rimasto misterioso, colui che salì la mattina presto a Bonzanigo per uccidere il Duce. Occorreva pertanto lasciar passare del tempo e vedere quanto di quegli avvenimenti, sceneggiata a villa Belmonte compresa, era venuto a galla prima di ufficializzare il nome di Valerio, ma sopratutto poi quello di Audisio quale esecutore di Mussolini al quale accollare, per ragioni storiche e opportunità politiche, gli oneri e gli onori di quell'impresa.

 

Ed infine è ASSURDO, come risulta oggi da più fonti e testimonianze oramai acquisite, ed è stato anche recentemente ricordato dal vicesindaco di Mezzegra, Gianfranco Bianchi, intervistato nel corso della trasmissione "Trenta Denari", condotta dal giornalista Emanuele Caso alla TV Espansione di Como del 2008, ovvero che al tempo gli abitanti di quei posti vennero «zittiti». Anche l'anziano parroco di Mezzegra, don Luigi Barindelli, ha confermato queste vecchie intimidazioni. Se quindi all'epoca e per molti anni successivi si cercò con evidenti minacce e intimidazioni di non far parlare la gente, si deduce inequivocabilmente che pur c'era una diversa verità su quei fatti da non far emergere, altrimenti sarebbe stata inutile questa pluriennale intimidazione. Ergo la storica versione non è veritiera.

 

* * *

Per concludere la nostra controinformazione possiamo sostenere, con ragionevole certezza che quanto narrato dalla "storica versione" non è veritiero e che un assassinio di Mussolini, seguito a poca distanza da quello della Petacci, retrocesso al mattino del 28 aprile, può essere seriamente preso in considerazione grazie anche ad alcune testimonianze e molti elementi concreti.

Più difficile, se non impossibile, resta al momento il poter dare un nome a coloro che si cimentarono nello sparare contro Mussolini e la Petacci. Non ci sono prove per individuare dei nominativi od escluderne degli altri e tutte le testimonianze in proposito, letteralmente contraddittorie tra loro, finiscono per risultare inattendibili.

Se prima di prendere visione di quanto da noi qui sopra riportato, poteva apparire poco credibile che quel sabato pomeriggio vennero attuate tra Bonzanigo e Mezzegra due messe in scena, quali un corteo di due presunti Mussolini e Petacci, prelevati da casa dei contadini De Maria e scortati alla macchina che li attendeva sulla piazzetta del Lavatoio e subito dopo una finta fucilazione di "due cadaveri", davanti al cancello di Villa Belmonte, alla luce di quanto esposto, crediamo che si potrà considerare diversamente tutta la faccenda.

In effetti si trattò di due brevi sceneggiate probabilmente progettate quando, a fine mattinata, ci si trovò alle prese. oltre che con il cadavere di Mussolini, anche con quello della Petacci uccisa proditoriamente intorno al mezzogiorno (vedi testimonianza Dorina Mazzola, in G. Pisanò, "Gli ultimi 5 secondi di Mussolini", il Saggiatore 1996).

Necessità politiche, impegni del governo del Sud verso gli Alleati e il dover camuffare quelle uccisioni poco edificanti, presentandole come un atto di "giustizia ciellenista" che coinvolgeva tutte le componenti della Resistenza, resero necessario il mostrare tutta la faccenda come una regolare fucilazione in virtù di una presunta sentenza di morte del CLNAI da eseguirsi «in nome del popolo italiano».

Elementi partigiani del posto e dirigenti comunisti giunti da fuori consentirono di attuare quelle messe in scena che rimasero per anni imperscrutabili anche perchè alcuni residenti avevano sbirciato o udito solo parte degli avvenimenti accaduti al mattino, altri avevano pur assistito al passaggio dei presunti "prigionieri" sulla piazza del Lavatoio e poi magari avevano percepito le fasi della "fucilazione" a Villa Belmonte e molti altri invece erano sconcertati dal valzer di voci e informazioni messe in giro in quelle ore.

Ma soprattutto, come è oramai accertato, venne imposta in quei luoghi una "versione di comodo" e furono sparse minacce ed intimidazioni affinchè nessuno rivelasse fatti o particolari che potevano divergere da quella versione. E le violenze, gli omicidi e le sparizioni che per mesi imperversarono in tutto il comasco, non erano certo uno scherzo e contribuirono a creare quella cappa di paura e quella diffusa omertà ambientale che non sarà mai più spazzata via. Se a tutto questo si aggiunge la immediata ricostruzione e lo sviluppo di una società mediata dalla nuova cultura dei partiti dell'arco costituzionale e in quei luoghi anche da una forte agiografia resistenziale curata dagli Istituti storici della Resistenza, si comprenderà come sia stato possibile che una parte di verità rimanesse nascosta.

In questa controinformazione su quegli eventi ci siamo limitati a confutare la "storica versione", senza avanzare una nostra ipotesi alternativa, perchè una proposta di questo genere sarebbe difficilmente comprovabile e quindi si rischia di fare il gioco degli irriducibili e forse interessati sostenitori della versione di Audiso, che spesso hanno avuto buon gioco a mettere in ridicolo certe "ipotesi alternative" che però sinceramente erano insostenibili o comunque assolutamente non comprovate.

Altrettanto difficile è il poter dare oggi, a distanza di tempo, le giuste valutazioni a tanti particolari che appaiono quantomeno "anomali".

Si prenda per esempio alcune vicende che sono emerse circa i certificati di morte di Mussolini e la Petacci: quelli civili, ma soprattutto quelli curiali.

I certificati civili. Il giornalista storico Luciano Garibaldi notò per primo una certa "stranezza" che si riscontrava nel fatto che gli atti di morte di Mussolini e della Petacci furono formulati dal comune della Tremezzina solo il 25 agosto 1945, dietro una sentenza del Tribunale di Como del 29 luglio precedente. Testi della denuncia, fatta da Paolo Lingeri e ricevuta dal sindaco Ferrero Valsecchi, furono Anna Pirola Gobetti, impiegata e Stefano Lanfranconi, messo, entrambi dipendenti comunali. La morte era stata attestata alle 16,20.

Garibaldi, in pratica, partendo dalla convinzione che i due erano stati uccisi al mattino, insinuò che l'atto venne emesso con tale ritardo perchè "manipolato" dalle autorità partigiane, mettendo così indirettamente in dubbio la buona fede del Lingeri. I figli di costui, ritenendo che il congiunto era stato diffamato nella memoria, sporsero querela. [74]

Garibaldi e il direttore del settimanale "Noi" che aveva pubblicato il servizio nel 1994, vennero condannati per diffamazione a mezzo stampa ad una multa ed al risarcimento danni alle parti civili e la sentenza venne confermata nel 1999 dalla Corte d'Appello di Milano.

Il processo comunque non doveva accertare l'orario preciso in cui, quel 28 aprile 1945, vennero uccisi il Duce e la Petacci. L'ex sindaco Valsecchi inoltre, sentito come teste, non fu testimone oculare dei fatti che, invece, disse, aveva appreso il giorno successivo 29, dal Capitano Neri alias Luigi Canali. [75]

Per la storia del certificato di morte parrocchiale, invece, si constata un altra "anomalia".

Il ricercatore storico Alberto Bertotto ha infatti rintracciato il certificato curiale redatto, ma non firmato dal parroco di allora (don Giacomo Dalla Mano) e depositato nella parrocchia di Giulino di Mezzegra (parrocchia di Sant'Abbondio). Vi era trascritta la morte del Duce come stabilito dalla "vulgata": ore 16,30 del 28 aprile del 1945, anche se invece di 1945 era stato trascritto 1940 (?), ma come detto il certificato non reca la firma del parroco (una stranezza anche se, per prassi curiale, il parroco non era affatto obbligato a firmarlo). Ma ancor più nella chiesa manca il certificato di morte di Claretta Petacci ed a quanto pare quel documento in parrocchia non c'è mai stato.

