Il grande equivoco
Fabio Calabrese
Come tutti sappiamo, nel 2011 cadranno i centocinquanta anni dell'unità
italiana, ma le celebrazioni e le polemiche sono iniziate già molto prima di
questa data. Nel dicembre 2009 la Arianna Editrice ha ripreso un articolo di
Michele Fabbri ripreso dal sito del Centro Studi La Runa, che è una recensione
del libro "Le radici della vergogna" di Elena Bianchini Braglia.
Il motivo addotto da Fabbri citando la Bianchini, per cui molti Italiani si
vergognano o si vergognerebbero di essere tali, risale alle storture e agli
orrori, ai lati oscuri del nostro risorgimento.
Io personalmente non mi vergogno affatto di essere italiano, ritengo la mia
identità nazionale una parte molto importante di ciò che definisce la mia
identità come uomo. Mandai alla Arianna Editrice una replica che essa pubblicò
con grande correttezza; replica nella quale riguardo all'atteggiamento
antipatriottico e antirisorgimentale così diffuso, esprimevo il concetto che: si
tratta prima di tutto di una forma di snobismo, di snobismo meschino, da
anticonformisti fabbricati in serie, rigorosamente uguali a tutti gli altri
anticonformisti, che credono di mostrare chissà quale originalità di pensiero
proclamandosi antipatriottici, e non riescono a capire che in questa nostra
"serva Italia di dolore ostello", è per proclamarsi italiani a testa alta, che
ci vuole coraggio.
Nel marzo 2010 mi è capitato di leggere il bell'articolo di Maurizio Blondet sul
sito della Effedieffe, "Senza verità, niente risorgimento", dove le ragioni
antirisorgimentali sono esposte con chiarezza e persuasività.
Certo, il risorgimento lati oscuri ne ha avuti e non pochi, e occorrerebbe
un'assoluta cecità per non volerlo ammettere.
D'un tratto, ho avuto una sorta di intuizione: non è che tutti noi, patrioti e
antirisorgimentali siamo caduti in un equivoco, confondendo due cose molto
diverse che sarebbe ora di tenere ben distinte?
Da un lato il sano, normale, doveroso senso di appartenenza alla propria
nazione, la cui identità, unità e indipendenza sono state conculcate per secoli
e, per quanto riguarda il fenomeno risorgimentale, l'insorgenza spontanea del
nostro popolo stanco dell'oppressione e della dominazione straniere. Dall'altro,
un movimento politico di uomini con tutt'altre finalità che a un certo punto si
è impadronito del moto popolare distorcendolo a finalità non dichiarate e di
tutt'altro genere.
Il caso è forse analogo alla storia dei movimenti socialisti che sono nati dalla
ribellione naturale e legittima delle classi lavoratrici di fronte allo
sfruttamento e alle ingiustizie della rivoluzione industriale, confiscata poi da
una intellighenzia volta a instaurare il sistema di tirannidi e privilegi di
tipo sovietico.
La confusione fra le due cose, il normale senso di appartenenza alla nostra
nazione e l'inconsapevole complicità con l'internazionalismo massonico volto a
scalzare i fondamenti dell'Europa tradizionale (con tinteggiature più o meno
risorgimentali), è il grande equivoco che ha pesato sinistramente su tutta la
nostra storia, forse secondo solo all'altro grande equivoco immenso e rosso che
ha indotto a scambiare l'insieme di tirannidi più sanguinarie della storia per
il movimento di liberazione dei lavoratori. Adesso di quest'ultimo non ci
occuperemo, ma vedremo di dissipare una volta per tutte quello che aduggia le
radici della nostra storia patria.
Giuseppe Mazzini forse uno dei pochissimi ingenui in buona fede che si sono
trovati alla testa del moto risorgimentale, dimostrò un barlume di comprensione
quando, riguardo all'insurrezione parigina del 1830 che determinò il passaggio
del potere dai castelli alle banche, scrisse ("Dei doveri degli uomini"):
«Chiamate traditori quegli uomini? Dovreste chiamare traditrici le loro idee».
La verità pura e semplice, è che, almeno dopo il 1848, il moto risorgimentale,
tanto nella variante garibaldina quanto in quella cavouriana (il solito gioco
delle parti fra destra e sinistra fra le quali non c'è nessuna differenza
sostanziale) fu sponsorizzato dalla massoneria internazionale le cui teste si
trovavano a Washington, Londra e Parigi. L'unità italiana fu un effetto
collaterale di un movimento le cui finalità erano altre, tendente a sostituire
in tutta Europa la tradizionale egemonia del sangue delle classi aristocratiche
con quella del denaro.
Tutte le volte che l'interesse dell'Italia era in contrasto con quello della
loggia, i patrioti scelsero quest'ultimo, dando così un'implicita dimostrazione
di quale fosse la loro vera patria. Cominciarono i garibaldini comandati da Nino
Bixio reprimendo con estrema durezza l'insurrezione contadina di Bronte; lì
c'era la Ducea di Nelson, lì c'erano interessi inglesi da tutelare. Cerchiamo di
avere le idee chiare a questo proposito: mille uomini o poco più, quante erano
le camicie rosse, non avrebbero mai potuto avere la meglio su di un regno esteso
a metà della Penisola come era quello borbonico, senza il consenso e l'attivo
sostegno delle popolazioni. Pochi anni dopo esplodeva nel meridione la rivolta
popolare fatta passare per brigantaggio, lo scollamento fra le plebi meridionali
e lo stato unitario era completo. Questo lo si dovette all'esosa fiscalità
piemontese, al servizio di leva obbligatorio, ma prima ancora a Bronte ed
episodi dello stesso genere.
Nel 1870 i garibaldini accorrono in Francia ad aiutare Napoleone III contro i
Prussiani, quello stesso Napoleone III, per intenderci, che nel 1848 aveva
soffocato nel sangue la Repubblica Romana, che nel 1859 aveva abbandonato il
Piemonte in guerra con l'Austria concludendo unilateralmente l'armistizio di
Villafranca, che nonostante ciò nel 1860 aveva preteso ugualmente l'annessione
di Nizza e della Savoia, le cui truppe nel 1867 a Mentana avevano fatto a pezzi
gli stessi garibaldini, e che al momento presente era l'ostacolo all'annessione
di Roma.
