da "Rinascita"
25 luglio 1943 Lo "strano" comportamento di
Mussolini
Maurizio Barozzi (8 settembre 2009)
Necessità contingenti ed una
particolare situazione politico militare costrinsero Mussolini a
comportarsi in un certo modo, solo apparentemente passivo, prima e
dopo la seduta del 25 luglio 1943. Questa realtà ha consentito a
scrittori e giornalisti storici di ipotizzare ogni più peregrina
illazione. |
L'articolo su "Rinascita" di Marco Managò del 2 settembre 2009, in cui l'autore
ci illustra il libro di Romano Mussolini "Il Duce mio padre", BUR 2005 ricorda,
tra le altre cose, il quesito che sempre si è posto il figlio del Duce sul
motivo per cui il padre affrontò la successione degli eventi del 25 luglio 1943
che portarono alla caduta del fascismo, senza una adeguata reazione.
L'argomento è di estremo interesse storico, visto che trattasi di un quesito che
si sono posti in tanti, nonostante le esaustive deduzioni dello storico Renzo De
Felice, per il quale Mussolini doveva -per forza di cose- comportarsi in quella
maniera (vedremo tra poco perché):
«Che Mussolini si fosse arreso ad un "destino inevitabile" non è vero... che
anzi il Duce si impegnò a fondo sfoderando il suo miglior repertorio tattico
solo che, consapevole della posta in gioco preferì non mostrarsi preoccupato,
non ricorrere ai toni duri, quasi distaccato e sicuro» R. De Felice: "Mussolini
l'alleato", Einaudi 1990.
Alcuni ricercatori, viceversa, hanno ipotizzato svariati scenari, tra i quali
uno dei più documentati e singolari è quello ventilato dagli scrittori Fulvio e
Gianfranco Bellini, nel loro ottimo e interessante libro "Storia segreta del 25
luglio 1943", Mursia 1993 che però, a nostro avviso, nelle deduzioni finali
finisce fuori strada.
In sintesi, esagerando alcuni particolari e riscontri, che pur sono reali, gli
autori ipotizzano che il Re, quel 25 luglio a Villa Ada (già Villa Savoia), fece
sparire di scena Mussolini al fine di anticipare una iniziativa dei militari che
volevano assassinarlo e soprattutto per prevenire un imminente intervento di
Hitler contro il Duce.
Gli autori, infatti, ritengono che il Führer, preoccupato dal sentore delle
iniziative internazionali di Mussolini, che si accingeva a metterlo con le
spalle al muro per obbligarlo a porre termine alla guerra con i sovietici, aveva
praticamente deciso di attuare l'operazione "Alarico" cioè l'invasione
dell'Italia e la soppressione del suo amico-alleato.
È questa una ipotesi storicamente inverosimile di cui non si ha (come viceversa
invece si dovrebbe necessariamente avere) alcun riscontro nei rapporti e nei
movimenti di Hitler in quel luglio '43, laddove pur si conosce, ora per ora,
ogni suo movimento, ogni contatto, ogni colloquio.
Niente sta a indicare un intento di Hitler in questo senso. Oltretutto si
dovrebbe credere che il Re, così prudente per natura, per evitare la reazione
tedesca sostituisca Mussolini con Badoglio avendo però in mente un prossimo e
ben peggior tradimento! e questo mentre invece Hitler, dopo aver deciso di
eliminare Mussolini, lo recupererebbe poi, mettendolo a capo della RSI,
nonostante il parere negativo dei suoi generali e dello stesso Goebbels. Non sta
nè in cielo, nè in terra! [1]
Altri fantasiosi scrittori hanno invece visto, nella passività di Mussolini, un
suo nascosto desiderio di agevolare gli intenti dei dissidenti per defilarsi
discretamente dalle responsabilità di governo.