Si poteva quindi supporre che Claretta, a differenza di Mussolini, supposto per ucciso al cancello di Villa Belmonte, non si era convinti che era stata uccisa nello stesso luogo e pertanto il suo decesso poteva non dipendere dalla giurisdizione territoriale di Giulino di Mezzegra o qualcosa di simile. [76]

Considerando che l'uccisione del Duce al mattino era rimasta in parte misteriosa, mentre quella della Petacci al mezzogiorno, sotto casa di Dorina Mazzola, era a conoscenza di molti, si poteva anche supporre, se pur come semplice congettura, che il parroco di allora non se l'era sentita di attestare un dubbio, firmando il certificato di Mussolini, ma soprattutto trascrivendo un altro certificato che attestava la Petacci fucilata insieme al Duce davanti al cancello di villa Belmonte.

Il Bertotto ha inoltre ascoltato l'attuale anziano parroco di Mezzegra, don Luigi Barindelli, il quale ha ricordato che il parroco di quei tempi venne a conoscenza dei fatti del 28 aprile il giorno successivo rimanendone sconvolto. Don Barindelli però non sapeva spiegarsi oggi le relative anomalie e quindi non poteva nè avallare, nè escludere le precedenti perplessità e supposizioni.

Pur tuttavia, nella complessità ed indeterminatezza di questa situazione, vogliamo accennare ad alcune testimonianze, almeno quelle che, con gli anni, hanno retto alla critica e per una serie di riscontri indiretti sui rilievi cronotanatologici, balistici e di altra natura, inerenti quelle morti, hanno trovato sostanziali conferme.

In particolare bisogna considerare la testimonianza di Dorina Mazzola, deceduta nel 2001, la cui figlia ancora oggi difende la genuinità dei racconti materni, ascoltati anche dal nonno. [77]

Una testimonianza che oltretutto nessuno ha potuto confutare. Della Mazzola, così si è recentemente espresso Giannetto Bordin, che a suo tempo, collaborò con Pisanò nella raccolta della testimonianza: «... Dorina Mazzola, a quel tempo una ragazza di 19 anni intelligente sveglia ed attiva e, al momento delle sue dichiarazioni -febbraio 1996- un'anziana settantenne dalla mente lucidissima (...) In seguito alla sua testimonianza, Dorina Mazzola, per questo suo coraggio, ebbe a ricevere dimostrazioni di solidarietà e di approvazione da parte di molte persone della zona, come lei a conoscenza delle stesse cose, che si sentivano finalmente "sollevate" dal peso oppressivo del silenzio loro imposto con la minaccia di gravi ritorsioni se ne avessero parlato. Numerose furono anche le manifestazioni di solidarietà e approvazione, testimoniate dalle molte telefonate e lettere (copie di queste pure in possesso di chi scrive) che a Dorina Mazzola sono giunte da ogni parte d'Italia e dall'estero, per ringraziarla d'avere finalmente squarciato l'ormai inutile velo su di un fatto storico talmente importante e controverso». [78]

Ma se quella di Bordin potrebbe considerarsi una testimonianza "di parte", ci sono anche tante altre testimonianze come, per esempio, quella del giornalista Antonio Marino, vicedirettore de "la Provincia, il quotidiano di Como on line", che così si è espresso: «A suo tempo, ebbi modo di conoscere e intervistare Dorina Mazzola e il suo racconto mi parve, come parve a Pisanò, quantomeno sincero e totalmente disinteressato. Cosa che non si può dire di altre versioni sulla morte di Mussolini». [79]

Non è un caso che dopo molti anni da questa testimonianza e le tante polemiche intercorse, un giornalista imparziale quale lo scomparso Alfredo Pace nel suo libro "B. Mussolini C. Petacci" (Greco & Greco, 2008) scrisse: «È una testimonianza che va creduta fino in fondo, senza dubbio, a parte forse qualche particolare sugli orari o sulle persone viste (...) ma non sulla sostanza».

La Mazzola dunque era al tempo una ragazza di 19 anni abitante a poco più di cento metri da casa De Maria in Bonzanigo, la quale con un racconto dettagliato e preciso riferì a Giorgio Pisanò nel febbraio del 1996, [80] ma contemporaneamente anche al giornalista Mario Lombardo di Epoca, [81] di aver assistito dalla finestra di casa sua ad eventi mattutini riconducibili ad una uccisione del Duce, prima ferito in quella casa e poi trascinato ed ucciso nel cortile dello stabile.

La ragazza però non sapeva che quanto udiva e vedeva riguardasse Mussolini, così come non sapeva che alcune ore dopo, verso mezzogiorno, quando vide uccidere una donna, in una stradina sotto casa sua, questa fosse proprio Claretta Petacci.

Solo nel pomeriggio la ragazza potè apprendere in paese quanto effettivamente era accaduto al mattino. Ma immediatamente e per tanti anni ancora subì evidenti minacce (così come minacciati furono tutti gli abitanti del circondario Bonzanigo, Mezzegra, Azzano) affinchè mantenesse il segreto almeno per cinquanta anni.

Ma Giorgio Pisanò, nel libro con il racconto di Dorina Mazzola, riportava anche una importantissima e mai smentita testimonianza della signora Savina Santi, vedova di Sandrino Guglielmo Cantoni, uno dei due carcerieri di Mussolini e la Petacci in casa De Maria. Raccontò la vedova di Sandrino: «Mussolini e la Petacci non sono stati uccisi nel pomeriggio e davanti al cancello di Villa Belmonte. Mio marito mi disse che quella mattina lui si trovava di guardia alla stanza dove c'erano i prigionieri, quando vide salire le scale Michele Moretti e altri due partigiani che non aveva mai visto nè conosciuto. I tre gli ordinarono di restare sul pianerottolo fuori della stanza ed entrarono nel locale. Mio marito, restando sul pianerottolo, udì uno dei tre che diceva: "adesso vi portiamo a Dongo per fucilarvi", e un altro gridare: "No, vi uccidiamo qui!". Poi mio marito udì altre voci concitate, le urla della donna e colpi d'arma da fuoco (...) ma non so dove li hanno uccisi con certezza».

Ed ancora non è poi di poco conto che Massimo Caprara, l'ex segretario di Palmiro Togliatti, dopo che nell'estate del 1996 aveva reso nota la confidenza di Togliatti che indicava in Aldo Lampredi l'uccisore del Duce, riferì anche una affermazione di Celeste Negarville (esponente comunista già direttore de "l'Unità" nel '44 e poi senatore): «Con la Petacci, Lampredi non c'entra. La Petacci è stata uccisa altrove. Lampredi si trovò un cadavere in più, che non era nel conto». [82]

Anche Angelo Carbone, al tempo un 83 enne ex partigiano di Rivanazzano in Oltrepò, amico di Sandro Pertini, pur nel contesto di racconti alquanto raffazzonati e sinceramente poco credibili, fece importanti affermazioni ricordando di essere stato presente ai noti eventi (riferendosi però al Cancello di Villa Belmonte), ma aggiunse: «Non è vero che Claretta Petacci fu uccisa con Mussolini davanti al cancello di Villa Belmonte. È una storia inventata di sana pianta».

Disse, anche «Clara Petacci non doveva morire... doveva essere liberata. Rimase uccisa accidentalmente, nella stanza dove era rimasta custodita con Mussolini».

Affermazioni queste non ben specificate, scoordinate, confuse, ma che danno il senso di un qualcosa di molto diverso dalla versione ufficiale. [83]

Elena Curti, figlia naturale di Mussolini, ha invece raccontato nel 2007 al professor Alberto Bertotto un suo importante ricordo: «Dieci anni fa, un ragazzo che all'epoca aveva solo 15 anni (Osvaldo Gobbetti un comunista di Dongo - N.d.R.), al quale i partigiani davano incarichi come ricaricare le armi, mi ha riferito, dopo averlo saputo da un compagno che aveva assistito ai fatti di Bonzanigo, che la Petacci era stata uccisa mentre tentava di allontanarsi»; stava correndo su un prato, venne raccontato alla Curti, quando venne falciata proditoriamente da una raffica di mitra alle spalle. Lo stesso partigiano che lo raccontava al Gobbetti era rimasto scioccato. [84]

Proprio quello che vide il teste di Bonzanigo, Dorina Mazzola.

