Italia - Repubblica - Socializzazione

 

Foglio di orientamento n° 2/1996

 

I Giovani della RSI

Recentemente, le cronache hanno reso noto che il presidente della Camera dei deputati, formulando un tardivo quanto maldestro riconoscimento delle «ragioni» dei giovani della RSI, ha erroneamente sostenuto che questi avrebbero combattuto «contro il diritto e la libertà». Puro e semplice vaniloquio: i Combattenti della RSI esercitarono pienamente e fieramente il diritto-dovere di combattere -al comando di Italiani, sotto le Insegne di uno Stato italiano governato da Italiani- per la liberazione del territorio italiano dal nemico invasore. Come in ogni guerra, essi posero in atto «azioni di forza per costringere il nemico a compiere il loro volere».

Che siano stati sconfitti, è cosa nota. Ed è noto altresì che, come ha sostenuto l'antifascista De Noce: «Nel fascismo il vero c'era anche; e il dopoguerra lo ha dimostrato: demoplutocrazia, comunismo, massoneria, in questo giustissimo ...». Ma, in quanto continuazione diretta della «guerra del sangue contro l'oro», la guerra dei Giovani della RSI costituisce soltanto uno sfortunato episodio di una lotta che si sta svolgendo, con altri metodi e sotto altre insegne, in tutti i continenti; il che li pone come ideale avanguardia -per usare termini estranei alla loro Tradizione- dell'ultra-sinistra nazionale e mondiale.

Un fatto è certo: quelli che furono e che sono i nostri nemici vengono contestati e combattuti in ogni parte del mondo. Del resto come collocare il fascismo, senza tradirlo, nello scenario mondiale presente e futuro, se non come punta di diamante nella lotta per la equa ripartizione dei beni del Pianeta, di contro all'oppressione dei monopoli dell'oro, del petrolio, dell'acciaio, dell'energia nucleare, ecc.?

In questa prospettiva, la nostra temporanea sconfitta può assumere il sapore non della buia rivincita, bensì quello della vittoria solare dell'«uomo nuovo», capace di vivere «non per sé, ma per gli altri, presenti e futuri ...» il quale, nella tensione etica verso la patria, trova il fondamento al proprio elevarsi a cittadino del mondo.

Ora, che questo signore non si avveda di quanto poco fondate siano le proprie analisi storiche, è affar suo. Allo stato delle cose, possiamo soltanto condividere il parere di chi afferma che «nonostante tutto... qualcosa si muove». Quindi, restiamo fermi nella convinzione che nessuna libertà e nessun dignitoso avvenire può esservi per il popolo italiano che non passi per la «liberazione dall'antifascismo» e per l'affrancamento della Nazione da alleanze e tutele che ne impediscono il naturale progredire.

Però intendiamoci: Luciano Violante non è personaggio di poco conto e chi gli rimprovera le recenti «sovraesposizioni», non lo conosce abbastanza. Noi lo sappiamo molto attivo sin da quando militava nelle organizzazioni giovanili comuniste, poi come magistrato, come dirigente l'apparato militare del PCI (incarico che fu di Secchia), come presidente della Commissione anti-mafia, ecc. Egli pure ci conosce per aver esercitato una dura attività inquisitoria a carico del responsabile romano della FNCRSI, erroneamente accomunandolo agli strampalati maneggi di tale E. Sogno. E ci conosce anche suo fratello (o cugino?) per aver egli più volte attaccato, nella veste di direttore del periodico "Lotta Continua" e con evidenti scopi delatori, i responsabili della FNCRSI, erroneamente attribuendo loro impossibili intenzioni golpistiche.

Che taluno, quale che sia la propria collocazione istituzionale, si dimostri contrario all'«uso politico della storia» e che sostenga che «l'unico modo per conquistare la piena autonomia rispetto al passato è raccontare tutto il passato con pienezza di verità», vuol dire semplicemente che si va facendo strada una nostra convinzione di sempre.

In mancanza di fatti concreti, rileviamo che l'«illustre interlocutore», contestato anche in casa propria, ha attratto l'attenzione soltanto di qualche acefalo missista.