Peggio, molto peggio fecero i diretti eredi di Cavour, la cosiddetta destra
storica nel quindicennio 1861-1876, che rinunciarono a priori a qualsiasi
progetto di sviluppo industriale e di espansione coloniale perché l'Italia non
entrasse in concorrenza con gli interessi inglesi e francesi. Un ritardo che,
sommandosi a quelli accumulati nella nostra storia preunitaria, doveva avere
conseguenze pesanti per noi per quasi un secolo.
Poiché bene o male, più male che bene, l'Italia era stata fatta, se se ne voleva
fare una nazione in grado di avere un posto nel concerto delle potenze degno
della sua storia e del suo popolo, occorreva una politica che fosse precisamente
l'opposto di quella che la destra storica aveva perseguito: industrializzazione,
espansione coloniale e un riavvicinamento al mondo germanico.
L'Austria, contro cui avevamo combattuto la maggior parte delle guerre
risorgimentali, non era stato che l'ultimo di una lunga serie di invasori e
dominatori stranieri iniziata con gli Eruli di Odoacre e gli Ostrogoti di
Teodorico.
Quello che possiamo considerare il primo episodio di quel ritrovato orgoglio
nazionale che diede vita al risorgimento, non fu una rivolta contro gli
Austriaci ma contro i Francesi: la ribellione di Verona ai soprusi delle truppe
napoleoniche, che doveva portare alla repressione tristemente nota come pasque
veronesi; i Francesi erano poi stati di nuovo nostri nemici nel 1848, quando le
truppe di Napoleone III erano accorse a soffocare la repubblica romana e a
ripristinare lo stato pontificio. Con la Prussia, divenuta impero germanico nel
1871, non avevamo nessun genere di contenzioso; anzi, era grazie ad essa e a
Bismark, che avevamo avuto il Veneto nel 1866 e il Lazio con Roma nel 1870.
La Triplice Alleanza stipulata da Germania, Austria-Ungheria e Italia nel 1882
era nella logica delle cose; non solo per l'Italia era essenziale in quanto
l'esigenza di una politica coloniale la portava in diretto conflitto con Francia
e Inghilterra, ma, considerando le cose in una prospettiva geopolitica e
geostrategica, il mondo italo-austro-germanico rappresentava un asse naturale,
il nucleo, lo zoccolo duro dell'Europa di fronte alla doppia minaccia alla sua
preminenza planetaria che veniva da occidente con Londra e Parigi che recitavano
sempre più il ruolo di battistrada e vassalli della potenza d'oltre atlantico, e
da oriente nella forma fino al 1917 del panslavismo e, a partire da quella data,
del comunismo sovietico.
Non si può che constatare la veridicità dell'affermazione di Julius Evola
secondo cui l'Italia si trovò a dover combattere la seconda guerra mondiale
dalla parte giusta per aver combattuto la prima dalla parte sbagliata. Semmai,
si può osservare che se il primo tempo dell'immane conflitto che lacerò il
nostro continente dal 1914 al 1945 si fosse concluso con la sconfitta dei nemici
dell'Europa, probabilmente avremmo potuto affrontare il secondo in condizioni
molto migliori, o forse esso non sarebbe stato nemmeno necessario, e la
partecipazione dell'Italia dalla parte giusta fin dal primo momento, avrebbe
forse potuto fare la differenza.
Il capovolgimento di fronte del maggio 1915 per l'Italia non fu soltanto il
vergognoso preludio di quell'altro disonorevole voltafaccia avvenuto l'8
settembre 1943, ma obiettivamente andò contro l'interesse nazionale italiano e
nella direzione del suicidio dell'Europa, perché sotto le bandiere dell'Intesa
erano raccolte le forze anti-europee, in particolare le due potenze che si
spartiranno il nostro continente nel 1945 al termine di uno scontro trentennale
di cui le due guerre mondiali non furono che il primo e il secondo tempo.
Ancora oggi gli storici (che solitamente riflettono il punto di vista dei
vincitori) dimostrano un singolare imbarazzo nel parlare della prima guerra
mondiale, un conflitto che sembrerebbe senza cause. È perlomeno strano che
quello che secondo ogni logica sarebbe dovuto essere un localizzato conflitto
austro-serbo (provocato dall'assassinio del principe ereditario austriaco da
parte di un terrorista serbo, non scordiamolo), si sia trasformato
all'improvviso in una deflagrazione europea e mondiale in base a null'altro che
al meccanismo impazzito delle alleanze.
Ciò non è credibile e, per svelare il mistero, occorre porsi la domanda che si
fa ogni buon detective, cui prodest? A chi giova? Chi era interessato a
scatenare sul continente europeo un conflitto altamente distruttivo e di lunga
durata? Questa domanda ci indirizza verso un indiziato preciso: la Gran
Bretagna.
La rivoluzione industriale, lo sappiamo, è iniziata in Gran Bretagna già alla
metà del XVIII secolo ed ha assicurato agli Inglesi per tutto l'ottocento
un'egemonia planetaria, ma alla fine del XIX secolo l'apparato industriale
britannico era ormai obsoleto e perdeva terreno sotto i colpi della concorrenza
di due nuove potenze industriali: gli Stati Uniti e la Germania: la scienza
tedesca, la tecnica tedesca, l'organizzazione tedesca in particolare erano la
meraviglia del tardo XIX secolo. Gli Stati Uniti erano a ogni modo fuori dalla
portata del raggio d'azione britannico ed avevano una sfera d'influenza distinta
da quella del Vecchio Mondo, ma la Germania era tutto un altro affare, con i
Tedeschi si potevano regolare i conti in maniera diretta, anche perché la natura
insulare dell'Inghilterra la metteva al riparo dalle conseguenze più distruttive
di una guerra continentale.
