Italia - Repubblica - Socializzazione

.

Walter Audisio e la scelta dei "fucilandi" a Dongo

Maurizio Barozzi 
 
da "Rinascita",
9 maggio 2009

 

Una vera e propria esecuzione sommaria, mai relazionata agli organi dello Stato e preceduta da una scelta dei condannabili a morte, a dir poco, bestiale e cervellotica


Se per alcuni, le vicende relative agli orari ed alle esatte modalità che portarono alla uccisione di Mussolini e di Claretta Petacci, sono ancora materia di discussione, anche se pare oramai esserci pochi dubbi circa una uccisione avvenuta al mattino, per l'assegnazione, in questa "impresa", del ruolo di fucilatore sembra sempre più venirne escluso Walter Audisio il sedicente colonnello Valerio, un mediocre personaggio della resistenza a cui, per motivi politici e di rappresentanza di tutte le componenti del CLN, vennero caricati gli oneri e gli "onori" della "giustizia ciellenista".
Recentemente proprio il regista Carlo Lizzani, colui che nel 1974 contribuì notevolmente alla propagazione della "storica versione", grazie al film "Mussolini ultimo atto", ha fornito una preziosa testimonianza che costituisce forse un colpo definitivo contro la stessa "vulgata". In un passaggio del suo libro di memorie "Il mio lungo viaggio nel secolo breve", Einaudi 2007, Lizzani ricorda di aver ricevuto una lettera dall'allora presidente della camera Sandro Pertini, che gliela scrisse subito dopo aver visto il film per lamentarsi dell'attore che lo interpretava, e tra l'altro così si espresse il Pertini: «...e poi non fu Audisio a eseguire la "sentenza", ma questo non si deve dire oggi».
Del resto era noto che lo stesso Walter Audisio già nel 1959 aveva confidato al giornalista storico Silvio Bertoldi:
«Se mi venisse voglia lo farei io, un giorno, un grande colpo giornalistico, di quelli sensazionali. Basterebbe che scrivessi cinque capitoletti come intendo io sulla storia di cui sono stato protagonista, per un rotocalco,… e le assicuro che si raggiungerebbe una tiratura… una tiratura… macché "Grand Hotel"!».
Ma in diverse occasioni lo stesso Audisio aveva fatto capire di non aver sparato lui personalmente. In questo senso si era espresso con il collega del Senato, il democristiano Mario Martinelli e con il vicino di sedia al consiglio comunale di Casal Monferrato, Sergio Scarpone.
Alcune inchieste e rievocazioni delle vicende di Dongo e di Giulino di Mezzegra hanno addirittura ipotizzato che il famoso colonnello Valerio, quello che su mandato del CVL arrivò in Prefettura a Como, la mattina del 28 aprile, e poi a Dongo, per finire infine nel primo pomeriggio a Giulino di Mezzegra, non fosse Walter Audisio, ma addirittura Luigi Longo. In questo senso si era espresso Franco Bandini negli anni '70, ma ancor più lo asserì con decisione Urbano Lazzaro, quel Bill che partecipò alla cattura di Mussolini sulla piazza di Dongo, ed in parte lo condivise anche Giorgio Pisanò.
Tuttavia questa ipotesi, della sostituzione di persona, che vede Longo impersonare il colonnello Valerio (per alcuni sia a Como che a Dongo, per altri magari solo a Dongo e/o nel tardo mattino a Giulino di Mezzegra), non ha seri riscontri, nè testimonianze attendibili, ma semmai testimonianze contrarie ed oltretutto anche una attenta ricostruzione degli avvenimenti che si svolsero a Milano, sembra escludere decisamente la presenza di Longo fuori dalla metropoli nella tarda mattinata o nel pomeriggio.
Quindi non resta che dare ad Audisio quel che è di Audisio, ovvero attestare che questo personaggio non c'entra nulla con la morte di Mussolini e con quella della Petacci. Egli però, a meno di una incredibile sostituzione di persona con qualche altro elemento rimasto ignoto, è sicuramente poi stato presente a Giulino di Mezzegra intorno alle 16 per recitare la messa in scena di una finta fucilazione del Duce, come necessitava per esigenze politiche e storiche e per nascondere certi avvenimenti mattutini che non potevano essere rivelati.