Salvo che non si voglia far passare per fatto positivo quello di essersi reso «punto di riferimento istituzionale» del nefasto Pintaguta, padre dei «retini» e di innumerevoli collusioni con indipendentisti, separatisti, leghisti, ecc., nonché co-genitore (con il confratello Sorge) di inusitati trasversalismi e del rinnegamento esplicito della decisione conciliare che, in ordine alla vita della Chiesa, ha chiarito «la natura essenzialmente religiosa della sua missione e distinto con lucidità il piano della fede da quello della politica». Su quale piano deve muoversi dunque il sacerdote del Cristo di Dio, se non su un piano essenzialmente religioso?

A tale riguardo, due esemplari riflessioni ci vengono dalla Sicilia:

a) quella di Luigi Sturzo, che sostenne: «È superfluo dire perché non ci siamo chiamati partito cattolico: i due termini sono antitetici; il Cattolicesimo è religione, è universalità; il partito è politica, è divisione»;

b) quella di Leonardo Sciascia, che affermò: «L'Italia è un Paese senza verità: bisogna rifondare la verità se si vuole rifondare lo Stato».

Rinnegamenti a parte, è bene tuttavia che la religione resti quel che deve essere, ordo hominis ad Deum.

 

L'antifascismo di sempre

L'antifascismo italiano -più che mai in auge- si distingue per la sua eccezionale contraddittorietà, sia che venga còlto nella sua natura spuria e disorganica, sia che venga còlto nelle sue molteplici componenti le quali, per conseguire un minimo di coesione, perdono ciascuna la propria identità originaria nel sub-umano gioco delle mediazioni e dei compromessi. Donde esso è destinato a vivere di perenne precarietà.

Una sostanziale e congenita carenza non gli ha consentito di sottoporre a serrate analisi la propria antitesi, il fascismo, e di corroderlo dal suo interno, nei suoi contenuti, nella sua stessa anima ed, infine, di trascenderlo nei termini valoriali di una nuova sintesi culturale, civile e politica. Ciò non è avvenuto né potrà mai accadere perché l'antifascismo è storicamente legato alla contingenza di una restaurazione e il fascismo è una rivoluzione solo appena accennata nelle intuizioni mussoliniane, ancora tutta da svolgere.

È vano dunque tentare di reperire una qualsivoglia logica nel più illogico dei sistemi politici, il quale ingloba in sé, i comunisti che si proclamano democratici ma aspirano alla «dittatura del proletariato», che ha inglobato un De Lorenzo, Capo di Stato maggiore delle FF.AA. e, in quanto tale, guardia armata della repubblica nata dalla resistenza, che disinvoltamente passa al partito monarchico, le BR e il terrorismo nero che giocavano a fare la rivoluzione col permesso del maresciallo dei Carabinieri (della CIA) e un Almirante che chiedeva la doppia (sic!) fucilazione degli uni e degli altri, nonché un Formica che propose di incorporare i contrabbandieri nei ruoli dei funzionari statali, ecc. Il più logico e, paradossalmente, il più onesto sembra essere B. Craxi, il quale a mo' di difesa affermò: «non ci sono più ideali... facciamo semplicemente i nostri interessi e le conseguenze sono evidenti».

Per le conquiste civili e politiche realizzate dall'antifascismo internazionale, ascoltiamo un parere che dovrebbe essere super partes: «La guerra, che avrebbe dovuto restituire la libertà e restaurare il diritto delle genti, si concluse senza aver conseguito questi fini, anzi in un modo che per molti popoli, specialmente per quelli che più avevano sofferto, apparentemente li contraddice» (K. Wojtyla, CA 19).

 

Le sinistre e il sogno americano

La nostra più alta aspirazione è quella di concorrere alla ricucitura degli «strappi» che per un secolo hanno lacerato il mondo del lavoro, trascinando proletari contro altri proletari a scannarsi sui campi di battaglia. Aspirazione sempre frustrata dalla incapacità di quel mondo di individuare con lucidità il vero nemico nel brutale egoismo pluto-massonico, salvato in extremis da Stalin.

Socializzazione scrivemmo sulla nostra Bandiera, che vuol dire dignità e giustizia per tutti.