Per cercare di capire come stanno esattamente le cose, dobbiamo partire da una
considerazione espressa nel nostro precedente articolo: "Gli scottanti contenuti
del Carteggio Mussolini-Churchill", "Rinascita" 1 settembre 2009, quando
asserimmo che a giugno del 1940 Mussolini era stato costretto ad entrare in
guerra, dovendo pure sbrigarsi a farlo, per alcune decisive considerazioni tra
le quali citammo anche il rischio che "...se la guerra avesse proseguito,
estendendosi inevitabilmente, era facilmente prevedibile, data la nostra
posizione geografica, di esserne coinvolti, magari con una invasione del nostro
territorio sia da parte Alleata, per farne uno scalo verso la Germania o per
attaccarla da Sud dove era più debole, sia da parte tedesca per prevenire tutto
questo".
Questa situazione strategico militare la ritroviamo, ancor più complessa,
nell'estate del 1943.
Con gli Alleati, infatti, sbarcati ai primi di luglio in Sicilia, anche senza
considerare le gravi ripercussioni nelle altre nazioni dell'Asse, per nessun
motivo i tedeschi avrebbero potuto accettare un disimpegno bellico italiano, con
conseguente sicura occupazione Alleata del territorio ed il Reich, già in
difficoltà sul fronte russo, minacciato da Sud.
Pur desiderosi di levarsi di torno gli inetti italiani, i tedeschi proprio non
potevano lasciarci andare, e avrebbero dovuto necessariamente invadere l'Italia,
se questa si fosse disimpegnata.
Il 19 luglio al convegno di Feltre Hitler, con evidenti ragioni, aveva fatto
capire, senza mezzi termini, che non fidandosi dei vertici militari italiani,
avrebbe concesso ulteriori e onerosi aiuti all'Italia solo a patto che la
conduzione delle operazioni belliche e il comando delle forze italo-tedesche sul
nostro territorio, fosse stato interamente nelle mani dei generali germanici.
Una condizione questa che Mussolini, pur con l'acqua alla gola, non poteva di
certo accettare.
Il complesso strategico militare di questa situazione era a tutti ben noto,
anche se certi ambienti militari, finanziari, industriali, della Corona e
persino dello stesso PNF erano propensi a fregarsene pur di scrollarsi di dosso
Mussolini, buttare a mare la Nazione e salvare i loro interessi e privilegi.
I settori poi, espressamente antifascisti, con in prima fila quelli massonici,
proprio questa linea del tanto peggio tanto meglio perseguivano da sempre.
Ma esautorare Mussolini, il solo che forse avrebbe potuto, almeno in teoria e a
determinate condizioni, ottenere il consenso di Hitler per lo sganciamento
dell'Italia sottintendeva la volontà di percorrere un altra più subdola e
pericolosa via.
Di Mussolini tutto si può dire, meno che fosse un incosciente, disposto per la
propria salvezza a ledere gli interessi nazionali, o un uomo restio a prendersi
certe rischiose responsabilità, come lo si vedrà intorno al 25 aprile '45
quando, in quella situazione disperata, egli seguirà il suo destino fino fondo,
sperando di giocare le sue ultime carte negli interessi della Nazione e non ci
fu nulla da fare per i famigliari, gerarchie di partito e vertici della RSI che
volevano convincerlo a mettersi in salvo, predisponendo persino vari sistemi e
mezzi di fuga, che lui caparbiamente rifiutò sempre.
Il Duce comunque, fino a quell'estate del '43, nonostante i pressanti solleciti
che gli pervenivano da tutte le parti, non aveva ritenuto opportuno proporre ai
tedeschi l'uscita dell'Italia dalla guerra. Oltretutto la formula della "resa a
discrezione", pretesa dal nemico, più che un disimpegno (anche se a caro
prezzo), avrebbe condotto ad una capitolazione, aggravando la situazione.
Testimonianze sulla prigionia di Mussolini a Ponza (agosto 1943) riferiscono che
il Duce ebbe a dire al maresciallo dei carabinieri Sebastiano Marini quanto
segue:
«L'Inghilterra ha già proposto una pace separata, ma io non ho ritenuto
conveniente accettarla per il decoro e l'onore della nazione, senza contare la
triste situazione in cui avrei messo il popolo italiano, se si pensa che la
Germania, dopo il patto d'acciaio, avrebbe rivolto le armi contro di noi».