Ed infine, l'anziano medico, il dottor Pierluigi Cova Villoresi, di sicura fede antifascista, che sembra abbia presenziato alla famosa autopsia di Mussolini stilando anche un suo personale referto autoptico, ad ottobre 2003 raccontò nel corso di una intervista al direttore di "Italia Tricolore", Augusto Fontana, quanto segue, evidentemente appreso in ambienti qualificati:

«(i cadaveri) Li avevano rinchiusi nell'albergo vicino al posto dove poi sono stati fucilati».

«Ah quindi non nella camera da letto dei De Maria?» chiese l'intervistatore riferendosi alle note ipotesi di una uccisione dentro la stanza.

Cova: «No, no, no, fuori!... erano fuori... Lì c'è una specie di terrazzo dal lato stradale col limite in ferro tra la strada e il lago e c'è una piazzetta ...».

E sulla Petacci, parlando del cancello di Villa Belmonte ebbe a precisare:

«... quel cancello lì è sbagliato, perchè dove l'hanno uccisa è sulla curva di una stradina che parte dal lago, parte dalla strada, c'è la strada che praticamente è parallela al margine del lago». [85]

Si noti: i cadaveri rinchiusi nell'albergo (evidentemente il "Milano" sulla via Albana), Mussolini fuori di casa, ma nei pressi e la Petacci uccisa da un altra parte sulla curva di una stradina: tutti particolari in sintonia con la testimonianza di Dorina Mazzola.

 

L'ultimo disperato tentativo "revisionista"

Ultimamente, tramite gli scrittori e ricercatori storici Giorgio Cavalleri e Franco Giannantoni (attestati con qualche distinguo su posizioni conformi alla "storica versione") e grazie al ricercatore storico Mario J. Cereghino, si è manifestato un ultimo tentativo "revisionista" (sia pure sbugiardando le versioni di Walter Audisio, Aldo Lampredi e Michele Moretti), teso a mantenere in vita la fucilazione pomeridiana al cancello di Villa Belmonte. Per estendere a tutto campo la nostra controinformazione dobbiamo darne un accenno.

Questi autori, infatti, hanno pubblicato un libro: "La fine - Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945 1946)", Garzanti 2009, dando credito ad un documento di fonte americana.

L'opera si regge su un effimero "Memorandum", fino ad oggi inedito, inviato il 30 maggio 1945 ad Allen Dulles direttore della centrale del centro Europa dell'OSS americano a Berna, dal suo agente "441" cioè Valerian Lada-Mocarski, il quale attesta la solita fucilazione delle 16,10, ma innesta alcuni particolari completamente difformi dalla "storica versione".

Come noto il Lada-Mocarski, avvocato, ufficiale americano di discendenza russa, al tempo agente cinquantenne dell'OSS, fin dal 29 aprile 1945 e per circa sei mesi aveva condotto, nonostante la precaria conoscenza della nostra lingua, una sua inchiesta attraverso la raccolta di svariate testimonianze, sulle ultime ore di Mussolini da Como fino a Giulino di Mezzegra.

I rapporti di Lada-Mocarski, su quegli avvenimenti, in realtà erano già conosciuti anche attraverso la pubblicazione di un saggio dello stesso agente pubblicato a dicembre 1945 a Boston sulla rivista americana "Atlantic Monthly" e altre documentazioni che erano conservate dallo storico Renzo De Felice e sono recentemente venute alla luce. Quello che in quest'altro inedito rapporto vi è di nuovo è la descrizione dei momenti dell'uccisione di Mussolini con una serie di particolari che poi, anche questi, tanto nuovi non sono, perchè ricalcano quel famoso "rapporto" per il CLN di Como steso, verso la metà di maggio del '45, dalla partigiana Angela Bianchi, maestra a Griante, su incarico di suo zio il comandante partigiano Martino Caserotti (Comandante Roma) che operava nella Tremezzina. [86]

Anzi, se andiamo a ben guardare, l'ulteriore "testimonianza scritta" che il Mocarski dice di aver avuto da un comandante partigiano presente alla fucilazione e che gli autori, a nostro avviso sbagliando, indicano nel Capitano Neri, ovvero Luigi Canali, la quale costituirebbe la "novità" rispetto ai precedenti rapporti del Mocarski, in realtà non è azzardato supporre che venne invece fornita proprio dal Caserotti, visto che molti elementi combaciano con quanto questo partigiano ebbe a riferire al giornalista Franco Serra nel 1962. [87]

Ed infatti questo memorandum del Mocarski del 30 maggio parla di un «comandante partigiano di una unità locale» che, uditi i colpi presso il cancello di Villa Belmonte, incuriosito si avvicinò al luogo. Particolare questo che non si addice al ruolo del Canali, ma molto di più a quanto già ebbe a raccontare il Martino Caserotti (non a caso, sia il rapporto della Bianchi del maggio '45, che la testimonianza del Caserotti del 1962 e il rapporto inedito del Mocarski del 30 maggio '45 ricalcano, sostanzialmente, uno stesso scenario).

Ma oltretutto il Canali venne sequestrato e poi soppresso la mattina del 7 maggio 1945 ed è alquanto difficile che, prima di allora, il Mocarski abbia potuto ricevere da lui un rapporto scritto e la prova, se ce ne fosse bisogno, sta nel fatto che ai primi di maggio l'agente inviò ad Allen Dulles un precedente rapporto in cui non si faceva menzione di quest'altra versione.

Leggendo questo "Memorandum" del 30 maggio, ci si rende subito conto di come l'agente americano non fece altro che raccogliere tutta una serie di racconti, spesso imprecisi, che circolavano in quei giorni ai quali va aggiunta, appunto, la versione che già dai primi di maggio girava nel comasco su una uccisione di Mussolini eseguita da un paio di tiratori di cui uno con revolver. Versione che, più o meno, venne anche riportata nei vari articoli inchiesta che Ferruccio Lanfranchi pubblicò sul suo "Corriere d'Informazione" a maggio 1945 e nell'autunno successivo.

Ma questa versione venne rinnegata dal PCI che non la volle avallare perchè, dal 18 novembre di quell'anno, "l'Unità" prese a pubblicare una serie di articoli che ritagliavano sul solo misterioso colonnello Valerio gli oneri e gli onori di quella fucilazione. [88]

Non è peregrino, allora, sospettare che dopo le scarne e sintetiche notizie sulla morte di Mussolini emesse da "l'Unità" del 30 aprile 1945, nel comasco venne affidato (o si prese da sè stesso la briga) di redigere un più particolareggiato rapporto su quella morte, al Martino Caserotti, capo partigiano del luogo e presente ai fatti, il quale lo fece poi redigere da sua nipote Angela Bianchi.

Ma vuoi per il fatto che quel "rapporto" presentava alcuni elementi alquanto fantasiosi (per esempio si sosteneva che il partigiano venuto da Milano, praticamente il Valerio, era il figlio di Matteotti) o perchè descriveva l'uccisione di Mussolini, preceduta da colpi di pistola a bruciapelo, il che appariva più come una esecuzione gangsterica, invece di una fucilazione giustizialista il PCI, evidentemente, non ritenne opportuno avallarlo e questo "rapporto" della Bianchi, che pur fu anche stampato localmente in qualche copia, cadde nel dimenticatoio.

Saltiamo i particolari relativi alle ore precedenti la cattura di Mussolini e vediamo cosa venne raccontato all'agente americano. [89]

Si comincia con una evidente stupidaggine che sarebbe quella che Claretta Petacci fu riconosciuta il pomeriggio del 27 aprile sulla piazza di Dongo, scambiando in questo caso Claretta con la compagna di suo fratello ovvero Zita Ritossa. Un errore comunque da poco, ma non da poco è poi la successiva errata informazione che il Mocarski riporta e in cui afferma che la Petacci venne condotta, assieme a Mussolini, nella piccola casermetta della GdF di Germasino dove invece non è mai stata.