Appare risibile pertanto il tentativo veltroniano diretto ad attingere negli USA alcunché di valido per l'avvenire dei lavoratori italiani. L'America è la più inquinata delle fonti: violenta, corrotta, percorsa da spaccature razziali e religiose e da ancestrali pulsioni sotterranee; appena in grado di articolare arroganti difese al proprio inarrestabile declino. Anche il suo benessere materiale, che trovò il suo primo turpe fondamento sulla schiavizzazione di milioni di negri e sullo sterminio di altrettanti indiani aborigeni, risulta essere fortemente ridimensionato. L'enorme apparato industriale e militare nulla possono di contro all'immagine plastica del suo popolo che ne dà N. Gingrich, capo dell'opposizione repubblicana: «La sopravvivenza della civiltà è in gioco quando i ragazzi fanno dei figli a dodici anni, si ammazzano l'un l'altro a quindici, muoiono di AIDS a diciassette e a diciotto ricevono un diploma che non sanno leggere».

I suoi colpi di coda saranno certamente catastrofici, ma la sua fine ignominiosa è segnata.

Quando si comprenderà che il sogno americano e una pericolosa patologia, un'allucinazione malefica e che la strada di Washington è uguale, se non peggiore, di quella di Mosca? Gli italiani che lavorano e che aspirano alla reale partecipazione a tutte le decisioni che li riguardano, prima di avventurarsi per le vie del mondo, debbono emanciparsi in casa dai demagoghi che li ingannano e ritrovare la concordia per combattere uniti il capitalismo che li sfrutta e che è dappertutto uguale.

Se davvero vogliono assurgere a protagonisti del loro avvenire e di quello della patria comune, debbono riacquisire la fiducia in sé stessi e nella loro autonomia di giudizio. In tal modo potranno riscoprire le ragioni che determinarono gli «strappi» ed individuare le radici del fascismo nella sintesi del sociale con il nazionale. Diverranno almeno antifascisti coscienti di quel che fanno, poiché oggi, dopo mezzo secolo di perversi condizionamenti, non sono altro che seguaci di un «libero antifascismo obbligatorio», prodotto da coloro i quali, sapendosi scavalcati a sinistra dal fascismo, hanno affermato doversi tenere i fascisti nella permanente condizione di «stranieri di lingua italiana» (Nenni) e che, in fondo, ammazzare un fascista non è reato.

Con un ulteriore sforzo di approfondimento, si renderanno altresì conto che, sotto l'aspetto filosofico, politico e sociale, le loro più genuine aspirazioni si muovono nello stesso orizzonte ideale del fascismo repubblicano, che seppe produrre al proprio interno una radicale e drammatica autocritica rispetto ai passati compromessi con la borghesia, la monarchia, il nazionalismo e la Chiesa.

Solo allora i rapporti umani a tutti i livelli, da rapporti di dipendenza si trasformeranno in rapporti di partecipazione.

È inutile illudersi. Non vi sono altre vie.

 

Secessione ultimo atto

Nello sviluppo storico dei popoli anche la più disastrosa delle sconfitte può essere assunta come prodotto dello spirito. Ma, in primo luogo, la sconfitta non deve essere mai propiziata dal nemico e in secondo luogo, lo spirito, in quanto motore della storia, deve essere sorretto e corroborato da una intensa e costante eticità, dal coraggio civile, dalla coerente fermezza nel volere e dall'intelligenza nel credere in finalità superiori che siano convissute a livello di autentica partecipazione popolare.

Ove però, sopita ogni tensione etica, si assuma a metro di valore la sola economicità e, a norma di vita, la banale accidentalità propria al determinismo meccanicistico, la secessione finisce per porsi come mero evento naturalistico del tutto privo di dignità etica e morale, in guisa cioè di soggettiva presa d'atto dell'inesistenza oggettiva di alcunché che possa definirsi «patria», la quale esiste solo nella misura in cui la si sappia rinnovare ogni giorno nel cuore.

L'otto settembre '43 produsse la dissoluzione delle FF.AA. e una profonda crisi dello Stato, ma non segnò, come è stato affermato, «la morte della patria». Immediatamente dopo, un milione d'Italiani (fascisti, a-fascisti e anti-fascisti) si ritrovarono in armi nella Repubblica Sociale Italiana e combatterono senza altra prospettiva che quella della difesa dell'Onore d'Italia.