Ed inoltre fu presente, poco più di un ora più tardi, a Dongo per farsi carico della fucilazione dei ministri e personalità fasciste ivi detenute.
È forse per questo che l'Audisio non si riteneva un assassino, visto che egli non aveva mai sparato alla Petacci (e per giunta alla schiena!), mentre le esecuzioni dei ministri a Dongo poteva considerarle come un incarico a lui impartito dal CLNAI (il comitato che rappresentava il governo Bonomi al Nord), tramite un ordine del CVL (il comando militare della resistenza).
Vediamo allora come sono andate queste esecuzioni di Dongo, perchè nelle loro modalità e pretese "giustizialiste", c'è molto da ridire.
Intanto la giustificazione con la quale si volle dare un carattere legale a queste esecuzioni, venne fatta discendere da un decreto, approvato dai membri del CLNAI, riuniti a Milano la mattina del 25 aprile 1945 nel collegio dei Salesiani in via Copernico, in cui erano presenti: Giustino Arpesani per i liberali, Achille Marazza per i democristiani e i tre membri del Comitato Insurrezionale: Sandro Pertini socialista, Leo Valiani azionista ed Emilio Sereni comunista.
Al Secondo Decreto, infatti, quello sull'Amministrazione della giustizia, all'art. 5 si affermava:
«I membri del Governo fascista e i gerarchi del fascismo, colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, di aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromessa e tradita la sorte del paese, e d'averlo condotto all'attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte!».
Quindi, a prescindere dal carattere "legale" della autorità che aveva emesso questo decreto, su cui ci sarebbe molto da dire, era in ogni caso doveroso far precedere una eventuale sentenza di morte verso i membri del governo fascista, da un tribunale straordinario di guerra che, applicando le modalità esecutive che pur il CLNAI aveva previsto, accertasse le responsabilità e le precise identità e ruoli dei singoli imputati, stabilendo se questi erano passibili di pena di morte o meno.
Tutto questo invece non avvenne e l'Audisio si presentò ai comandi della 52ª Brigata Garibaldi che a Dongo aveva arrestato i fascisti, imponendo la sua volontà con i criteri e le modalità che adesso vedremo.
Ed infine, a coronamento di tutta questa vicenda, nessun rapporto venne mai reso al CLNAI o ad altre Istituzioni delle Stato in modo che, neppure negli anni successivi, lo Stato poté redigere una sua relazione su quelle fucilazioni e consentire così agli eredi di coloro che vennero passati per le armi, di conoscere la verità e magari rivendicare documenti, valori, oggetti e beni appartenuti ai loro cari, che come noto furono requisiti e poi sparirono nel nulla.
Urbano Lazzaro Bill, nel suo poco attendibile "Dongo, mezzo secolo di menzogne", Mondadori 1993, ha però riassunto con molta maestria i momenti salienti in cui a Dongo il colonnello Valerio, intorno alle 15, nello stanzone al piano terreno del Comune, si accinse ad imporre quelli che asseriva essere gli ordini da lui ricevuti per selezionare e fucilare, da una lista di 31 nominativi (non si sa se già compilata in loco o rielaborata anche con la collaborazione di Mario Ferro della federazione comunista di Como, giunto con Audisio, a cui, si disse in seguito, il colonnello aveva assegnato il compito di svolgere un veloce accertamento), 15 condannati a morte più Mussolini.
Questo conteggio dei "15" ovviamente non lo esplicitò, ma risulterà evidente che era stato previsto per attuare una ritorsione all'eccidio dei partigiani in piazzale Loreto (poi piazza dei XV Martiri) avvenuto nel 1944,[1] piazza che, non a caso, era stata già indicata in un radiogramma, dal contenuto non veritiero, spedito la notte precedente al comando Alleato a Siena, come luogo dove era stato fucilato Mussolini.