Il Mocarski raccoglie poi altre informazioni sballate che gli attestano che Mussolini e la Petacci vennero condotti la notte del 27 aprile in casa De Maria a Bonzanigo passando per la stessa strada per la quale furono poi, il pomeriggio del giorno dopo, portati a Villa Belmonte.

Seguono quindi tutta una serie di racconti, alquanto fantasiosi, sulla permanenza dei due prigionieri in casa De Maria, racconti che, in buona parte, già furono riportati sui giornali di quel tempo, quali "l'Italia Libera", da Ferruccio Lanfranchi sul "Corriere d'Informazione", ecc.

Interessante è invece notare come dai racconti, che evidentemente i coniugi De Maria fecero al Mocarski, questi ebbero a riferirgli particolari che successivamente, in altre interviste da loro concesse, guarda caso, subirono evidenti modifiche.

Per esempio: che il padrone di casa Giacomo De Maria riconobbe ben presto Mussolini, mentre invece poi sua moglie affermò che non lo avevano riconosciuto (a sua volta smentita, dopo la sua morte, dal figlio Giovanni). Che lo stesso stette buona parte del mattino fuori a lavorare, ma la De Maria raccontò successivamente che intorno alle 14, quando si sparse la voce che Mussolini sarebbe stato fatto passare sulla strada provinciale prigioniero, il marito partì a razzo per andarlo a vedere e ci restò tutto il giorno. [90]

Al Mocarski venne anche detto che Mussolini mangiò un paio di fette di salame e un poco di pane, cosa questa che l'autopsia del cadavere del Duce non ha riscontrato.

Si riporta poi il particolare che i tre partigiani, quando verso le 16 vennero a prelevare i prigionieri, furono accolti da Giacomo De Maria (successivamente, come noto, si sostenne invece che Giacomo non era presente essendo andato con altri del paese a vedere Mussolini prigioniero che doveva passare sulla provinciale - N.d.R.).

E qui i tre "giustizieri" sopraggiunti, a parte Michele Moretti (indicato come colui che era già stato in quella casa la notte precedente), vengono descritti come degli sconosciuti, ovvero un civile, alto e i capelli pettinati all'indietro che indossava un impermeabile leggero, più un "capo partigiano".

Gli autori del libro, con estrema disinvoltura indicano nel civile Walter Audisio, ovvero Valerio e nel capo partigiano Aldo Lampredi. Interpretazione anche questa decisamente arbitraria visto che, come da successive descrizioni della De Maria, che parlò di un impermeabile chiaro e di una specie di basco portato in testa dal civile, semmai questo civile può individuarsi in Aldo Lampredi più alto di Audisio (era alto circa 1,83 e non era molto stempiato di capelli) e invece nel "capo partigiano", che per essere definito come tale doveva pur mostrare qualche abbigliamento adatto, è più indicato proprio l'Audisio che indossava una giacca a vento militare.

Il trasferimento a piedi di Mussolini e la Petacci verso la macchina che li aspettava sulla piazzetta del Lavatoio ricalca, più o meno, il rapporto di Angela Bianchi ed ha di interessante unicamente il fatto che vi si intuisce una vera e propria messa in scena con due personaggi che impersonavano Mussolini e la Petacci. Mussolini, infatti, venne descritto con un soprabito grigio con il bavero rialzato e il berretto calato fino agli occhi e poi entrambi, udite, udite, si disse che calzavano degli stivali neri (sic!), stivali che in un precedente rapporto, il Mocascky aveva anche precisato essere da equitazione.

Del gruppo di partigiani di scorta, seppur defilato, sembrerebbe farne parte, anche se non viene specificato, il Capitano Neri. Tra loro, il civile, che secondo gli autori del libro dovrebbe essere il colonnello Valerio, portava un revolver.

Seguono particolari e frasi alquanto improbabili, già raccontate nel citato rapporto della Bianchi e nella testimonianza del Caserotti a Franco Serra del 1962, come per esempio che la Petacci disse al Duce: «Sei contento che ti ho seguito fin qui?» e così via.

Veniamo ora alla descrizione della fucilazione.

Secondo questo rapporto Mussolini, mentre veniva fatto spostare davanti al cancello della Villa, venne prima raggiunto da un paio di colpi di revolver alla schiena, sparati da Valerio (il civile venuto da Milano). Il citato rapporto della Bianchi parlava di un paio di colpi di pistola al fianco sinistro.

Comunque sia questi colpi di revolver alla schiena sono letteralmente assenti dal referto autoptico sul cadavere di Mussolini del prof. Cattabeni il ché pone un grosso punto interrogativo su tutta questa ricostruzione.

Ai due colpi di revolver, comunque, immediatamente dopo seguirono tre colpi di mitra, probabilmente di Michele Moretti affermano gli autori del libro, che raggiunsero Mussolini al petto. Ora il mitra, in genere, spara una raffica, ma qui viene dettagliato che furono solo tre colpi che lo raggiunsero al petto. Anche questa dinamica però è smentita dall'autopsia che indica chiaramente che una sventagliata di mitra lasciò 4 colpi, a rosa abbastanza ravvicinata, sulla spalla sinistra di Mussolini.

Mussolini sembra che non sia morto, scrive nel suo rapporto il Mocarski, ma nel frattempo arriverebbe, attirato da questi spari, un «comandante partigiano di una unità locale», che tirerà un paio di revolverate, si presume al petto (stranamente), quali colpi di grazia.

Il rapporto della Bianchi del maggio '45 analogamente citava: «... un capo partigiano sopraggiunto gli assestò il colpo di grazia!», e il Caserotti raccontò nel 1962 a Franco Serra: «... Mussolini per terra tirava una gamba e muoveva gli occhi. Ho preso la mia pistola e gli ho sparato».

In tutto, secondo questa sequenza, Mussolini sarebbe stato raggiunto da 2 + 3 + 2 (di grazia) colpi (oppure uno solo di "grazia"), quindi sette (o sei) colpi, quando invece l'autopsia ha chiaramente indicato che il Duce fu attinto in vita da 9 colpi, al limite riducibili a 8 se quello che gli trafisse il braccio penetrò poi nel tronco o nel fianco dx.

La Petacci, relaziona il Mocarski, venne uccisa subito dopo con una deliberata raffica di mitra al petto ed anche qui c'è l'incongruenza che la Petacci invece, dai riscontri fotografici, ma non solo, risulterà chiaramente uccisa da una raffica di mitra alla schiena.

Insomma non c'era bisogno di andare a scovare nel Maryland, questo rapporto del Mocarski, perchè tutti questi particolari li si potevano, in buona parte, leggere nel rapporto di Angela Bianchi e nell'inchiesta di Franco Serra sulla "Settimana Incom Illustrata" dell'aprile 1962 e costituivano, in pratica, una versione dalla dinamica balistica un poco più convincente di quella assurda fornita dall'Audisio, solitario giustiziere, ma altrettanto bugiarda.

Interessante, per dedurne una finta fucilazione al cancello di Villa Belmonte, è invece l'osservazione riportata dal Mocarski (confermata poi da altri testimoni) che, praticamente, Mussolini (e devesi dedurre anche la Petacci) non aveva perso sangue davanti al cancello dove fu fucilato.

Tutto qui. Se questo "memorandum segreto" doveva costituire un estremo tentativo di avvalorare, con una diversa modalità e dinamica, la fucilazione pomeridiana delle 16,10, possiamo dire che è un tentativo inconsistente e in ogni caso tutte le nostre precedenti confutazioni, che dimostrano la evidente messa in scena al cancello di Villa Belmonte, restano pienamente validi anche per questa "versione".

 

Conclusioni

Questa storica versione, non solo comunista, ma fatta propria da tutta la storiografia resistenziale e sovente riportata sui libri di scuola, a nostro avviso non abbisognerebbe neppure di una scientifica confutazione, tanto è impasticciata, incongruente e contraddittoria che praticamente si smentisce da sola.