Queste non sono illazioni: abbiamo una testimonianza precisa che finora gli
storici hanno (scientemente o no) ignorato circa il fatto che nei circoli del
potere britannico, alle spalle della politica ufficiale, si è preparata la
conflagrazione di cui l'attentato di Sarajevo ha costituito l'innesco. Questa
testimonianza ci viene da un uomo che scontò con la detenzione la sua
opposizione al conflitto, un uomo che molti considerano il maggior filosofo del
XX secolo, e che fu certamente uno degli spiriti più indipendenti della sua
epoca, il filosofo inglese Bertrand Russell, una testimonianza a dire il vero
presentata in una forma abbastanza curiosa, al punto da far pensare che Russell
abbia ritenuto che certe cognizioni potessero o possano circolare solo in forma
semiclandestina.
In un testo dal buffo titolo, "Il terribile giuramento della signorina X", che
comprende le non frequenti incursioni di Russell nel campo della narrativa,
troviamo un brano molto interessante dal nostro punto di vista, che non contiene
esercitazioni letterarie: "Leggendo la storia come non viene mai scritta", ne
riporto uno stralcio.
Russell in particolare indica un nome preciso fra i politici britannici che
furono responsabili di aver preparato il conflitto all'insaputa della nazione,
del parlamento, di gran parte dello stesso governo: sir Edward Grey:
Sir Edward Grey, allora all'opposizione, parlò a favore di quella che poi
diventò la politica delle Ententes con la Francia e la Russia, che venne
adottata dal governo conservatore circa due anni più tardi e successivamente
consolidata da sir Edward Grey quando egli divenne ministro degli esteri.
Espressi con decisione il mio parere contro questa politica, che a mio avviso
conduceva dritto alla guerra mondiale.
Naturalmente, sir Edward Grey non era il solo.
Quando la flotta russa sparò contro dei pescherecci inglesi al Dogger Bank,
approvai Arthur Balfour [Il primo ministro di allora] del quale in genere
pensavo male, perché trattò l'incidente con spirito conciliante. Non mi accorsi
allora che stava soltanto preparando guerre di più vasta portata.
(...)
Ancora meno mi accorsi che durante le elezioni generali del 1906 quando i
liberali venivano appoggiati soprattutto perché meno guerrafondai dei tories,
sir Edward Grey, senza che né il parlamento né la nazione e neppure la maggior
parte del governo ne fossero al corrente, diede il via a quegli accordi militari
e navali con la Francia, che c'impegnavano se non altro per una questione
d'onore, a sostenere la Francia in guerra, sebbene sir Edward Grey ripetesse più
volte in Parlamento l'affermazione che non eravamo impegnati. Il nostro accordo
con la Francia ci impegnava ad appoggiare la conquista francese del Marocco, che
era un'avventura imperialista del tutto ingiustificata, e condusse a violente
dispute con la Germania.
Il nostro appoggio alla Russia ebbe conseguenze anche peggiori. Il governo russo
soppresse spietatamente la rivolta del 1905, soprattutto in Polonia. I Russi
invasero anche la Persia settentrionale e persuasero sir Edward Grey a unirsi a
loro per soffocare i tentativi di Morgan Shuster di introdurre in quel Paese un
ordinato regime costituzionale. Tutte le atrocità zariste venivano sminuite da
sir Edward Grey, che fece tutto ciò che l'opinione pubblica era disposta a
sopportare per scoraggiare gli aiuti ai ribelli russi e polacchi.
(...)
Nei giorni in cui lo scoppio della guerra era chiaramente vicino, speravo con
tutte le mie forze che l'Inghilterra restasse neutrale. Sapevo che la Germania
del Kaiser, sebbene avesse molti difetti, era molto più liberale di qualsiasi
regime di quei tempi, tranne quelli dell'Olanda e della Scandinavia. La Russia
zarista aveva da molto tempo riempito d'orrore tutta la gente d'idee liberali, e
trovavo intollerabile l'idea di entrare in guerra per sostenerla. Persuasi un
gran numero di accademici di Cambridge a firmare una lettera da indirizzare ai
giornali a favore della neutralità. Il giorno dopo l'inizio della guerra nove su
dieci di quegli accademici espressero il loro disappunto per averla firmata.
"The Nation", il settimanale liberale diretto da Massingham, teneva un pranzo
redazionale ogni martedì: andai a quel pranzo il 4 agosto e trovai Massingham e
i suoi redattori tutti conviti fautori della neutralità. Poi, dopo solo poche
ore, l'Inghilterra entrò in guerra e Massingham mi scrisse la mattina
successiva, cominciando Oggi non è ieri ... e ritirando tutto ciò che aveva
detto il giorno prima. Quasi tutti quelli che negli anni precedenti erano stati
oppositori di sir Edward Grey diventarono nel giro di una notte suoi convinti
sostenitori. La loro scusa era l'invasione del Belgio da parte dei Tedeschi. Da
anni sapevo dai miei amici del collegio dello stato maggiore che in caso di
guerra la Germania avrebbe invaso il Belgio. Fui sbalordito di scoprire che
tanti uomini politici di primo piano e giornalisti avevano ignorato questo fatto
facilmente accertabile, e che tutti i loro pronunciamenti pubblici erano dipesi
da questa loro ignoranza.
La massoneria non aveva amici e strumenti solo a Londra per realizzare il piano
inteso a gettare l'Europa nel baratro di un conflitto continentale e mondiale.
Una decisione fatale che portò il conflitto austro-serbo a trasformarsi in una
deflagrazione planetaria fu la decisione russa di mobilitare le truppe non solo
sulla frontiera austriaca ma anche su quella tedesca, essa provocò l'intervento
nel conflitto della Germania e, stante l'alleanza anti-tedesca di Francia e
Russia, l'apertura del fronte occidentale.
Ebbene, ci rivela Russell, questa decisione così catastrofica fu presa da un
solo uomo, il ministro Sokolnikov, all'insaputa dello zar e del suo governo.
Uno dei fatti che ebbero un'influenza decisiva nel provocare la guerra generale,
fu la mobilitazione dell'esercito russo, che fu ordinata dal ministro della
Guerra Sokolnikov, all'insaputa dello zar. Fu questo che indusse i Tedeschi a
rompere i negoziati.
Ma il patriottismo di Sokolnikov era di tipo particolare. Quando gli Inglesi e i
Francesi inviarono rifornimenti alla Russia, Sokolnikov li vendette ai Tedeschi.