Ma come sappiamo, per sopraggiunti "imprevisti", Audisio si era però ritrovato il cadavere di Claretta, ammazzata al mattino, ovviamente non contabilizzabile nella vendetta e poi venne anche a ritrovarsi l'imprevisto cadavere del fratello, cioè quello di Marcello Petacci.
Il fatto che risulti evidente la sua volontà di scegliere a Dongo proprio 15 condannati, inserendoci a viva forza e nonostante le proteste, anche persone non passibili di pena di morte, fa pensare che egli non voleva contarvi il Duce che era già stato ucciso a parte (ovvero già sapeva che era stato ucciso in altro luogo), e comunque non intendesse considerarlo nel gruppo dei 15 che dovevano rappresentare una simmetrica vendetta per l'eccidio del 1944.
Non è facile capire con quali sinistri criteri di "giustizia" egli abbia incluso o escluso le persone da uccidere, fatto sta che, come vedremo, iniziando con Mussolini che poteva pur essere logico, proseguì con la Petacci, la quale oltre a non essere presente nella lista che aveva in mano (ma sapendola già morta, doveva pur includerla in una pseudo sentenza di giustizia!), non rientrava neppure in particolari colpe per essere fucilata e scatenò una forte reazione da parte dei partigiani di Dongo (e forse una sceneggiata per coloro che, parimenti, sapevano che la poveretta era già stata uccisa al mattino).
Tra proteste e resistenze varie proseguì quindi ad apporre le sue sinistre crocette di morte accanto ad alcuni degli altri 30 nominativi seguendo un suo personale criterio.
Scriverà giustamente il giornalista Luciano Garibaldi, il quale ancor prima di noi aveva espresso considerazioni simili:
«Per esempio, tra un colonnello ed un aviere, scelse un colonnello; tra un giornalista ed un autista, scelse il giornalista; tra un professore ed un motociclista, scelse il professore. C'era una logica. Fece una sola eccezione. Dovendo per forza raggiungere il numero di 15 "fucilandi" (così li chiamò prima di fucilarli) e poichè nella lista non c'era più neppure un sottotenente o un giornalista anche solo praticante, prese a casaccio un nome: Mario Nudi, un poveraccio impiegato della Confederazione fascista dell'Agricoltura e distaccato alla (ma Valerio non lo sapeva) segreteria del Duce [Mario Nudi fu messo a dirigere la "Presidenziale" la scorta della Presidenza del Consiglio e diresse la sicurezza a Gargnano dove il Duce risiedeva. Un ruolo che assolutamente non poteva farlo condannare a morte N.d.A.]».[2]
Arriva così ai fatidici 15 condannati, che tra l'altro essendoci di mezzo il soprannumero di Claretta Petacci (o anche considerando il Duce) avrebbe potuto ridurre di una o due unità, risparmiando magari Calistri, un ufficiale dell'aeronautica, che si era trovato nel gruppo per un passaggio nella colonna di carri tedesca e come tale protestava la sua innocenza e/o Nudi che non era certamente da giustiziare, ma non fregandogliene niente pensa forse che Mussolini e Claretta, morti altrove, non fanno parte del gruppo, o chissà quale altro conteggio andò a fare.
Lui sa solo che dovrà trovare 15 "fascisti" da fucilare e poi recarsi a Giulino di Mezzegra per recitare la sceneggiata ed aggiungere, a latere, il Capo di questi malfattori (più Claretta che però come donna è gia abnorme che sia stata ammazzata e non può certo contarla nel mucchio).
Sorvola così sul cadavere imprevisto della Petacci che gli guasta il numero perfetto, ma qualcuno (un commerciante di legnami di Dongo, fotografo dilettante certo Luca Schenini) gli sussurra, e se lo porterà per sempre alla coscienza, che tra i prigionieri c'è anche il figlio di Mussolini, Vittorio, che invece è Marcello Petacci sotto le mentite spoglie di un diplomatico spagnolo.