Questa vulgata ha, sostanzialmente, assolto al compito per la quale era stata, alla bene e meglio almanaccata e propagata, più che altro ai fini di (l'ordine non conta):

1. legittimare, attraverso la figura di Valerio, che si disse avrebbe agito per nome e per conto del CLNAI e su comando del CVL, una esecuzione sommaria (compreso l'eccidio di Dongo) che ha coinvolto persone (vedi Claretta Petacci ed il fratello Marcello, il capitano Pietro Calistri, ed altri) assolutamente non passibili di pena di morte, senza contare la correlata sparizione di beni, valori e documenti di ingente valore ed estrema importanza storica e il mancato adempimento degli impegni presi dal Governo italiano del Sud con gli Alleati per la consegna di Mussolini;

2. conferire al PCI, che la rivendicava attraverso i suoi uomini (tutti attori principali di quegli eventi), un ruolo storico decisivo per la Resistenza, garantendogli oltre alla mitizzazione di questo ruolo, un posto di primo piano nel panorama politico nazionale dell'immediato dopoguerra. E questo ruolo trovava la piena accettazione ed il suo equilibrio politico nella divisione di potere che per cinquanta anni vedrà il nostro paese retto da un asse e da una cultura politico ideologica «DC governo - PCI opposizione»;

3. denigrare definitivamente e totalmente la figura di Mussolini, attraverso il resoconto di una ignobile morte, impedendo così il sorgere di un mito del Duce che nei primi anni del dopoguerra avrebbe potuto costituire un serio problema;

4. nascondere dietro una cortina di confuse menzogne quanto effettivamente accadde quel 28 aprile del 1945 e che certamente e per varie ragioni storiche, politiche e forse morali, non poteva essere reso pubblico.

Da tutto questo ne è anche scaturito il "mito della Resistenza" laddove forze politiche, nazionali o internazionali che siano, hanno fatto del loro meglio affinché questo mito non venisse incrinato.

In particolare in ambito nazionale ha fatto a tutti comodo esaltare oltre ogni misura l'epopea della Resistenza, benché si sapesse benissimo che era un fenomeno estremamente minoritario e più che altro esploso con le partecipazioni dell'ultima ora.

E questo mito, in aggiunta a fatti ed eventi da tenere nascosti, è stato protetto in tutti i modi da forze e consorterie di varia natura.

Non è un caso che sono spariti alcuni memoriali di importanza capitale per conoscere la verità, come ad esempio quello di Guglielmo Cantoni Sandrino (uno dei guardiani del Duce nascosto in casa De Maria a Bonzanigo) sparizioni queste che da sole, non solo dimostrano come pur esisteva un "altra verità" da tenere nascosta, ma anche la presenza di Centri di potere in grado di eseguire queste operazioni.

A proposito di Ferruccio Lanfranchi, direttore del "Corriere d'Informazione" (il "Corriere della Sera" epurato nel primo dopoguerra), il quale già dai primi giorni della Liberazione aveva iniziato una serie di inchieste, per la verità alquanto ambigue e dalle finalità dubbie, ma che a poco a poco incrinavano il castelletto costruito attorno alla versione di Valerio", ebbe a far notare il giornalista storico Franco Bandini, all'epoca cronista del Lanfranchi:

Riferì Franco Bandini in merito ad uno strano ritiro del Lanfranchi da questa inchiesta: «dovevano esserci ragioni valide… egli all'inizio del 1946 era arrivato molto vicino alla verità (...) Se egli non si occupò più della fucilazione di Mussolini fu per altre e sottili ragioni (non per la mancanza di coraggio - N.d.R.), forse connesse alla sua amicizia con molti grossi nomi del gruppo azionista milanese, ed alla comune appartenenza ad una qualche ideologia, piuttosto segreta» (come non pensare alla Massoneria?! N.d.A.).

Ma Franco Bandini denunciò anche le prevaricazioni editoriali che impedivano di pubblicare inchieste serie ed approfondite: «Da quarantacinque anni a guardia dei misteri d'Italia stanno alcuni molossi di taglia diversa, ma tutti molto allenati nell'avvistare a grande distanza il più piccolo segnale di pericolo. Accanto ai molossi ci sono le centrali della disinformazione nostrana, assai abili a lanciare al momento giusto un certo numero di "lepri meccaniche" per far correre i media di bocca buona, ma anche parecchi storici paludati. E infine vi sono gli stessi media, quasi tutti troppo giovani per aver vissuto quel periodo, ed anche troppo indaffarati per prestarvi quell'attenzione che d'altra parte sarebbe necessaria, se se ne vuol scrivere. Per cui, nel migliore dei casi, essi preferiscono ignorare che vi sia in giro qualcosa di nuovo. Valga per tutti ciò che è successo a me personalmente, dopo che per otto anni ho raccolto documenti a chili, in cinque o sei nazioni diverse, per raccontare la storia della morte dei fratelli Rosselli».

E così di anno in anno, anzi di decennio in decennio, siamo arrivati ai giorni nostri dove certi Istituti Storici, finanziati anche con denaro pubblico, continuano ancora propinarci la oramai inattendibile "storica versione".

Parafrasando quanto disse a suo tempo Giacomo de Antonellis (che si riferiva però al silenzio sulle misteriose morti di Neri e Gianna) e applicandolo alle vicende che abbiamo affrontato, possiamo anche noi dire: «Il prolungato silenzio... si spiega con due circostanze concomitanti. La volontà dell'apparato comunista di allontanare la sia pur minima ombra all'intero capitolo delle Resistenza, confortata da una parallela indifferenza dell'apparato democristiano ad approfondire: per le sinistre il movimento partigiano doveva essere come la moglie di Cesare, al di sopra di ogni sospetto, per i cattolici bastava dimostrare il proprio significativo apporto al rinnovamento dello Stato. Ogni altro intervento avrebbe turbato la "pax partigiana", contratto non scritto, ma perfettamente osservato»!

Oggi, concludiamo noi, che la politica, l'ideologia e l'occupazione di potere (governo-opposizione) democristiana e comunista non ci sono più, la convenienza del silenzio si perpetua però nella continuità ideale e utilitaristica che funge da substrato storico per i nuovi padroni del vapore.

 

Maurizio Barozzi 

 

NOTE:

 

[1] Carlo Lizzani: "Il mio lungo viaggio nel secolo breve", Einaudi 2007. A questa rivelazione di Pertini, si potrebbe anche aggiungere, se si fosse certi della sua veridicità, la confidenza di Togliatti a Massimo Caprara, per la quale era stato Lampredi a uccidere il Duce (vedi "Storia Illustrata", Agosto-Settembre 1996). Due importanti rivelazioni che liquidano definitivamente la versione di Audisio, e palesano anche la mistificazione della sua "ruota di scorta" ovvero la "Relazione riservata al partito comunista" di Aldo Lampredi del 1972, con la quale l'autore ribadisce il ruolo di sparatore di Audisio. Sarebbe infatti assurdo che Lampredi possa aver mentito al suo stesso partito (al tempo erano vivi Luigi Longo, Dante Gorreri, Michele Moretti, ecc.) che ben doveva sapere come erano andati i fatti. Ergo quella Relazione era un altro espediente mistificatorio.

 

[2] Per i riferimenti riportati nelle note e riguardanti Walter Audisio, sorge il problema a quale delle Relazioni di Valerio-Audisio fare riferimento viste le molteplici variazioni e contraddizioni che presentano tra loro. Walter Audisio, conscio di queste discrasie ebbe furbescamente a dire che i primi due resoconti dell'Unità del 1945 non erano stati da lui firmati, ma li aveva compilati un redattore su sue indicazioni. Solo la versione del 1947 ed ovviamente il libro postumo dovrebbero pertanto considerarsi opera diretta di Audisio. Tuttavia non è possibile, per una critica storica, fare questo distinguo e pertanto nei riferimenti in nota, in genere e salvo indicazione contraria, ci si riferisce al complesso di tutte le sue relazioni, anche se incongruenti, con particolare riferimento alle due da lui firmate.

