Vista nella dimensione storica,
la politica è più divertente
Giorgio Vitali
[Demofilia e democrazia s’incontran di rado; bene di popolo e governo di
popolo son di regola termini storicamente contraddittori]
Antifascismo, una nevrosi da astrazione
In questi giorni alcuni avvenimenti, che interessano relativamente gli
italiani in tutt’altre faccende affaccendati, mi stimolano alcune
considerazioni che reputo necessarie anche in vista di operazioni in corso a
livello internazionale, il cui fine è sicuramente la destabilizzazione
“stabilizzante”.
Si tratta della mostra apertasi a Roma sulle nostre colonizzazioni, della
proposta di dare lo “status” di combattenti ai militari della RSI, e, per
ultimo, uno spettacolo con dibattito sul Futurismo e Marinetti, al quale ho
assistito recentemente.
Cominciamo da quest’ultimo. Nei commenti dei partecipanti, ho sentito
soltanto l’ansia di dire (non potendolo dimostrare), che Marinetti ed il
Futurismo non erano fascisti. La qualcosa storicamente è un nonsenso, a
parte il fatto che Marinetti stesso, potendosene disinteressare, era andato
volontario in Russia. Sappiamo tutti che un movimento politico ed un sistema
di governo poggiano sempre su un concomitante movimento culturale. Fascismo
e Futurismo coincidono perché si esprimono con la stessa intensità in campo
artistico, letterario, urbanistico, politico. Nessuno lo può negare.
Indipendentemente dal fatto che un singolo futurista abbia avuto in tasca la
tessera del partito. L’antifascismo è una nevrosi proprio perché colui che
ne è affetto cerca in tutte le maniere di esprimere un’appartenenza e
respingere un’allusione prendendo per vere le proprie allucinazioni. È una
creazione del dopoguerra, anzi del tardo dopoguerra, (siamo negli anni
settanta), per ragioni di politica interna e mediterranea. I veri ed unici
antifascisti essendo coloro che si sono opposti al fascismo durante la
guerra civile dal diciannove al ventidue. Finito il secondo conflitto
mondiale, nonostante le più o meno enfatiche manifestazioni di
“antifascismo”, la struttura della società italiana ha continuato ad essere
quella che faticosamente aveva impiantato il fascismo il quale, essendo
stato un movimento globale (totalitario se si vuol usare un termine più
appropriato) ha coinvolto tutti gli aspetti di una società per molti versi
complessa come quella italiana, che proviene da una storia civile molto
articolata.
Come dimostra senza alcun dubbio la Costituzione elaborata dopo una
lunghissima discussione nel 1948. Tre anni dopo la fine della guerra. Qui
non si tratta di levare alti lai come fanno di solito i pre-post comunisti,
affetti da cronica impotenza. È una semplice constatazione che le società
evolvono in funzione della congruità degli ordinamenti che le sorreggono.
Malgrado la nevrosi suddetta, è un fatto che il fascismo ha saputo creare
istituzioni capaci non solo di sopravvivere di fronte all’impatto della
società industriale, ma anche alla sconfitta militare, ad una guerra civile
ed ai massacri, nonché all’impatto della cultura post-industriale gestita
dal potere finanziario, garantendo, non so fino a che punto il giorno
d’oggi, la tutela delle componenti più disagiate della società nazionale.
Una semplice documentazione su quanto asserisco è facilmente riscontrabile
in un volumetto di Amintore Fanfani del 1982, edito da “Prospettive nel
mondo“.
Affetto da inguaribile nevrosi antifascista si dimostra Giorgio Bocca. Io
non riesco a capire come il comportamento di questa persona, che, per averne
scritto a lungo, conosce le questioni d’Italia dal 1943 ad oggi non sia
stato finora studiato da qualche psicoanalista. La sua è tutta una ricerca
di giustificazioni al proprio passato, pur di fronte all’evidenza dei fatti.
Costui scrive sull’ultimo numero de "L’Espresso": «Nella realtà malamente
dissimulata dalle retoriche vien fuori che noi, sinistra compresa, stiamo
dalla parte americana, dalla parte degli interessi strategici ed economici
degli Stati Uniti. Vien fuori che noi della democrazia che potrà nascere da
queste elezioni fatte in stato di occupazione interessa poco o nulla.