Questa testimonianza ci dimostra che, a suo tempo, l'Inghilterra era stata
propensa ad un accomodamento, però sostanzialmente a spese e responsabilità di
un nostro tradimento verso l'alleato tedesco, con tutte le conseguenze morali e
materiali del caso.
Che il Duce, con il peggiorare della situazione militare, si sia barcamenato nel
trovare una soluzione per uscire da una guerra oramai insostenibile è evidente,
ma la realtà concreta dei fatti è quella che attesta un Mussolini non portato a
perseguire la via che sarà poi scelta da Badoglio.
Indirettamente il maggior riconoscimento dato a Mussolini per il fatto di non
aver intrapreso trattative di pace unilaterali, lo dobbiamo proprio a Churchill
quando, nella sua monumentale opera sulla Seconda Guerra Mondiale, ebbe a
scrivere queste parole sibilline, ma significative: «Persino quando le sorti del
conflitto erano ormai decise Mussolini sarebbe stato bene accolto dagli Alleati.
Avrebbe potuto fare molto: abbreviare la durata della guerra scegliendo con
calma e cautela il momento opportuno».
In ogni caso Mussolini, rendendosi perfettamente conto della nostra
impossibilità a proseguire il conflitto ed allo stesso tempo di uscirne, pensò
di riprendere, con più decisione, la richiesta a Hitler per la chiusura del
fronte russo, cercando anche l'appoggio del Giappone e di altre nazioni
dell'Asse. Se anche questa iniziativa non fosse andata in porto si sarebbe poi
visto il da farsi.
Sembra, anche se i riferimenti sono controversi, che il Duce preannunciò questa
strategia esponendo i suoi intenti all'ambasciatore giapponese Hidaka, che vide
nel suo ultimo giorno di governo, la mattina del 25 luglio 1943, chiedendogli di
riportarli ed illustrarli alle autorità giapponesi che avrebbero dovuto
sostenerli verso la Germania.
Egli aveva anche elaborato una specie di "Carta dell'Europa", in alternativa
alla menzognera "Carta Atlantica" degli Alleati, per contrastare, nel
proseguimento della guerra, gli occidentali anche sul piano ideologico e della
propaganda bellica.
In pratica Mussolini ipotizzava, almeno come fase transitoria, una soluzione
alla difficile situazione del nostro paese, puntando al disimpegno tedesco dalla
guerra con i sovietici e il conseguente riversarsi delle divisioni e degli
armamenti della Germania in Europa e nel mediterraneo.
Tutto questo non era campato in aria, perchè nei mesi precedenti c'erano stati
alcuni sondaggi con i Sovietici che ben lasciavano sperare, ma poi Hitler aveva
preferito soprassedere.
Trasferiamoci adesso alla vigilia del 25 luglio quando, come sappiamo, Mussolini
era sicuramente al corrente di varie trame, da lui definite "tinte di giallo",
che stavano dietro alla richiesta della convocazione del Gran Consiglio del
Fascismo.
Conosceva anche il contenuto del famigerato Ordine del Giorno di Dino Grande,
che forse sottovalutò nelle sue potenzialità, ma del quale non poteva non aver
intuito come, dietro alla richiesta di rimettere alla Corona alcune
responsabilità che pesavano su Mussolini e sul Fascismo, vi era in pratica la
liquidazione del Regime e l'estromissione del Duce dal Governo.
Eppure accettò di convocare il Gran Consiglio per sabato 24 luglio 1943 e poi,
nonostante il voto a lui sfavorevole sull'O.d.G. Grandi, non fece alcunché per
bloccare tutto, far arrestare i dissidenti o comunque reagire con forza.
Uno "strano" comportamento questo del Duce che ha fatto anche avanzare l'ipotesi
che egli abbia volutamente e sottilmente agevolato il voto contrario del Gran
Consiglio per defilarsi da una guerra oramai persa e quindi lasciare in altre
mani la responsabilità della capitolazione.