 

[3] Per le testimonianze di Carissimi-Priori, curate anche da Marino Viganò, si veda: "Nuova Storia Contemporanea", N. 1 Gennaio-Febbraio 2000, e soprattutto il N. 5 del 2004.

 

[4] Affermazione questa, recentemente ripetuta anche dal dottor Giuseppe Calzati, presidente dell'Istituto di Storica Contemporanea di Como "Pier Amato Perretta", nel corso della trasmissione "Trenta denari" di fine 2008 tenuta alla TV Espansione di Como dal giornalista Emanuele Caso.

 

[5] Alcuni rapporti della Guardia di Finanza possono al massimo portare alla conferma del dipanarsi degli avvenimenti poc'anzi accennati, ma non possono svelare la mistificazione insita in alcuni di essi, anche perchè non erano presenti finanzieri quel mattino del 28 aprile 1945 a Bonzanigo. Invece, per esempio, una relazione scritta da Antonio Scappin "Carlo", brigadiere della GdF che in quei giorni ebbe un certo ruolo nelle vicende di Dongo e fu a diretto contatto con tanti attori di quegli eventi, riferisce: «Verso sera un camion carico di cadaveri di giustiziati a Dongo, si ferma nei pressi, carica le spoglie irrigidite nella morte (di Mussolini e la Petacci al bivio di Azzano - N.d.R.) e riparte per Milano …» (vedasi: Marino Viganò, "Un istintivo gesto di riparo: nuovi documenti sull'esecuzione di Mussolini, 28 aprile 1945", su "Palomar", N. 2, 2001). Simili constatazioni ebbe a farle Mario Ferro, membro della federazione comunista di Como e al tempo a diretto contatto con Audisio e Lampredi, ed anche alcuni testimoni presenti al caricamento dei cadaveri. Anche questi particolari oltre, come vedremo più avanti, alcune foto dei cadaveri, creano il sospetto, sia pure alquanto relativo, data la complessità della cronotanatologia basata sul rigor mortis e il tipo di riscontri di natura certamente non medico legale, che Mussolini e la Petacci sono morti prima delle ore 16,10. (Vedere anche F. Bandini, "Le ultime 95 ore di Mussolini, Sugar 1959 e R. Salvadori, "Nemesi dal 23 al 28 aprile '45. Documenti e testimonianze sulle ultime ore di Mussolini", B. Gnocchi Editore, Milano, 1945).

 

[6] In questo senso vedesi anche il nostro articolo su "Storia del Novecento", Settembre 2008: M. Barozzi, "Morte Mussolini: I vani tentativi di provare la Storica Versione".

 

[7] F. Bandini: "Le ultime 95 ore di Mussolini", Sugar 1959 e "Vita e morte segreta di Mussolini", Mondadori 1978.

 

[8] Lo studio della letteratura sulla morte di Mussolini ci mostra, purtroppo, non soltanto la proposta di svariate ipotesi alternative alla versione di Audisio, spesso prive del benché minimo riscontro documentale, ma oltretutto il deprecabile caso che molti scrittori e giornalisti storici hanno ripreso e si sono tramandati una infinità di notizie, particolari e testimonianze, risultate palesemente false. Nell'allegro calderone delle tante fantasiose "ipotesi alternative", per esempio, merita il posto d'onore il famoso racconto "spy story" di Giovanni Lonati, il partigiano Giacomo, circa un suo presunto ruolo nella uccisione del Duce assieme ad un non meglio precisato ufficiale inglese, tale John (vedi G. Lonati, "Quel 28 aprile. Mussolini e Claretta la verità, Mursia 1994). Un fumettone questo assolutamente inattendibile (Si veda il nostro articolo: M. Barozzi, "La spy story di Giovanni Lonati e del capitano John", "Rinascita". 15 agosto 2008.

 

[9] G. Perretta, op. cit.; Cavalleri G. e Giamminola A., "Un giorno nella storia, 28 Aprile 1945", Edizioni Nodo 1990; P. L. Bellini delle Stelle e U. Lazzaro, "Dongo. La fine di Mussolini", Mondadori, 1962; U. Lazzaro, "Dongo mezzo secolo di menzogne", Mondadori 1993; F. Bandini, "Le ultime 95 ore di Mussolini", op. cit.; A. Bertotto, "La notte di Moltrasio", "Nuova Storia Contemporanea", Gennaio-Febbraio 2009.

 

[10] N. F. Giannantoni. "Gianna e Neri. Vita e morte di due partigiani comunisti", Mursia, 1992.

 

[11] A. Bertotto, op. cit. e A. Zanella, "L'ora di Dongo", Rusconi 1993.

 

[12] G. Perretta, op. cit. e G. Cavalleri, "Ombre sul Lago", Piemme 1995;

 

[13] U. Lazzaro, op. cit.

 

[14] Non è affatto certo che ci fu questo viaggio fino a Moltrasio. Per esempio lasciò scritto il generale Sardagna in un suo Diario, conosciuto dopo la sua morte: «28 aprile. Il piano è miseramente fallito (il suo piano per portare Mussolini a Villa Cademartori - N.d.R.). Per quel che ne so A. (Alonso Caronti - N.d.R.) riferisce che a Moltrasio non si è fatto vivo nessuno. Non capisco cosa possa essere successo, anzi ho mille dubbi e paure» (Appunti di G. Sardagna, in manoscritto dall'originale, consegnato dal figlio Emanuele a Marino Viganò e quindi consultati e riportati da G. Cavalleri, F. Giannantoni, M. J. Cereghino, "La Fine - Gli ultimi giorni di Benito Mussolini nei documenti dei servizi segreti americani (1945 1946)", Garzanti 2009).

 

[15] W. Audisio, "In nome del popolo italiano", Ed. Teti, 1975; F. Bandini, "Le ultime 95 ore di Mussolini", Sugar 1959. Il trasferimento notturno di Mussolini e la Petacci in luogo segreto e lontano da Dongo non poteva essere frutto della iniziativa dei comandanti locali della 52ª Brigata Garibaldi (Pier Bellini delle Stelle Pedro, Luigi Canali capitano Neri, Michele Moretti Pietro), ma doveva sicuramente scaturire da un ordine superiore giunto da Milano, come confidò il Bellini al neo sindaco di Dongo Giuseppe Rubini (vedi: A. Zanella, "L'ora di Dongo", Rusconi 1993).

 

[16] Relazione Aldo Lampredi 1972, su "l'Unità" 26 gennaio 1996: G. Perretta, "Dongo 28 aprile 1945. La verità", Ed. Actac 1990.

 

[17] W. Audisio, op. cit. e Marino Viganò, "Un istintivo gesto di riparo: nuovi documenti sull'esecuzione di Mussolini (28 aprile 1945)", "Palomar", N. 2, 2001.

 

[18] W. Audisio, op. cit. e C. Falaschi, "Gli ultimi giorni del fascismo", Editori Riuniti 1973.

 

[19] C. Falaschi, op. cit.

 

[20] Relazione Aldo Lampredi 1972: op. cit. e G. Perretta: op. cit.

Come noto, reduci da casa De Maria a Bonzanigo, mentre Pedro Pier Bellini delle Stelle se ne torna a Dongo e non si sa neppure bene cosa si mise fare, ma a quanto sembra si "dimenticò" di Mussolini (Vedi: P. L. Bellini delle Stelle - U. Lazzaro, "Dongo. La fine di Mussolini", Mondadori, 1962; e U. Lazzaro, "Dongo, mezzo secolo di menzogne", Mondadori 1993), Moretti e Canali, invece, andarono a Como alla Federazione Comunista che stava in quel momento trasferendosi da via Natta a Palazzo Terragni. Qui notificarono gli ultimi avvenimenti svoltesi fino all'alba e, incredibile a dirsi, si vuol far credere che furono poi lasciati andar via, proprio loro che conoscono il luogo dove è nascosto Mussolini e possono accedervi perché noti ai partigiani lasciati di guardia.