Interessa soltanto che nasca un governo docile e subalterno, che normalizzi
una buona volta l’estrazione ed il commercio del petrolio, dia le
concessioni alle “Sette sorelle” ed anche al nostro ENI, con piena
soddisfazione del cavalier Berlusconi che rivendica i meriti della nostra
partecipazione militare».
Si tratta, a mio avviso, di un’analisi sufficientemente corretta per uno
come lui, che ha sempre scritto alle dipendenze di interessi finanziari
internazionali, il quale poi assimila la resistenza irachena a quella
italiana nell’ultima fase del nostro conflitto contro gli USA, senza tenere
conto che, se sono gli USA che oggi come ieri conducono una guerra
imperialista, [oppure ieri non erano imperialisti mentre ed oggi si?] sono i
suoi sodali di resistenza ed i governi collaborazionisti imposti dagli
Alleati ad essere assimilabili ai collaborazionisti iracheni, mentre sono i
combattenti social-repubblicani ad aver condotto una lotta di difesa
contemporaneamente della sovranità nazionale e dei diritti dei più deboli.
In questo quadro di nevrosi diffusa in tutta la società nazionale, effetto
sociale dell’antifascismo, spicca l’assenza dai dibattiti televisivi,
radiofonici, parlamentari, dell’aspetto concreto della nostra presenza in
Iraq. Sembra che gli italiani vogliano ignorare le motivazioni del
comportamento di coloro che li rappresentano. Nemmeno il fatto che a
Nassiriya ci siano i pozzi assegnati a ENI ed ad una società spagnola serve
per far capire la verità, tale è l’alienazione mentale provocata
dall’antifascismo. Nessuno fra i politici si azzarda a dire che siamo in
Iraq a tutela dei nostri interessi economici. Evidentemente non contro gli
iracheni e comunque non solo contro gli iracheni. Gli italiani si potrebbero
spaventare, ed il terrore è un cattivo consigliere. Nessuno ha il coraggio
di affrontare non dico a muso duro, ma anche soltanto da “uomo”, la realtà
nella quale siamo immersi e dalla quale ovviamente non riusciamo a
liberarci. Il falso è l’aria che respiriamo, l’antifascismo è la sua
espressione ideologica. Le marce per la liberazione di questa o quella
giornalista, più o meno allineata, più meno che più, sono soltanto
espressione di impotenza.
Un certo Sergio Luzzatto
Uno “studioso”, dal nome Luzzatto, ha scritto un pamphlet edito da Einaudi
nel 2004, dal titolo "La crisi dell’antifascismo". Di questo testo
l’ideologia di base è la tesi del complotto, secondo cui la storia sarebbe
costituita da una macchinazione, con il solito “grande vecchio” ispiratore
di ogni intervento nella società. Il Luzzatto vede nella rilettura
“revisionista” del fascismo e della resistenza una sorta di congiura messa
in opera da elementi reazionari che intendono in questo modo spazzare via la
Carta Costituzionale, per sostituire ad essa un nuovo assetto istituzionale
destinato a provocare un’involuzione autoritaria. Fortunatamente non siamo i
soli a giudicare in modo adeguato la nevrosi che ha pervaso l’intellighenzia
“resistenziale”.
Commentando l’attacco forsennato subìto dal De Felice, per la sua peraltro
prevedibile definizione del fascismo come movimento di sinistra, Nicola
Matteucci, nel lontano 1975, adottava la definizione di “mistica
antifascista”. Rosario Romeo aveva ugualmente deriso la “reazione isterica”
che aveva attaccato De Felice reo, secondo i suoi detrattori, di aver
storicizzato il fascismo, depotenziando di conseguenza la mistica “anti” su
di esso costruita. Il libro del Luzzatto svela oggi, proprio attraverso le
sue accuse, il fallimento del tentativo di fondare sul mito
dell’antifascismo l’identità nazionale. Come aveva già fatto a suo tempo
Pacifico D’Eramo nel libro fondamentale "La liberazione dall’antifascismo"
su un principio siffatto, che giustifica ed esalta la sconfitta, non è
possibile né si potrà mai costruire una qualsiasi identità nazionale, tanto
più che il fascismo si è posto e si è comportato, soprattutto nei suoi
epigoni, i combattenti della RSI, come il compimento del Risorgimento. I
propugnatori della sconfitta per le armi dei nemici, al fine di prendere il
posto dei presunti sconfitti, sono i primi autentici sconfitti della storia,
sono uomini in fotocopia, sono dei quaquaraquà. La dimostrazione evidente
consiste nel fatto che non hanno finora lasciato traccia, se si esclude
qualche libro e qualche denuncia anonima. Malgrado le fantasie postume del
Luzzatto.