Se però partiamo dalla considerazione già premessa, per la quale Mussolini
doveva tener conto della impossibilità per l'Italia di uscire dalla guerra senza
subire contraccolpi cruenti (soltanto un criminale avrebbe potuto non tenerne
conto) e che il passo che era in atto al Gran Consiglio, proprio ad una
capitolazione con gli Alleati sbarcati in Sicilia avrebbe finito per portare, ma
soprattutto gli era ben chiaro che i rapporti di forza tra i suoi fedeli,
rispetto ai militari e la Corona, erano sfavorevoli per il fascismo, è evidente
che egli ritenesse necessaria una accorta e prudente strategia.
Soprattutto la logica e gli elementi di riscontro ad oggi accertati escludono a
priori ipotesi fantasiose ed hanno, tra l'altro, ben evidenziato che nella
seduta del Gran Consiglio Mussolini, seppur in preda a lancinanti dolori
addominali, causati da una specie di ulcera nervosa, regalo dei nostri rovesci
bellici, si batté al limite delle sue possibilità.
Ignorava però che Grandi, Bottai e in un certo senso anche Ciano, sottobanco
avevano concertato il colpo del 25 luglio, con gli ambienti militari e la Corona
e quindi a nulla sarebbero valse le pressioni, i ricatti e le schermaglie
dialettiche, di cui era maestro, per farli desistere.
Quindi, seppure a prima vista l'atteggiamento del Duce in quei giorni può
sembrare passivo, indifferente e non adeguato al pericolo di un colpo di Stato,
che da più parti gli era stato preavvisato, questo risiede nel fatto,
semplicissimo ed evidente, che in quelle condizioni il Duce aveva la sola
alternativa di far scivolare la riunione e la prevista sedizione del Gran
Consiglio nel modo più indolore e silenzioso possibile: l'uso della forza, anche
solo minacciata, avrebbe fatto sicuramente precipitare tutta la delicata
situazione, innescando pericolose prove di forza che il Re non avrebbe mai
accettato inducendolo a togliergli quella fiducia che, invece, il Duce (qui si
sbagliando!) credeva di avere ancora.
In quel momento i rapporti di forza tra Istituzioni, Forze Armate, Servizi,
Polizia e Carabinieri da una parte e Milizia e Partito fascista dall'altra,
questi ultimi oltretutto, nei loro quadri migliori, decimati dalla guerra,
depressi per i recenti nefasti avvenimenti e vari gerarchi dissidenti, pendevano
sproporzionatamente dalla parte dei primi.
Problematico anche il contare, alla disperata, sui tedeschi i quali avrebbero
dovuto accollarsi delle responsabilità diplomatiche e militari per prendere
parte alla contesa e comunque non era certo desiderabile che i tedeschi fossero
chiamati in campo per levare le castagne dal fuoco al fascismo.
È pur vero che alle porte di Roma era accampata la divisione corazzata "M",
fedele al Duce e terrore della Corona, ma il suo intervento poteva anche non
essere decisivo, determinando al massimo la fuga del Re dalla capitale e avrebbe
condotto sicuramente alla guerra civile.
Tutto questo il Duce lo aveva previsto e considerato come si evince da quanto
ebbe a dire al segretario del fascio Carlo Scorsa poco dopo aver incasso il voto
avverso del Gran Consiglio:
«Arrestarli tutti? Occupare Roma con la divisione "M" e con l'aiuto eventuale
dei tedeschi? Chiedere l'aiuto dello straniero per risolvere le cose interne? E
il Re come reagirebbe. La possibilità di una guerra civile alle spalle delle
truppe schierate contro il nemico?... Soluzione da scartarsi». Vedi C. Scorsa:
"La notte del Gran Consiglio" riportato in R. De Felice "Mussolini l'alleato",
op. cit.
In questa situazione e soppesando tutti i pericoli del momento Mussolini scelse,
ragionevolmente, anche se oggi possiamo dire, erroneamente, un altra strategia.