 

[21] Nonostante queste informazioni di importanza capitale, portate a Como da Moretti e Canali (e a conoscenza anche del Pier Bellini delle Stelle e degli autisti del trasbordo notturno tali Edoardo Leoni e Dante Mastalli), Moretti e Canali vengono fatti andar via per conto loro («senza disposizioni», dirà Moretti) e gli si direbbe anche che si dovrà sentire il partito a Milano per eventuali ordini.

Giovanni Aglietto per giustificare questa assurdità, ne aggiunge un altra, laddove disse che «decidemmo di aspettare qualche ora prima di prendere una decisione perché volevamo sapere il parere di Milano». Ma addirittura, fino a tutta la permanenza di Lampredi in Federazione, ancora non avevano disposizioni! Confrontare gli stessi testi comunisti o resistenziali in C. Falaschi, op. cit. e G. Perretta, op. cit.

 

[22] Relazione Aldo Lampredi 1972: op. cit.

 

[23] Relazione Aldo Lampredi 1972: op. cit.

 

[24] W. Audisio, op. cit., Relazione Lampredi 1972, op. cit. e G. Pisanò, "Gli ultimi 5 secondi di Mussolini", Il Saggiatore 1996.

 

[25] Lo storico Renzo De Felice ebbe giustamente a notare che non era credibile che il Lampredi a suo tempo non avesse relazionato il suo partito e poi ne avesse sentito il bisogno di farlo dopo ben 27 anni!

 

[26] «Il CLNAI non ricevette mai da Longo una relazione su come si erano svolti quegli eventi» disse candidamente Leo Valiani uno degli esponenti del Comitato Insurrezionale antifascista. E ancor più candidamente Ferruccio Parri vice comandante del CVL e importante membro del CLNAI, disse che non sapeva spiegarsi del perché e per come era stata fucilata anche Claretta Petacci.

 

[27] W. Audisio, op. cit.; Testimonianza Geninazza in F. Bandini, op. cit.; "Libero" del 25 aprile 2009; U. Lazzaro, op. cit.

 

[28] W. Audisio, op. cit.; Testimonianza Geninazza in F. Bandini: op. cit.; "Libero" del 25 aprile 2009; U. Lazzaro, op. cit.

 

[29] Recentemente sono state rinvenute e aperte delle casse che conservavano vari oggetti, vestiario e materiali facenti parte delle vicissitudini di Dono e/o rimasto in casa dei contadini De Maria. Ma della caratteristica giacca di Mussolini e del suo berretto a bustina non c'è assolutamente traccia.

 

[30] W. Audisio, op. cit.

 

[31] Gli stivali di Mussolini, a causa delle ferite da questi riportate nella guerra '15 /'18, per comodità avevano una chiusura tramite saracinesca (chiusura lampo). Come fu notato la sera del 28 aprile 1945, durante il caricamento dei cadaveri sul camion al bivio di Azzano e poi la mattina successiva durante l'esposizione dei cadaveri a Piazzale Loreto, lo stivale destro, quello più difficile a calzarsi specialmente su un piede di un cadavere con esiti di vecchie ferite e in preda ad una rigidità catalittica, era letteralmente aperto e rovesciato su se stesso. Ed infatti un controllo effettuato su questi stivali, rimasti conservati nella teca del cimitero di San Cassiano, ha permesso di stabilire che la cerniera di chiusura era saltata quasi alla base ovvero poco sopra il tallone.

 

[32] Vedi: F. Bandini, op. cit.; F. Bandini, "Vita e morte segreta di Mussolini", Mondadori 1978; Valerian Lada-Mocarski, "The last three days of Mussolini", Atlantic Monthly, Boston dicembre 1945; Storicus, "Le ultime giornate di Mussolini e Claretta Petacci", Ed. dell'Unione, s. data; Rapporto Angela Bianchi al CLN di Como (Maggio 1945): in "Corriere della Sera", 22 settembre 1995: Testimonianza Palma Monti in Marino Viganò, op. cit.

 

[33] Vedi: A. Zanella, "L'ora di Dongo", Rusconi 1993; U. Lazzaro, op. cit.; G. Perretta, op. cit.; G. Cavalleri e A. Giamminola, "Un giorno nella storia 28 Aprile 1945", Edizioni Nodo 1990;

 

[34] U. Lazzaro, op. cit.

 

[35] C. Falaschi, op. cit.; G. Perretta, op. cit.

 

[36] Testimonianze di G. Geninazza in F. Bandini, "Le ultime 95 ore di Mussolini", op. cit. e "Libero", 25 aprile 2009.

 

[37] W. Audisio, op. cit.

 

[38] Testimonianze Geninazza in F. Bandini, op. cit. e "Libero", 25 aprile 2009.

 

[39] W. Audisio, op. cit.; Relazione Lampredi 1972, op. cit.; G. Perretta, op. cit.

 

[40] La scansione delle ferite visibili sul petto del cadavere della Petacci indicano, per alcune di esse, che la stessa venne attinta da colpi alla schiena e la pelliccia della donna, oltretutto risulta forata alla schiena in corrispondenza con i precedenti colpi così rilevati, come dimostra la foto scattata i primi di maggio del 1945 da Giovenanza Amedeo di Gravedona, su incarico del partigiano Luigi Conti di Dongo (Vedi anche: G. Pisanò, "Gli ultimi 5 secondi di Mussolini", op. cit.).

 

[41] Testimonianze Luigi Carissimi-Priori, op. cit.

 

[42] Nel suo "Contromemoriale" pubblicato su "il Meridiano Illustrato" del dopoguerra e ristampato dalle edizioni CEN Roma 1974, Bruno Spampanato mise in ridicolo tutte queste assurde fasi raccontate contraddittoriamente a più riprese dal cosiddetto colonnello Valerio. Ecco un estratto: «La prima volta (prima versione) tutto procede regolarmente ed il colonnello, a tre passi, con i suoi bravi 5 colpi liquida il bersaglio. La seconda volta una vera sequenza da western: il colonnello vuole sparare, non spara, lascia il mitra, prende la pistola, lascia la pistola, prende il MAS, tira 5 colpi e poi 4 colpi e poi un ultimo colpo che sarebbe il decimo e lui dice che è il sesto; e chi gli ha portato il MAS che funziona è il vicecommissario, che poi è il commissario e si chiama Bill e invece si chiama Pietro Gatti, cioè Moretti; e quel Guido, il più importante di tutti, che resta "freddo… impassibile…" e che sta a raccattare le armi che non vanno come il ragazzo che regge le mazze da golf… La terza volta, Valerio ha chiamato che gli si portasse il MAS "a voce alta": troppo poco a 100 metri di distanza; nel secondo racconto aveva chiamato a "gran voce"!».

 

[43] F. Andriola, "Mussolini: una morte da riscrivere", Storia in Rete maggio 2006.

 

[44] A. Bertotto, "La morte di Mussolini: una storia da riscrivere", Paoletti, D'Isidori, Capponi 2008; Aldo Alessiani, "Il teorema del verbale 7241", visibile telematicamente in http://www.larchivio.org/xoom/alessiani.htm.

La perizia del dottor A. Alessiani, laddove sulla base di una dinamica balistica intuibile dalla conformazione, inclinazione e distanzialità delle ferite premortali sul cadavere del Duce, indicava una uccisione di Mussolini durante una fase di lotta nella stanza, contro un aggressore armato di pistola al quale poi si aggiunse un altro armato di mitra, è una ipotesi forse alquanto forzata, ma da non scartare completamente, laddove è verosimile che ci sia stata una colluttazione, conclusasi con il fermento del Duce al fianco e forse al braccio. Poco dopo il Duce venne finito nel cortile dello stabile dei De Maria.

 

[45] Vedi: A. Alessiani, op. cit.; G. Pisanò, "Gli ultimi 5 secondi di Mussolini", op. cit.;

F. Andriola, op. cit.

 

[46] W. Audisio, op. cit.