Per sua sfortuna, la Rivoluzione russa gli tolse la possibilità di godersi il
ricavato.
Fu la mia prima esperienza dell'isterismo di massa, e fu difficile per il mio
spirito resistere. Pensavo, quando mi trovavo su un autobus o su un treno, Se
questa gente sapesse quello che penso io, mi farebbe a pezzi.
La stampa era piena di false storie di atrocità, ma chiunque ne dubitasse era un
traditore. Appresi più tardi da fonte autorevole che dei film che illustravano
atrocità venivano prodotti da una società cinematografica nel Bois de Boulogne e
venduti ai belligeranti di entrambe le parti, cambiando solo le didascalie. La
storia che i Tedeschi usavano cadaveri umani per fare gelatina venne inventata
su misura da un giovane in un ufficio governativo a Londra. Si dimostrò molto
efficace e fu una delle principali cause che provocarono l'intervento in guerra,
dalla nostra parte, dei cinesi.
(...)
Gli scopi cosiddetti ideali della guerra offersero alla gente il pretesto per
scatenare tutta la ferocia che fino ad allora le regole del vivere civile erano
riuscite a mascherare. Mi ricordo in un periodo in cui la guerra andava male e
si parlava di pace, che Sydney Webb disse: Dobbiamo tenere i soldati sotto
pressione. Questo era un atteggiamento abbastanza comune tra chi era esentato
dal servizio militare per l'età o per il sesso o per gli ordini sacri.
Il patriottismo naturalmente aveva i suoi limiti. Quando allo scoppio della
guerra si formò un governo di coalizione, esso comprendeva sir Edward Carson che
aveva da poco comprato armi dal Kaiser, che dovevano essere usate contro il
governo inglese [in questo punto vi deve essere nel testo un errore di
traduzione o un refuso. Si noti che in questi termini la frase non ha senso,
mentre ne avrebbe se fosse Sir Edward Carson che aveva da poco venduto armi al
Kaiser, che dovevano essere usate contro il governo inglese].
Scrissi a un amico in America facendo presente quanto questi uomini
incrementassero lo sforzo bellico, ma credo che la censura impedì alla mia
lettera di arrivare a destinazione.
Lo stesso atteggiamento nello stesso tempo di truce revanscismo e di totale
irresponsabilità riguardo al futuro dell'Europa, i politici britannici lo
mostrarono al momento delle trattative di pace (e questo è un discorso che
riguarda anche noi che alla pace di Parigi fummo particolarmente maltrattati).
Le elezioni tenute sulla questione se impiccare il Kaiser subito dopo
l'armistizio furono una vergogna sia per il paese sia per il governo. Il governo
accettò per placare il clamore popolare, di chiedere ai Tedeschi un'indennità di
26 miliardi di sterline. Quando, dopo le elezioni, qualcuno fece presente a
Lloyd George [primo ministro britannico nel 1918] che questa somma era
assolutamente eccessiva, Lloyd George rispose: Caro signore, se le elezioni
fossero durate altre tre settimane, i Tedeschi avrebbero dovuto pagare 50
miliardi. Allora e durante i negoziati di Versailles, Lloyd George era
perfettamente conscio che l'opinione pubblica, assetata di vendetta, richiedeva
cose impossibili, ma pur ammettendo questa consapevolezza, era cinicamente
disposto a rovinare il mondo pur di conquistare la maggioranza.
Utilizzando la stessa tecnica astuta usata dalla Francia di Richelieu durante la
guerra dei trent'anni, Gli Stati Uniti limitarono a lungo la loro partecipazione
al conflitto al sostegno economico e materiale a una delle due parti in lotta,
per intervenire direttamente solo quando gli altri contendenti erano ormai
stremati, e cogliere la vittoria a poco prezzo, ma le motivazioni ultime
dell'intervento americano rappresentano un punto che non è stato mai
adeguatamente chiarito.
L'affinità etnica, linguistica e culturale con la Gran Bretagna, spesso invocata
come spiegazione, è un argomento del tutto inconsistente. Fino alla metà del XIX
secolo e oltre, nonostante questa affinità, i rapporti angloamericani erano
stati pessimi. Gli Stati Uniti, tra il tardo XVIII e il primo XIX secolo avevano
combattuto con l'Inghilterra due guerre d'indipendenza la seconda delle quali
aveva in realtà come posta il possesso del Canada. Nello stesso periodo, gli
eredi di Washington e Franklin erano stati scopertamente dalla parte prima della
Francia rivoluzionaria poi di Napoleone. Durante la guerra di secessione
americana la Gran Bretagna aveva appoggiato il sud secessionista.
La difesa e/o l'esportazione a livello planetario della democrazia è una specie
di alibi standard della politica americana di ogni tempo e luogo, ma in realtà
non ha significato a meno di non considerare che per democrazia non si intendono
genericamente sistemi politici rappresentativi che accordino libertà ai loro
sudditi/cittadini, ma una precisa ideologia liberal-massonica che implica
parecchie cose, a cominciare dalla superiorità e supremazia degli stessi Stati
Uniti, e in questo non differisce in maniera sostanziale dalla funzione del
comunismo come giustificazione del sistema di tirannidi che faceva capo
all'Unione Sovietica.
La Germania e l'Austria del tardo XIX secolo erano molto diverse dall'Austria e
dalla Prussia di un secolo prima, erano fra gli stati più avanzati d'Europa sia
in termini di diritti civili sia di riforme sociali, non meno, e probabilmente
di più della Francia e dell'Inghilterra, per non parlare dell'Italia che aveva
introdotto il suffragio universale soltanto nel 1912 o dell'impero zarista che
rimaneva un abisso di arretratezza. Ricordiamo le parole di Russell: solo i
regimi dell'Olanda e della Scandinavia erano a quel tempo più progrediti di
quello tedesco.
La motivazione vera emerge con tutta chiarezza dal riconoscimento del carattere
ingannevole di questi alibi: a Washington si era capito benissimo che la
distruzione dell'economia tedesca non avrebbe risollevato le sorti del
declinante industrialesimo britannico, e che il vuoto creato dal conflitto
sarebbe stato una splendida occasione per imporre al Vecchio Continente
l'egemonia economica e industriale americana. Appoggiando l'Intesa, gli Stati
Uniti avevano scelto la decadenza del nostro continente.