Vorrebbe mandarlo a far fucilare subito da Bill Urbano Lazzaro, ma il Lazzaro preso dai dubbi sulla identità di costui lo riporterà indietro. L'equivoco verrà poi chiarito, ma questo colonnello Valerio è caparbio e sospettoso e lo vuole fucilare comunque. Così quando i condannati saranno portati davanti al parapetto del Lago sul luogo d'esecuzione, vi verrà condotto anche il Petacci.
Valerio dovrà quindi aggiungere anche quest'altro poveraccio che, per la reazione dei condannati che non lo vogliono a morire tra loro, viene provvisoriamente distaccato da loro. Poco dopo sarà mezzo linciato dalla folla e ucciso dai partigiani durante il suo disperato tentativo di fuga a nuoto nel lago e sotto gli occhi dei figli piccoli rimasti alla finestra in albergo.
Essendo il Petacci un fuori numero, Valerio non lo vorrebbe neppure ripescare e caricare sul camion con i cadaveri da scaricare a piazzale Loreto, ma sarà costretto a portarselo via per l'insistenza non si sa bene se di Michele Moretti (più probabile) o del Pier Bellini Pedro.
È così che i due fratelli Petacci, ai fini della storica vendetta, risulteranno due imbarazzanti ingombri, ai quali si aggiungeranno 5 ministri (Pavolini, Liverani, Romano, Mezzasoma e Zerbino), 1 sottosegretario (Barracu), 2 gerarchi del PFR (Porta e Utimpergher), 2 tra segretari e addetti a Mussolini (Gatti e Casalinuovo) e 5 sventurati (Bombacci, Calistri, Coppola, Daquanno, Nudi), più Mussolini ammazzato come un cane.[3]
Comunque sia, tutta la sua precedente sceneggiata di fronte al comando della 52ª brigata, in cui sembra che, oltre a Guido alias Aldo Lampredi, c'erano anche Neri alias Luigi Canali, Pietro alias Michele Moretti, e Bill alias Urbano Lazzaro, in cui Valerio esordì con il famoso «sono venuto a fucilare Mussolini ed i gerarchi», dimostra:
primo: che doveva assolutamente racimolare un certo numero di fucilandi (termine con il quale li aveva chiamati Valerio) a prescindere dalle loro responsabilità, altrimenti non si spiega la sua ottusità nel selezionarli nè, per la maggior parte di costoro, nel voler rabbiosamente ignorare la mancanza di imputazioni gravi a passarli per le armi;
e secondo: che sapeva benissimo che a quell'ora la Petacci e Mussolini erano già morti.
L'esperienza ci dice di non credere troppo alle testimonianze e rievocazioni del Lazzaro Bill, per non parlare di quelle del suo compagno di merende Pier Bellini Pedro, le cui storie sono spesso romanzate, edulcorate ed inattendibili, specialmente quando si parla del momento dell'arresto del Duce oppure della sparizione dei documenti sequestrati per i quali i nostri ebbero una loro mai ben appurata parte. Qui però l'argomento esula da faccende in cui il Lazzaro venne poi chiamato a vantarsi o a rispondere per cui, tolta qualche coloritura ed una certa tendenza a dipingere i Garibaldini della 52ª come impavidi, buoni e immacolati guerriglieri crediamo, soprattutto per altri riscontri similari, che i ricordi di Bill siano attendibili. Eccone un estratto:
«Pedro si rivolse a Valerio e gli disse […] che all'esecuzione non un solo garibaldino della 52ª avrebbe preso parte [ed invece alcuni, sembra 5, vi presero parte! N.d.A.]. Valerio ascoltava attentamente Pedro e il suo volto veniva, man mano che Pedro parlava, assumendo un espressione contrariata e adirata.
"Va bene!" rispose con ira. "Guardiamo ora questo elenco dei prigionieri!" Lesse forte "Benito Mussolini", aggiunse subito, "a morte!", e tracciò una croce accanto al nome di Mussolini. Pedro e Guido tacevano. C'era nell'ufficio un senso di soffocamento, come se l'aria fosse diventata irrespirabile. Valerio continuò: "Claretta Petacci: a morte!".