Egli, non arrivando ad immaginare che certi personaggi e soprattutto il Re, pur
di salvare i loro privilegi e le loro teste, fossero disposti a tradire e
buttare a mare la Nazione, [2] partiva dal
presupposto che un disimpegno dell'Italia dalla guerra era in quel momento
impraticabile e quindi l'O.d.G. di Grandi seppure ammaliante per gli
opportunisti e i pavidi, si sarebbe palesato pericoloso per il paese e per il
partito fascista distruttivo per il Regime.
Di conseguenza accettò lo scontro al Gran Consiglio visto che del resto, con gli
Alleati in casa, sarebbe stato controproducente trascinare a lungo quella
situazione interna al partito, per far esporre i suoi contestatori e bruciarli.
Egli quindi contava sulla riconosciuta prudenza e razionalità del Re, che
certamente non si sarebbe spinto a percorre una strada al buio con gli evidenti
pericoli che comportava.
Per quale motivo il sovrano, essendo problematico uscire dalla guerra, avrebbe
dovuto esautorarlo, perdendo ogni possibilità di mediazione con i tedeschi e
innescando invece degli sviluppi politici gravi di conseguenze?
Anzi, in virtù di quelle iniziative internazionali che voleva illustrare al
sovrano, il Duce riteneva probabile che il Re, nonostante tutto, gli avrebbe
rinnovato la fiducia. Un calcolo, quello di Mussolini, non fideistico, ma
razionale anche se si rivelerà errato.
Se infatti si estrapola, da questa strategia, il fatto che gli "altri" giocavano
oramai senza scrupoli su due tavoli, si può capire come essa fosse logica,
opportuna e fattibile.
Come detto, invece, Mussolini ignorava che era in atto un vero e proprio
progetto finalizzato al disimpegno bellico dell'Italia, tramite un ignobile e
criminale tradimento, progetto che prevedeva, preliminarmente, il suo
sollevamento dal governo dopo la sfiducia espressagli dal Gran Consiglio.
Egli pertanto si recò alla seduta del Gran Consiglio, cercando di evitare di
porre tutta la questione sul pericoloso piano della forza e con la segreta
speranza di convincere i delegati fascisti a non votare l'O.d.G. Grandi, ma se
comunque questo O.d.G. fosse stato ugualmente approvato, non essendo quel voto
vincolante, egli avrebbe poi giocato tutte le sue carte con il Re.
Una prova di forza, prima, durante o dopo il Gran Consiglio doveva essere
possibilmente evitata perché controproducente e pericolosa per il paese.
Il pomeriggio del 25 luglio, nonostante gli avvertimenti della moglie, resa
sospettosa dalla richiesta telefonica, pervenutagli da Villa Ada, con la quale
si chiedeva che il Duce si recasse al colloquio con il Re in abiti borghesi,
Mussolini vi si recò ugualmente, ma del resto, sospetti o meno, doveva
giocoforza andare dal Re per cercare di ribaltare la sua situazione.
Oltre alle varie rievocazioni e documentazioni in proposito, anche tutta una
serie di avvenimenti e particolari, storicamente accertati, fanno si che la
semplice logica dei fatti escluda categoricamente le ipotesi fantasiose di
scrittori in vena di sensazionalismo. Per esempio:
- il colloquio di Mussolini con Farinacci, all'alba del 25 luglio, poco dopo che
si era concluso il Consiglio, nel quale il Duce, dopo il voto contrario, gli
preannunciava che forse ci sarebbe stato bisogno di lui "come ai bei tempi".
Questo dimostra come, al limite, Mussolini abbia anche pensato all'uso della
forza, ma questa reazione fu poi quasi subito da lui scartata preferendo puntare
tutto sulla fiducia nel Re;
- la telefonata alla Petacci, sempre all'alba ed alla fine del Consiglio, nella
quale, costernato, la mise in avviso che tutto era probabilmente finito e quindi
sarebbe stato meglio per lei che si mettesse al sicuro;
- il suo muoversi, in quella giornata domenicale del 25 luglio, alla ricerca di
ogni appiglio per ribaltare in un secondo momento la situazione, come per
esempio il gradimento per la lettera che gli arrivò al mattino da Cianetti con
il ritiro del suo voto contrario;
- la moglie, donna Rachele, che lo vide arrivare a villa Torlonia bianco come un
lenzuolo e decisamente preoccupato, ma deciso, nonostante i rischi, ad andare
dal Re per risolvere la situazione.