E l'Italia? La partecipazione italiana al conflitto dalla parte dell'Intesa,
ossia gli anglo-francesi e i loro alleati, fu decisa dal re, dalla corte, da una
parte del governo in spregio alla Triplice Alleanza e all'insaputa e contro
quella che era la volontà palesemente espressa del Paese e dello stesso
parlamento che fu scavalcato. Era una decisione che rispondeva realmente
all'interesse italiano o non piuttosto a quello della massoneria internazionale
cui casa Savoia era indiscutibilmente legata?
La giustificazione classica, il completamento dell'edificio risorgimentale, il
pieno raggiungimento dell'unità nazionale con l'annessione di Trento e Trieste,
è a conti fatti tutt'altro che persuasiva, perché le vicende della nostra storia
avevano lasciato altrettante terre italiane sotto il dominio delle potenze
dell'Intesa: Malta sotto il dominio britannico, in mani francesi la Corsica cui
nel 1860 si erano aggiunte Nizza e la Savoia in cambio della partecipazione
francese alla seconda guerra d'indipendenza (e del voltafaccia di Villafranca),
ma soprattutto per un'Italia che aspirasse al rango di grande potenza europea la
vera posta in gioco sarebbe dovuta essere l'espansione coloniale, ed era chiaro
che qui erano proprio Francia ed Inghilterra a sbarrarci la strada; di più, il
controllo inglese del Mediterraneo attraverso l'asse
Gibilterra-Malta-Alessandria ci costringeva di fatto entro le nostre acque
territoriali. In sostanza, nessuno dei motivi che ci avevano indotti a stipulare
la Triplice Alleanza nel 1882, e che poi saranno gli stessi in ultima analisi
che ci indurranno a una nuova alleanza con la Germania fra le due guerre, aveva
perso di validità.
A leggere la storia delle trattative intercorse fra l'Italia e gli Imperi
Centrali da un lato, l'Intesa dall'altro nei dieci mesi che intercorsero fra lo
scoppio del conflitto e il nostro intervento, c'è di che rimanere esterrefatti:
da parte austriaca si era disposti a concedere la cessione del Trentino e la
costituzione di Trieste in territorio libero in cambio anche della sola garanzia
della nostra neutralità. Davvero l'Italia ha affrontato lo spaventoso carnaio
della prima guerra mondiale, mezzo milione di morti solo per avere il Tirolo
meridionale, quello che poi è divenuto l'Alto Adige: quattro montagne e una
terra e una popolazione che non erano e mai erano state italiane?
La questione di Trieste, poi, era un po' diversa da come di solito viene
presentata dai libri di testo. La città giuliana era indiscutibilmente italiana
di lingua, cultura e storia, ma il suo sviluppo a partire dal XVII e XVIII
secolo era avvenuto come sbocco sul Mediterraneo dell'impero degli Asburgo, come
porto ed emporio che metteva in comunicazione i traffici del Mediterraneo con
l'area centroeuropea e balcanica. Staccare la città da questo vasto retroterra
che ne faceva uno dei porti più importanti del Mediterraneo, avrebbe significato
l'inevitabile declino della città. Consapevoli di ciò, i triestini non
aspiravano tanto a staccarsi dallo stato austriaco, quanto a un sistema di ampie
autonomie che consentisse alla città di tutelare il suo carattere etnico e
culturale italiano senza recidere i legami con quel vasto retroterra da cui
dipendeva la sua prosperità, in sostanza proprio ciò che l'Austria aveva offerto
all'Italia nel 1914 in cambio della semplice neutralità.
Avevano torto? Dopo il collasso dello stato austriaco, la decadenza della città
è stata inarrestabile, e oggi è a malapena il fantasma di quel che era un secolo
fa, anche se il colpo peggiore è arrivato alla fine della seconda guerra
mondiale con l'amputazione dell'Istria e di tutto l'hinterland che un tempo la
città aveva. Oggi Trieste è una città di pensionati, le cui attività economiche
si riducono al pubblico impiego e al piccolo traffico di frontiera, con
l'attività portuale e la cantieristica calate praticamente a zero, in costante
calo demografico, dalla quale i giovani sono costretti ad andarsene se vogliono
trovare un'occupazione.
C'è un aspetto di questa vicenda che è ancor meno noto: consideriamo
semplicemente la geografia: alla metà dell'ottocento la città giuliana mancò
l'occasione di diventare un porto d'importanza mondiale. Come collegamento
naturale fra il Mediterraneo e l'Europa centrale e orientale, sarebbe stata la
più idonea per la propria posizione a trarre i maggiori vantaggi da una via
d'acqua che collegasse il Mediterraneo con i mari dell'Oriente evitando il
periplo dell'Africa.
Il progetto del taglio dell'istmo di Suez poi realizzato dal francese Ferdinand
Lesseps fu concepito in primo luogo e patrocinato con l'appoggio del governo
austriaco, da un geniale uomo d'affari triestino, il barone Pasquale Revoltella,
e dopo la realizzazione del canale fu a una nave triestina del Lloyd Austriaco
(dal 1918 semplicemente Lloyd Triestino) che toccò l'onore di inaugurarlo. La
cosa però durò poco: Inglesi e Francesi che avevano ben compreso l'importanza
commerciale e strategica del canale, ne estromisero presto triestini ed
austriaci. Sembra che voglia rivoltare il coltello nella piaga, ma i fatti sono
quelli che sono: Francia e Inghilterra sono stati costantemente i cattivi geni
della nostra storia dall'ottocento alla seconda guerra mondiale.
I patrioti triestini non avversavano tanto lo stato austriaco quanto il
nazionalismo slavo allora in piena fase espansiva; questo semmai portava ad uno
spirito di solidarietà fra l'elemento italiano e quello tedesco, anche perché
sulla frontiera fra Mitteleuropa e mondo slavo, venivano a crearsi situazioni
simili; si confrontino ad esempio Trieste e Praga: in entrambi i casi, una città
di altra nazionalità si trovava a dover resistere all'assedio di un contado
slavo, italiana Trieste, tedesca Praga, perché per quanto oggi possa sembrare
singolare, quella che è oggi la capitale della Repubblica Ceca, fino al 1918 era
una città tedesca, e in tedesco hanno scritto e pensato illustri boemi del
passato: Sigmund Freud, Franz Kafka, Gregor Mendel.