Ma a costoro è la storia a non lasciare. Possono agitarsi come e quanto
vogliono. La sconfitta del comunismo è magistralmente documentata in un
volume recentemente pubblicato dal quotidiano "la Repubblica" e dedicato ai
fumetti di Sergio Staino. Con tutta la stima per ed il rispetto per
l’autore, si tratta pur sempre di un discorso abbastanza rigido, come sono
tutti i fumetti, ma è sufficiente per documentare un autentico squallore, un
vuoto di umanità ed esistenziale. Per documentare il fallimento
dell’antifascismo, sorretto a lungo dall’egemonismo gramsciano interpretato
dalle menti sublimi dei resistenti, è sufficiente il fumetto. Qui si tratta
inoltre della sostanziale incapacità di comprendere le leggi della storia,
che punisce chi non ha saputo interpretare l’evoluzione dei tempi,
attardandosi attorno all’impossibile realizzazione di utopie, per cui è
bastato un Berlusconi qualsiasi per mettere tutti per terra.
Per quanto riguarda poi l’antifascismo resistenziale, il primo esempio che
mi viene alla mente è legato alla storia ancora attualissima della parabola
napoleonica. Napoleone, si sa, è colui che ha diffuso nel mondo, moderandoli
e rendendoli efficaci con l’antica e sempre presente lungimiranza del
legislatore italico, i princìpi della "grande rivoluzione”. Alla fine della
sua parabola, Napoleone si vede tradito dai suoi [tentativo di colpo di
stato del generale Malet ottobre 1813] mentre, dopo aver visto la Grande
Armata ridotta nel giro di un anno da 610.000 a 1.000 uomini 60 cavalli e
nove pezzi, con uno sforzo incredibile ma assecondato dai meravigliosi
ragazzi quindicenni delle ultime leve, sta tenendo testa alle armate della
coalizione avanzanti in territorio francese. Vince a Dresda, perde a Lipsia
il 16-19 ottobre 1813, ma infligge al nemico altissime perdite umane. Nel
1814 e fino al 31 marzo 1814, (entrata degli alleati a Parigi), si combatte
aspramente. L’imperatore abdica il 6 aprile 1814.
Assieme alle truppe della coalizione europea antifrancese si trovano molti
francesi, motivati da diverse e spesso contrastanti ideologie. Sono
realisti, borbonici, orléanisti, democratici, antimperialisti,
post-giacobini, repubblicani, liberali, anglofili, pacifisti, legittimisti,
c’è anche qualche “regicida” convertito alla causa aristocratica, ci sono
religiosi di ogni congrega. Di essi non resterà traccia, non solo nella
storia, ma anche nella memoria. La memoria è tutta per Napoleone. Per
l’ovvia ragione che, dal punto di vista dell’evoluzione della società, si
tratta di personaggi pleonastici. Vecchi ed ingombranti. Non interessano.
Destano più attenzione gli eroici combattenti della Legione Straniera
durante la guerra di conquista del Messico nel 1867. Furono decimati nella
furiosa battaglia di Camerone, ma si batterono fino all’ultimo uomo. Per
tener fede all’impegno preso con Napoleone «il piccolo» e Massimiliano
d’Austria, quello cantato post mortem dal Carducci. Quindi sono i
combattenti social-repubblicani, quale che sia stata negli anni seguenti la
linea politica seguìta dalla classe politica alla quale incautamente si sono
affidati, a combattere contro il nemico imperiale ed imperialista di ieri e
di oggi. E per questa ragione esiste per essi una legittimazione storica che
va ben oltre alla concessione dello “ status” di belligeranti che il governo
in carica vuole loro assegnare, tra lo sconcerto degli antifascisti.
Ma di quest’argomento è giocoforza scrivere prossimamente.
Giorgio Vitali