Già questi elementi fanno escludere decisamente che Mussolini abbia manovrato
sotto banco per agevolare il voto del Gran Consiglio ed uscire di scena alla
chetichella.
Ed ancora:
- il fatto di rallegrarsi per la notizia, pervenutagli in quella giornata, che
il maresciallo Graziani era propenso a mettersi a disposizione del Duce per un
rimpasto allo Stato Maggiore Generale.
- l'incontro che accettò di tenere con il diplomatico Giapponese Hidaka al quale
illustrò la sua strategia politica da riportare al governo di Tokio.
Non erano certo questi i comportamenti di un pre pensionato e ci attestano
invece la volontà di Mussolini di giocarsi ancora certe carte politiche,
contando sulla intelligenza, razionalità e dignità del Re a non gettare il paese
nel baratro.
Maurizio Barozzi
Note:
[1] Il fatto che ci fossero dei piani,
predisposti da certi ambienti militari (generale Carboni), per eliminare
fisicamente Mussolini (difficilmente però questi eroici generali, per il terrore
di una reazione di Hitler, avrebbero consumato il delitto); il fatto che
Mussolini stesse cercando di coalizzare i paesi dell'Asse per annunciare un
Carta della Nuova Europa e cercasse di forzare Hitler a un disimpegno dal fronte
russo (iniziativa certamente non gradita, sulla quale sembra convenivano settori
militari del Reich, ma tutto sommato non così sconvolgente per il Führer); il
fatto che i tedeschi avessero pronta una strategia di intervento per occupare
immediatamente l'Italia in caso di defezione (del tutto ovvia se si considera
che i tedeschi, dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia, paventavano il
collasso militare italiano e del resto operazioni simili erano previste anche
per la Francia di Petain); ed infine la constatazione che Mussolini non fece
nulla dopo che venne arrestato dai carabinieri (nè d'altronde nulla avrebbe
potuto fare), sono tutti elementi assolutamente insufficienti per convalidare
l'ipotesi di un intervento risolutivo di Hitler contro Mussolini.
[2] Scrive R. De Felice: «...Vittorio
Emanuele III era uno dei pochissimi in cui Mussolini nutriva fiducia per il
senso di responsabilità, patriottismo e lealtà verso di lui» R. De Felice
"Mussolini l'alleato", op. cit. Scettico per natura, su gli esseri umani,
Mussolini non si fidava quasi di nessuno, ma non arrivava mai ad immaginare un
ignobile tradimento ai danni del popolo italiano.
È significativo che ancora la sera del 25 luglio, quando si trovava
coattivamente nella caserma dei carabinieri, dove ricevette una subdola lettera
di Badoglio, Mussolini nel rispondergli si disse contento della decisione di
continuare la guerra. Nonostante la logica delle cose avrebbe dovuto far capire
al Duce che il nuovo Capo del governo si sarebbe sicuramente indirizzato verso
il tradimento dell'alleato tedesco, con tutte le conseguenze del caso, Mussolini
non arrivò a concepire che fosse possibile percorrere questa strada gettando la
Patria nella tragedia e il disonore.
Anche in passato Mussolini, pur conoscendo le tante pecche di Badoglio, da
Caporetto ai suoi maneggi con la Massoneria, ritenendo che costui avesse delle
capacità per preparare l'esercito italiano, lo aveva fatto diventare Capo di
Stato Maggiore Generale, mettendogli in mano la conduzione della guerra. Egli
puntava anche sulla ambizione, avidità e venalità del Badoglio, lasciandolo
impinguare oltre ogni limite e sperando in tal modo di metterlo a disposizione
della Patria di cui non pensava mai avrebbe potuto tradirne gli interessi. Ma
Mussolini purtroppo, a differenza di Hitler, non era un esperto in armamenti ed
eserciti e su Badoglio sbagliava doppiamente, sia come capacità tecniche sia
come fedeltà alla Patria.
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