L'assassinio di Sarajevo provoco a Trieste un'impressione fortissima. Le salme
del principe ereditario Francesco Ferdinando e di sua moglie, imbarcate in
Bosnia furono sbarcate a Trieste per essere traslate via terra fino a Vienna.
C'è un filmato dell'epoca dove si vede il corteo funebre che attraversa Trieste
circondato da una folla strabocchevole, composta ma oceanica.
La dichiarazione di guerra alla Serbia fu accolta con entusiasmo dai triestini,
sembrava l'occasione di dare una bella e meritata lezione all'oltranzismo slavo
di cui Gavrilo Princip, l'assassino di Sarajevo appariva l'incarnazione e
l'epitome; naturalmente, i triestini non potevano prevedere che l'oltranzismo
slavo avrebbe dato nei decenni seguenti ben altre dimostrazioni di ferocia, a
cominciare dal genocidio a lungo misconosciuto delle foibe. In più, i triestini
si aspettavano come imminente l'intervento italiano in base alla Triplice
Alleanza, pur nella costernazione per l'assassinio del principe ereditario e
nell'imminenza del conflitto, fu un momento magico in cui pareva di poter
finalmente coniugare lealismo verso la casa d'Asburgo e patriottismo italiano.
Il voltafaccia del maggio 1915 gettò i triestini nella costernazione, si
sentirono traditi dallo stato italiano. Non era l'ultima volta che i triestini
erano destinati a provare questa sensazione, l'avrebbero provata spesso in
particolare nel secondo dopoguerra e soprattutto dopo l'accordo di Osimo.
A Parigi nel 1919 provammo un'esperienza amarissima: la vittoria che i nostri
fanti avevano conseguito sul campo con tanti sacrifici si trasformò in sconfitta
al tavolo della pace. Succube da sempre della massoneria, casa Savoia aveva
tradito la Triplice Alleanza per mettere il destino dell'Italia nelle mani dei
suoi nemici naturali, ed ora Francia, Inghilterra e gli Stati Uniti che con poco
sforzo si erano accaparrati la scena da protagonisti, ci trattavano non da
alleati ma da nemici sconfitti.
Nella storia della prima guerra mondiale pubblicata a puntate dalla Domenica del
Corriere nel 1968, Franco Bandini ha riassunto con grande efficacia la
situazione.
[Gli obiettivi su cui avremmo dovuto puntare erano] le colonie, gli indennizzi
finanziari o in materiali, grandi prestiti, soprattutto americani, che ci
aiutassero a vincere anche la nostra costituzionale debolezza economica. In
altre parole sbocchi commerciali, fonti di reddito in materie prime, apporti di
naviglio mercantile, materiali, denaro: tanto maggiori fossero state queste
acquisizioni, tanto più forte e feconda sarebbe divenuta la nostra posizione nel
Mediterraneo e in Europa.
Non facemmo nulla di tutto questo, gli occhi ostinatamente puntati
sull'indistinta costa dalmata e sul magnetico punto focale di Fiume. Al tavolo
verde della pace, gli alleati compresero rapidamente che potevano tenerci
saldamente incatenati su questi pochi nomi, per essi di nessunissimo rilievo, e
approfittarono destramente delle circostanze (...).
Gli alleati non potevano negarci la soddisfazione della polverizzazione
dell'impero austriaco, semplicemente perché non era in loro potere resuscitare
cadaveri. Ma si sarebbero opposti con energia a qualsiasi rivendicazione che
intaccasse i loro interessi e i loro compensi: era chiudere gli occhi davanti
alla verità pensare che l'Inghilterra non fosse almeno annoiata dalla nostra
ipoteca navale sul Mediterraneo e la Francia da quella terrestre sui Balcani. Si
sarebbero sempre opposte a qualsiasi aumento di potenza anche economica, che
avrebbe potuto far divenire più potenti quelle ipoteche (...).
In quei tristi e amari mesi del 1919 perdemmo forse per molti decenni, non solo
il risultato di quell'immane sacrificio che era stata la guerra, ma anche il
frutto del paziente lavoro che i padri avevano accumulato nell'erezione di un
grande stato nazionale dal 1870 in poi.
La guerra e il suo esorbitante costo umano a paragone della modestia dei
risultati ottenuti ebbero effetti sconvolgenti sulla società italiana. Durante
il cosiddetto biennio rosso l'Italia parve sull'orlo di una rivoluzione
comunista e il fascismo ne uscì come risposta di quanti non soltanto borghesi
non volevano che l'Italia si trasformasse in una tirannide di tipo sovietico.
Nel 1922 il re Vittorio Emanuele III accettò la marcia su Roma (che più che un
golpe, fu una vistosa dimostrazione che avrebbe potuto benissimo stroncare) e il
fascismo perché l'impopolarità della guerra e il caos sociale provocato dal
conflitto avevano reso traballante il prestigio dello stato e della monarchia,
ma sempre nella prospettiva di sbarazzarsene appena si fosse presentata
l'occasione opportuna.
All'uopo tornava buona l'alleanza della monarchia e della corte con la
massoneria e i circoli liberal-massonici internazionali per i quali l'ascesa del
fascismo e poi dei fascismi in tutta Europa rappresentava una grave interferenza
nel progetto di dominio mondiale liberal-massonico-democratico.
La "svolta" decisiva della politica europea fra le due guerre avvenne un po'
prima della metà degli anni '30 con l'ascesa di Hitler in Germania e la guerra
d'Etiopia con le tensioni fra l'Italia e i franco-britannici a causa -o con il
pretesto- di questa impresa coloniale.