Ma nell'elenco dei 31 prigionieri datomi la sera prima da Pietro e che io restituii a Pedro quando egli tornò da solo a Dongo la mattina del 28 aprile, il nome della Petacci non c'era. Mussolini era il 30° della lista.
Se è accettabile che Valerio abbia letto per primo il nome di Mussolini, segnando una crocetta accanto a quel nome, non altrettanto poteva fare con il nome di Claretta Petacci, perché non compariva in quell'elenco (è evidente che lo segnalò perché essendo stata già ammazzata andava giustificata in qualche modo questa odiosa uccisione. N.d.A.).
A quel punto Pedro si sentì di intervenire e lo fece con prontezza e decisione:
"Valerio" disse "non trovo giusto che tu condanni a morte una donna pel solo fatto che è stata l'amante del Duce!"
Valerio lo guardò con disprezzo e con ira "Io solo" esclamò "decido chi deve e chi non deve essere fucilato! Barracu: a morte!" Altra croce.
"Ma Barracu è un soldato, una medaglia d'oro del 1915, non lo puoi fucilare. E poi non mi risulta che abbia fatto del male!" Scattò Pedro.
"Era sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri della Repubblica e questo basta per cancellare il più puro e valoroso passato!, rispose Valerio.
"Liverani, a morte! Coppola, a morte! Utimpergher, a morte! Daquanno, a morte! Capitano Calistri, a morte! Mario Nudi..."
"Un momento" intervenne Pedro, "ti faccio notare che il capitano Calistri non è stato da noi catturato sulla colonna o sull'autoblinda, ma si è presentato spontaneamente a noi chiedendo lui stesso che fosse esaminata attentamente la sua posizione. E poi non faceva parte del Governo di Salò!".
"Era sulla colonna e questo basta", rispose bruscamente "Valerio".
"Pedro" a quelle parole s'alzò in piedi adirato ed esplose: "ma allora fucila anche gli autisti, le donne, i bambini, le mogli dei ministri, pel solo fatto che erano nella colonna. È inconcepibile tutto questo!"
Mai "Pedro" aveva perso il controllo di sè, ma di fronte alle assurdità di "Valerio" non seppe trattenersi.
"Valerio", alle parole veementi di "Pedro", s'alzò lui pure in piedi pallido d'ira e, picchiando un pugno sul tavolo urlò:
"Ti ripeto che solo io decido qui"! E basta con queste intromissioni e osservazioni! Non voglio più sentire una parola: compreso?"
Pedro lo guadava con aria di commiserazione domandandosi come il Comando generale avesse potuto affidare un così importante e delicatissimo incarico a un simile individuo. [...]
"Mario Nudi: a morte!", proseguiva intanto "Valerio". "Pavolini: a morte! Mezzasoma: a morte! Paolo Porta: a morte!".
E accanto a ogni nome tracciava una croce con una matita nera. La voce di "Valerio" era ringhiosa e aveva un leggero timbro di soddisfazione: sembrava invaso dalla mania di giustizia.
A "Pedro" sembrava di vivere le giornate del terrore della Rivoluzione Francese.
E non si dava pace. Ma capiva che non poteva fare nulla.
"Valerio" disse a un tratto: "Questi sono tutti da fucilare: radunali tutti e preparati a consegnarmeli immediatamente! [...] Sbrigati prima possibile. Poi andremo insieme a prendere Mussolini e la Petacci"».
Fin qui i ricordi di Bill, a cui si può dare un certo credito, supponendo magari che il Bellini Pedro, non era del tutto sincero, essendo probabilmente all'oscuro della morte della Petacci avvenuta a Bonzanigo intorno al mezzogiorno, ma era forse al corrente della uccisione precedente di Mussolini, come starebbe a dimostrare il fatto che egli, condotto il Duce in casa De Maria a Bonzanigo verso l'alba, se ne tornò poi a Dongo, dimenticandosi letteralmente di Mussolini, della Petacci e dei due partigiani lasciati di guardia in quella casa a lui, fino poche ore prima sconosciuta. Se non arrivava Audisio alle 14, non si sa neppure fino a quando avrebbe continuato ad ignorare il "problema" Mussolini. Non è credibile.