 

[47] Relazione Lampredi, op. cit.

 

[48] G. Cavalleri, "Ombre sul lago", Edizioni Piemme 1995.

 

[49] W. Audisio, op. cit.; A. Alessiani, op. cit.

 

[50] A. Zanella, op. cit.; F. Andriola, op. cit.; G. Pisanò, op. cit.; A. Alessiani, op. cit.

 

[51] A. Flessioni, op. cit.; G. Pisanò, op. cit.

 

[52] G. Pisanò, op. cit.; F. Andriola, op. cit.

 

[53] F. Andriola, op. cit.

 

[54] M. C. Cattabeni, "Rendiconto di una necroscopia d'eccezione", "Clinica Nuova" 1/4 - 5, estr. luglio - agosto 1945.

 

[55] F, Bandini, "Vita e morte segreta di Mussolini", Mondadori 1978.

Recentemente l'anziano parroco di Mezzegra don Luigi Barindelli, ha ricordato alla TV Espansione di Como e poi confermato al ricercatore A. Bertotto, che già il 29 aprile '45 il fotografo Ugo Vincitori di Azzano, nel fotografare tutti i luoghi degli "storici" eventi compreso il famoso muretto di cinta della Villa. (guarda caso a Vincitori non fu consentito, per almeno 4 giorni, di riprendere la stanza dove erano stati alloggiati Mussolini e la Petacci!). I fori dei proiettili sul muretto, visibili in foto, furono contrassegnati dal Vincifori in modo da poterne poi stampare delle cartoline.

 

[56] Verbale autoptico N. 7241, 30 aprile 1945 prof. Mario Caio Cattabeni, Istituto di Medicina Legale e delle Assicurazioni dell'Università di Milano. Il testo integrale è riportato in varie pubblicazioni. Per esempio G. Pisanò, "Gli ultimi 5 secondi di Mussolini", op. cit. ed è anche visibile telematicamente nel sito: http://www.larchivio.com/storia.htm.

 

[57] Lada-Mocarski, op. cit.; M. Nozza, "Testimonianza Lia De Maria", "il Giorno", 2 febbraio 1973; C. Cetti, "Come fu arrestato e soppresso Mussolini", Ed. Il Ginepro, Como 1945; A. Zanella, op. cit.

 

[58] "Testimonianze coniugi Carpani" in F. Bandini, op. cit. e "Testimonianza signora G. Mantz in Carpani" in G. Perretta, op. cit.

 

[59] F. Bandini, op. cit.; F. Bandini, "Fu fucilato due volte", "Storia Illustrata", Mondatori, Febbraio 1973; A. Zanella, op. cit.: R. Salvadori, "Nemesi", op. cit.

 

[60] A. Alessiani, op. cit.; A. Bertotto, "La morte di Mussolini una storia da riscrivere", op. cit.

 

[61] A. Alessiani, op. cit.

 

[62] A. Viviani, "Osservazioni sul mistero della morte di Mussolini e Claretta Petacci", visibile nel sito: http://www.larchivio.org/xoom/ambrogioviviani.htm.

 

[63] "Testimonianza M. Moretti", in G. Cavalleri, op. cit.

 

[64] Vedi anche: Vacca G. – S. Sinani: "Vi regalo il mitra che ha sparato al Duce", in "Corriere della Sera", 31 luglio 2004; (per Murialdi) La Repubblica.it 31 luglio 2004, visibile telematicamente in: http://www.repubblica.it/2004/h/sezioni/cronaca/mussfuc/mussfuc/mussfuc.html.

 

[65] F. Bandini, op. cit.

 

[66] "Testimonianza O. Landini" in F. Bernini, "Così uccidemmo il Duce", Edizioni C.D.L. 1998; U. Lazzaro, op. cit.; F. Bandini, op. cit.

 

[67] F. Bandini. op. cit.; F. Nozza, art. cit.; A. Zanella, op. cit.; Lada-Mocarski, op. cit.; "Testimonianza del figlio dei De Maria Giovanni (detto Bardassa)" su "Gente", 2 luglio 1993.

 

[68] G. Pisanò, op. cit.;

 

[69] G. Pisanò, op. cit.; F. Bandini, op. cit.

 

[70] F. Bandini, op. cit.

 

[71] M. Barozzi; "I vani tentativi di provare la Storica Versione", "Storia del Novecento", Settembre 2008

 

[72] F. Bandini, "Vita e morte segreta di Mussolini", op. cit.; U. Lazzaro, "Dongo mezzo secolo di menzogne", op. cit.

 

[73] Marino Viganò, "Un istintivo gesto di riparo (Nuovi documenti sull'esecuzione di Mussolini 28 aprile 1945)", "Palomar" N. 2, 2001

 

[74] In realtà il Garibaldi aveva scritto: «Ora sappiamo esattamente chi è l'uomo che si prese la responsabilità di dichiarare la morte del Duce e della sua amante e di fissarla a quelle 16,20 del 28 aprile, alle quali da decenni, oramai, non crede più nessuno. Era un medico? No. Un passante? Non si sa. Che cosa vide? Non lo dice. Vide il colonnello Valerio aprire il fuoco sui due condannati? O vide alcuni individui vestiti da partigiani tirare su due cadaveri? Mistero. Bugie. Falsità. Documenti redatti da chi vuol farsi prendere in giro: e cioè gli italiani, il popolo italiano» (L. Garibaldi, "La pista inglese", Edizioni Ares 2002)

 

[75] F. Bernini, "Sul selciato di Piazzale Loreto", MA.RO. Ed. 2000; L. Garibaldi, op. cit.

 

[76] A. Bertotto, "Il certificato di morte di Mussolini", "Rinascita", 21 maggio 2009.

 

[77] Intervista ad Albertina Viviani, figlia di Dorina, pubblicata su "Ciao Como", 26 novembre 2008 ed espressa anche alla Tv Espansione di Como, durante la trasmissione "Trenta Denari" di Emanuele Caso.

 

[78] G. Bordin: "La morte del duce e le tante invenzioni: una cattiva abitudine dura a morire!", (reperibile telematicamente: http://www.ilduce.net/giannettobordin.htm).

 

[79] A. Marino (in risposta ad una lettera di un lettore) su "La Provincia di Como", 16 ottobre 2008.

 

[80] G. Pisanò, "Gli ultimi 5 secondi di Mussolini", op. cit.

 

[81] "Epoca", numero del 10 marzo 1996.

 

[82] M. Caparra, "Quando le Botteghe erano oscure", Il Saggiatore 1997. Storia Illustrata, Agosto-Settembre 1996.

 

[83] Settimanale "Gente", 8 maggio 1999.

 

[84] A. Bertotto, "La morte di Mussolini una storia da riscrivere", op. cit. e A. Bertotto, su "Rinascita", 14 ottobre 2007.

 

[85] A. Fontana, "Intervista al dott. Cova Villoresi", "Italia Tricolore per la Terza Repubblica", N.ri vari 2005. Da notare che il Cova, al momento dell'intervista, non era al corrente delle inchieste di Giorgio Pisanò.

 

[86] Storicus, "Le ultime giornate di Mussolini e Claretta Petacci", Ed. dell'Unione, s. data; "Rapporto Angela Bianchi al CLN di Como (Maggio 1945)", in "Corriere della Sera", 22 settembre 1995

 

[87] F. Serra, "Sparò la pistola di Guido", "Settimana Incom Illustrata, Aprile-Maggio, 1962

 

[88] Vedesi articoli di F. Lanfranchi su "il Corriere d'Informazione", Maggio-Novembre 1945 e "l'Unità", novembre-dicembre 1945

 

[89] G. Cavalleri, F. Giannantoni, M. Cereghino, op. cit.

 

[90] M. Nozza, "Testimonianza Lia De Maria, op. cit.; A. Zanella, op. cit.; "Testimonianza del figlio dei De Maria Giovanni (detto Bardassa)", su "Gente", 2 luglio 1993

 

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