Teniamo presente che l'Italia aveva con l'Etiopia un contenzioso che risaliva
agli ultimi decenni dell'ottocento, che lo stato del Negus aveva inferto all'Italietta
liberale le brucianti sconfitte di Dogali e di Adua. Teniamo presente che
Francia e Gran Bretagna dominavano aree enormi del nostro pianeta -la Gran
Bretagna da sola quasi un terzo di tutte le terre emerse-; l'indignazione contro
l'Italia era pretestuosa e fuori luogo. Non solo: consideriamo che tutte le
truppe e i rifornimenti italiani dovevano necessariamente passare per Suez che
era controllata dagli Inglesi; se la Gran Bretagna avesse davvero voluto,
avrebbe potuto bloccare facilmente l'impresa etiope. No, da parte britannica si
voleva che prendessimo l'Etiopia per poterci condannare, buttarci nelle braccia
di Hitler e distruggere il fascismo e le ambizioni imperiali italiane nella
guerra a venire.
Parliamo di uno storico controcorrente, che ha pagato con una lunga serie di
processi quello che per la democrazia è il delitto più imperdonabile, quello di
dire la verità, Antonino Trizzino, l'autore di "Navi e poltrone", "Gli amici dei
nemici", "Settembre nero".
All'inizio di "Navi e poltrone", Trizzino segnala una scoperta davvero
sorprendente: un'arma destinata a essere risolutiva nelle battaglie aeronavali,
il siluro aereo, fu un'invenzione italiana; nonostante questo, gli alti gradi
della nostra marina ne sabotarono la produzione sicché entrammo in guerra quasi
del tutto sforniti di essa. Al contrario, un documento dell'Ammiragliato
britannico scoperto dallo stesso Trizzino informa che già nel 1938 «quando la
guerra con l'Italia era ormai inevitabile» l'Ammiragliato stesso commissionò
l'incremento della produzione di aerosiluranti e siluri aerei.
La cosa è talmente sorprendente che Trizzino pensa a un errore di data: il 1938
è l'anno dell'accordo di Monaco, quando Inglesi e Francesi mostravano di contare
su Mussolini per contenere l'espansionismo di Hitler. E se non si fosse trattato
di un errore di data? Se i Britannici avessero già allora avuto il ramoscello
d'ulivo in una mano e il pugnale per colpire alla schiena nell'altra?
Questo spiegherebbe molte cose. Si pensi ad esempio che negli stessi anni era in
corso la guerra civile spagnola (1936-1939) e le simpatie e gli aiuti
franco-britannici andarono tutti alla parte "repubblicana" cioè comunista.
Possibile che le "democrazie occidentali" sottovalutassero così gravemente il
pericolo insito nell'avere due stalinismi tendenti a convergere all'estremità
orientale ed a quella occidentale del nostro continente? O lo ritenevano un
rischio accettabile nella prospettiva di una imminente "resa dei conti" di vasta
portata per eliminare "i fascismi"?
Il "casus belli" della seconda guerra mondiale fu la questione di Danzica.
Contrariamente a quello che viene spesso raccontato, non si trattò per nulla di
un'aggressione proditoria da parte tedesca. Tralasciamo il discorso delle
numerose vessazioni cui erano sottoposte le popolazioni dei territori tedeschi
passati alla Polonia con il trattato di Versailles, autentiche provocazioni nei
confronti della Germania ammesse a denti stretti anche dagli storici ufficiali.
Quel che spinse i Polacchi a irrigidirsi sulla questione di Danzica rifiutando
ogni mediazione, fu l'assicurazione (mendace) da parte franco-britannica di un
intervento tempestivo e massiccio in caso di conflitto con la Germania.
Mi pare ci siano pochi dubbi sulla volontà francese e britannica di arrivare
alla guerra.
Per quanto riguarda l'Italia è ormai definitivamente accertato che il re, la
corte, gli alti gradi militari fecero, a quanto pare, pressioni in ogni modo
perché l'Italia entrasse nel conflitto. Pare che nel maggio 1940, Vittorio
Emanuele, riferendosi a Mussolini, esclamasse: «Cosa aspetta quella testa di
legno?»
Non va nemmeno sottovalutata la responsabilità degli alti gradi militari -legati
alla monarchia- che fecero di tutto per nascondere a Mussolini lo stato di
impreparazione e penuria di mezzi del nostro esercito, in modo che egli
prendesse la decisione fatale sulla base di dati del tutto falsi. L'Italia,
occorre ricordarlo, era appena uscita da due guerre consecutive: quella di
Etiopia e quella di Spagna nella quale aveva prodigato con larghezza uomini e
mezzi a favore del franchismo, impedendo così l'insediamento di un altro
focolaio staliniano nella Penisola Iberica, ma stava per entrare nel più grande
conflitto di tutti i tempi con gli arsenali vuoti. Occorre ricordare anche che i
Tedeschi, che valutavano correttamente la situazione, non solo non sollecitarono
la nostra partecipazione al conflitto, ma la sconsigliarono ritenendo
giustamente che l'Italia non sarebbe potuta essere pronta prima del 1942 o del
1943.
Fin dal primo giorno, molta parte degli alti gradi militari sabotò la nostra
partecipazione al conflitto, diramando ordini assurdi, impiegando i nostri
uomini e i nostri mezzi nella peggior maniera possibile, tenendo gli Inglesi
puntualmente informati delle nostre mosse e dei nostri punti deboli. Antonino
Trizzino ha, a questo riguardo, raccolto una documentazione impressionante,
contenuta nei suoi libri "Navi e poltrone" e soprattutto -il titolo è già molto
esplicito- "Gli amici dei nemici".
Si voleva la sconfitta per far cadere il fascismo, era uno sporco gioco giocato
sulla pelle dei nostri soldati e marinai e, molto presto, anche su quella delle
popolazioni civili che cominciarono a subire lo stillicidio dei bombardamenti.
Per questa strada non si poteva arrivare altro che al secondo voltafaccia,
quello dell'8 settembre 1943 -tanto più grave di quello del maggio 1915 in
quanto compiuto in piena guerra- che non risparmiò all'Italia nessuna atrocità,
che aggiunse orrore a orrore, la tragedia della guerra civile a quella del
conflitto, che ci procurò l'umiliazione supplementare al momento della stipula
del trattato di pace, di tornare a essere i nemici sconfitti dopo anni di
"cobelligeranza".