Maurizio Barozzi


Note:


[1] L'eccidio dei partigiani del 1944: l'8 agosto del 1944, mentre un camion tedesco stava distribuendo, in viale Abruzzi, derrate alimentari alla popolazione quali avanzi delle mense tedesche (cosa che avveniva di frequente), intorno alle 8,15 lì dove l'arteria sfocia in piazzale Loreto, esplose una bomba che uccise alcuni soldati germanici (sembra 5) ed alcuni cittadini.
Fu un attentato vile e per il particolare evento anche odioso e prevedibile (se non voluto) nel suo scatenare la volontà tedesca di attuare una rappresaglia.
Fu così che i tedeschi ordinarono l'uccisione e la conseguente esposizione in pubblico su piazzale Loreto di 15 partigiani o antifascisti presi dalle galere dove erano detenuti. Pretesero anche che all'esecuzione contribuissero i fascisti e quindi un plotone di militi della "Muti", partecipò alla fucilazione ed al servizio di guardia ai cadaveri esposti.
Ma non tutti sanno che lo stesso Mussolini, una volta informato (con ritardo) dell'accaduto, ebbe un terribile attacco d'ira che travolse il ministro della Cultura Popolare Fernando Mezzasoma, in quel momento presente.
Mussolini quindi si mise in contatto con il comando tedesco a Milano, sfogandosi in tedesco con chi venne a rispondere al telefono. Sfinito mormorò poi: «Sono dei pazzi!».
Stessa protesta fu da Mussolini rivolta al comandante della Muti, Franco Colombo.
In ogni caso quelle proteste così veementi e la dissociazione di Mussolini a nome della Repubblica Sociale, da quel tipo di rappresaglie, sortirono l'effetto di impedire la fucilazione di altri 20 ostaggi decisa dai tedeschi per l'uccisione a Milano di una loro crocerossina.


[2] Vedi: Luciano Garibaldi: "La pista inglese", Ed. Ares 2002


[3] Di quella fucilazione ci sono alcune testimonianze ed in particolare quella del giornalista G. Pellegrini e del partigiano donghese Osvaldo Gobetti, che ricorderanno:
«Fanno tutti insieme il saluto romano e per tre volte gridano: "Viva l'Italia!, viva il Duce". Valerio, irosamente, dalla piazza risponde: "Quale Italia?" - "La nostra, Italia", ribattono i morituri che aggiungono, "non la vostra di traditori"».
Alcuni dicono che Bombacci abbia gridato: «Viva Mussolini, viva il socialismo»; fermo e dignitoso l'atteggiamento di Pavolini, benchè ferito, che griderà: «Viva l'Italia! Viva il Fascismo!».
Altri sommari ricordi attestano frasi più o meno simili.
Da Dongo si telefonerà al direttore de "l'Ordine" di Como, don Peppino Brusadelli e gli si riferisce: «Sono morti tutti in maniera superba ed in particolare Pavolini e Mezzasoma».
Successivamente, sembra intorno alle 18, la ignobile tecnica del caricamento dei cadaveri sul camion di Valerio è descritta dal capitano David Barbieri: «Poi quando li hanno caricati tutti ci stendono sopra un telone e ci si siedono sopra. Ci sono atti di sciacallaggio: a Barracu viene presa la medaglia d'oro, a Dacquanno l'orologio». (Vedi anche: Alessandro Zanella: "L'ora di Dongo" Rusconi 1993)».
Per la cronaca, questi ultimi turpi particolari, vennero poi smentiti da un paio di risentiti, ma sospetti in quanto interessati, partigiani che avevano fatto parte del plotone dell'Oltrepò (Vedi: Fabrizio Bernini: "Così uccidemmo il Duce" Ed. C.D.L. 1998).