Anche i partigiani rischiarono la vita (e il modo ancor m'offende), rivendicando il vincolo di appartenenza all'Italia. L'amor patrio, infatti, emerge rigoglioso dalle lettere dei condannati a morte delle due fazioni, poiché esse -come è stato acutamente osservato- «si assomigliano tanto da essere impossibile distinguerne, se la si ignora, la fazione di appartenenza».

Finita la guerra e messo in piedi un vacillante simulacro di democrazia, fu subito perpetrato un ulteriore tradimento ai danni della Nazione, allorché -complici le sinistre che, fedeli ai Patti di Yalta, non potevano che aspirare al solo monopolio dell'opposizione- lo Stato italiano fu messo nelle mani di quello Vaticano, tradizionalmente nemico dell'unità d'Italia e da sempre seminatore di fermenti disgregativi.

Ciò nonostante, un significativo ridestarsi di orgoglio nazionale sorse spontaneamente nei primi anni '50 in ordine all'italianità di Trieste e dell'Istria; controversia condotta in maniera ignobile da una classe dirigente autoproclamatasi cristiana allo scopo di irridere al Vangelo della fermezza di fronte al male, oltre che dell'amore e della redenzione.

Qualche decennio più tardi, l'assurdo Trattato di Osimo passò quasi inosservato.

Nessuno ha avuto l'audacia di decretare «la morte della patria»; non c'è dubbio tuttavia che quella stessa classe dirigente ha posto le premesse etico-politiche della disunione della Nazione. La condanna di tale classe politica non può che essere totale e inappellabile. Dal punto di vista morale e politico, non c'è nulla che possa giustificare, né attenuanti che si possano invocare a fronte dell'inaudito misfatto compiuto da non irrilevanti gruppi di irresponsabili (tra i quali un ex-Ministro dell'Interno ed altre alte cariche istituzionali) nel manifestare al cospetto del mondo una inequivocabile volontà di secessione.

Nè è lecito parlare di «tragico errore», bensì della logica conseguenza delle azioni scientemente compiute da un contesto politico coagulatosi attraverso l'integrazione di un «Cristianesimo senza carità» e un comunismo senza Dio e senza patria.

I revirements dell'ultima ora non convincono nessuno.

La morte della patria, i separatismi, le secessioni, erano categorie sconosciute alla due parti in lotta: esaleranno più tardi dai miasmi generati dalla consociazione catto-bolscevica.

La guerra civile, dolorosamente subita dalla RSI, fu provocata e gestita dagli anglo-americani, per tramite della consorteria badogliesca e dall'URSS, per tramite del Pci. In essa si scorgono già i Patti di Yalta e quel che sarà l'Italia nei cinquant'anni successivi: divisione e contrapposizione degli Italiani in fautori della Nato, da una parte, e del Patto di Varsavia, dall'altra. Sciaguratamente, fra i primi si segnalarono non pochi ex-fascisti.

Coinvolti loro malgrado nell'esecrata guerra civile, i combattenti della RSI, che lottarono avendo all'orizzonte l'umiliazione della sconfitta e la prefigurazione di un futuro fosco che spesso sconfinava nel tormento dell'espunzione dalla vita civile e nella lacerazione del decoro e della stessa personale presentabilità, erano tuttavia rasserenati dalla consapevolezza che, fra loro e i migliori loro avversari, fosse sottesa una sorta di concordia discors fondata sulla comune disistima per il «vigliacco che non ha bandiera» e sulla mutua devozione alla patria comune. L'Italia, in sostanza sembrava dover essere affidata nelle mani di uomini di coraggio, scevri dalla sola meschina logica di vendetta.

Che tale speranza sia stata delusa sta a dimostrare che assai spesso gli idealisti fanno la storia e gli opportunisti ne fanno mercato.

Quel che importa oggi è che la minaccia di secessione possa davvero costituire l'ultimo atto di un regime indegno di un popolo civile e che sia sempre vivo nell'animo degli Italiani veri il possente monito di Mazzini: «Senza la patria voi non avete nome, né segno, né diritti, né battesimo di fratelli tra i popoli. Siete i bastardi dell'umanità».

 

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