Indistintamente tutte le nazioni europee, anche quelle schierate in campo
antifascista, hanno perso la seconda guerra mondiale, perché l'Europa intera ha
perso il suo ruolo planetario per trasformarsi in un condominio russo-americano
prima, in una serie di colonie e protettorati USA poi.
Oggi la massoneria è sempre un centro di intrighi, di affari poco puliti, di
amicizie impresentabili che opera nella buia zona d'ombra dove si sovrappongono
politica, affari e criminalità organizzata, con occasionali puntate nella zona
della politica "importante" come fu ad esempio in tempi relativamente recenti il
caso della loggia P 2, ma la sua importanza è enormemente diminuita rispetto ai
tempi precedenti la seconda guerra mondiale, è stata messa da parte, non serve
più perché in ultima analisi anch'essa non era/è niente altro che uno strumento.
Dopo la seconda guerra mondiale e la caduta dell'Unione Sovietica, il vero
potere planetario non ne ha più bisogno perché ormai può mostrarsi (quasi) allo
scoperto: il potere dell'aristocrazia del denaro, l'informe moloch che ha oro
nelle vene, il cui dominio mondiale creato attraverso la dissoluzione di etnie,
popoli e culture in una massa amorfa che è il perfetto mercato, ha oggi preso il
nome di globalizzazione, e la "democrazia" è un teatrino recitato a uso dei
gonzi per dare alla plebe l'illusione di contare qualcosa. Forse l'unico motivo
per cui non si riesce ancora a scorgere il volto di questo potere, è che esso
non ha nessun volto umano.
In tutto questo, forse, c'è un'unica nota positiva: noi oggi siamo in grado di
dissipare il grande equivoco, e sappiamo che fra il senso di appartenenza alla
nostra nazione, quel patriottismo del quale proprio non c'è inflazione, che pare
sia cosa normale a qualsiasi latitudine tranne che da noi, e la ripulsa, il
sentimento di ribellione verso le forze che hanno distrutto la struttura
tradizionale delle nazioni europee e le hanno ridotte a colonie degli Stati
Uniti, non c'è alcuna contraddizione.
Fabio Calabrese
il commento di
Giorgio Vitali
Fermo restando che su questa
analisi non si può che essere d'accordo, resta da definire una
"linea politica" alla quale attenersi.
È chiaro che noi accettiamo l'analisi e non intendiamo entrare nel
merito delle tante sfaccettature che hanno contraddistinto gli
ultimi 100 anni. Fra questi è utile inserire la linea
filo-anglosassone del Nazismo "reale", l'evoluzione "filo atlantica"
dei nazisti nel dopoguerra (70.000 entrati nei "ranghi" atlantici),
l'avversione dichiarata dei nazisti alla linea geopolitica espressa
da Mussolini (per la quale ci ha lasciato le pelle) e la repressione
spietata contro gli junkers dopo l'attentato del 20 luglio 1944. Per
quanto riguarda la Massoneria, occorre rendersi conto che, progetti
mondialisti a parte, si tratta pur sempre di una delle tante forze
costantemente in gioco per il controllo del Mondo da parte di questa
o quella elite. Ora, se l'avversione per la massoneria può avere una
giustificazione, questa perde qualsiasi legittimazione quando si
appoggia ad una concezione temporalistica del potere ecclesiastico.
Cosa non accettabile nell'Italia del 2000.
Resta a questo punto una soluzione di liberazione delle "forze"
nazionaliste, che non può che essere contro l'uno e contro l'altra.
Questo è quanto tentato (pur con enormi difficoltà) da "alcuni"
durante il periodo fra le guerre, ed il riferimento alla battaglia
sostenuta da Reghini, Armentano ed altri "contro" la massoneria di
osservanza inglese/anglosassone è del tutto pertinente. Resra
inoltre il fatto che il processo unitario italiano, non più
eludibile dato il progresso tecnologico, era stato tentato dallo
Stato Pontificio retto dal "liberale" Pio IX (liberale in quanto
aveva letto alcuni libri "liberali" che gli avevano aperto il
cervello sull'importanza del progresso tecnologico nella conduzione
dei popoli), e solo dopo la defezione del Papa, [pagata con la
Repubblica Romana del 1849, che aveva aperto la strada al "vero
nazionalismo italiano"] l'iniziativa era passata alla Massoneria
alla quale la borghesia italiana si era rivolta per risolvere il
problema "italiano". (Col beneplacito del Buonarroti che, tra
l'altro, era reduce dalla rivoluzione di Babeuf, cantato in un
sonetto da Mussolini).
Questo è pertanto il vero INTRECCIO tra concreti interessi economici
ed ideologie, culture, sètte e progetti di "dominio". Da notare che
a tutt'oggi la Massoneria, a scapito dei miti, è composta per lo più
da ragionieri, geometri, avvocati, psicologi ed architetti in
eccesso in cerca di una sistemazione qualsiasi.
Il fatto che il Gran Maestro Raffi del Grande Oriente abbia
lamentato di NON essere stato invitato alle cerimonie per l'entrata
in Roma dell'Esercito sabaudo, cerimonie delle quali è parte
integrante l'esponente di quella Chiesa ritenuta perdente il 20
settembre 1870, la dice lunga sul fallimento sostanziale di questa
organizzazione ormai periferica agli interessi mondialisti delle
classi dirigenti finanziarie (che però hanno dovuto vendere ai
cinesi, che non sono nè giudei nè massoni, il 20% della Banca
Rotschild). Va dato atto che la Chiesa è la vera proprietaria
terriera di Roma e limitrofi. Con il consenso di affittacamere,
baristi, venditori di statuette e santini, albergatori, bancarellari,
trattori, osti, vinai, spacciatori a vario titolo, borseggiatori
nelle chiese, Rom presidianti vicoli ed anfratti, souteneurs di
prostitute e di trans, secondo un'antica tradizione romana di
sollazzo per "romei" penitenti (i quali, beninteso, trovavano
conforto fra braccia materne dopo la confessione e l'assoluzione
irrorata da cospicue mazzette).
Il tutto, sempre a maggior gloria del "signornostro".
Giorgio Vitali |
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