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tratto da "TerraSantaLibera.org", 15 giugno 2009

Link originale : http://www.terrasantalibera.org/LucaFantini_strategia_ahmadinejad_2.htm

 

La strategia del presidente Ahmadinejad

(parte 1)

   
Luca Fantini   
Dottore di ricerca in storia della filosofia
    

 

La vittoria, nelle ultime elezioni iraniane, del Presidente in carica Ahmadinejad dà la possibilità di sviluppare una serie di riflessioni -che se finalizzate anzitutto alla comprensione debbono essere per forza di cose distaccate, per quanto severe, anche rispetto alla politica antirachena attuata dagli iraniani in competizione con gli angloamericani- sull'azione e sulla visione del mondo dello stesso e su eventuali riflessi nella situazione internazionale.
Di fronte a eventi così importanti (una stabilizzazione dell'attuale Presidente persiano per altri quattro anni avrà indubbiamente conseguenze geopolitiche assai pesanti) è assai più importante comprendere piuttosto che tifare "passionalmente".
Ad esempio, la indubbia immutata "simpatia" per Tareq Aziz, eroe cristiano, per il Presidente Saddam Hussein o per lo stesso Arafat non deve impedire di valutare con obiettività, per quel che è possibile, quanto si sta verificando nel Vicino Oriente. Ad una analisi della visione del mondo di Ahmadinejad seguirà una breve disanima dei possibili effetti rispetto alla sua ulteriore affermazione.
Ahmadinejad, se si volesse accettare il criterio identificativo della struttura di potere vigente in Iran dato da osservatori internazionali, [1] è un rappresentante della destra estremista.
Per comprendere l'ascesa di Ahmadinejad è necessario tenere in considerazione il diffuso sentimento di insofferenza della società civile iraniana verso la gerarchia sciita al potere; molto spesso, i persiani identificano i mullah con i privilegi economici che derivano dalla loro carica politica, con la corruzione, con l'imposizione della morale islamica ai costumi e alla vita sociale.
Ahmadinejad è infatti il massimo rappresentante della "nuova elite" che emergeva a Teheran durante gli anni di Khatami, l'elite militare comprendente i pasdaran, i bassiji e tutti coloro che ruotavano attorno alle varie fondazioni rivoluzionarie.
Tale elite, che veniva definita «la seconda generazione di rivoluzionari» per aver forgiato la sua reale identità sui campi di battaglia della guerra contro l'Iraq, non quindi durante il processo rivoluzionario, si faceva in quel periodo portatrice del messaggio della "rivoluzione tradita": in una famosa lettera a Khatami, comandanti pasdaran portavoce della stessa corrente si dicevano assolutamente pronti a «difendere con il sangue» la rivoluzione che aveva ormai, a loro parere, imboccato un binario morto, soprattutto a causa della corruzione del clero. Il petrolio, in tale ottica, teneva in sella gli interessi del gruppo di potere creato dall'Imam Khomeini.
L'oro nero -come ai tempi dello shah- non faceva altro che stabilizzare il controllo oligarchico di una ristretta casta (in questo caso clericale), che se da un lato rafforzava il ruolo dello Stato come distributore di assistenza e sussidi, dall'altro accentuava il distacco tra popolo ed elite. Il passaggio rivoluzionario dalla monarchia alla repubblica non comportava così una effettiva e concreta rottura con il passato dinastico.
In tal senso, il vero messaggio rivoluzionario -ancor meglio, nazionalrivoluzionario- si aveva con l'ascesa di Ahmadinejad. Primo Presidente non appartenente al clero sciita, dopo Bani Sadr, figlio di un fabbro, nasceva il 28 ottobre 1956 a Garmasar.
Ciò che probabilmente doveva radicalmente influenzare la visione sociale e spirituale di Ahmadinejad era l'esperienza maturata durante la guerra Iran-Iraq. L'attuale Presidente iraniano avrebbe partecipato quale volontario nelle forze speciali dei Pasdaran, a talune operazioni oltre le linee nemiche e avrebbe visto di conseguenza morire, come molti iraniani al fronte, tanti dei suoi giovani compagni.
Dico avrebbe in quanto, secondo altre interpretazioni, non avrebbe partecipato affatto ad operazioni oltre le linee, ma si sarebbe limitato a svolgere i due anni di servizio militare. Al riguardo, sostiene comunque Guolo che «è in questa austera comunità di "monaci guerrieri" che Ahmadinejad matura convinzioni, stringe amicizie e relazioni che coltiverà quando abbandonerà il fucile». [2] Questa interpretazione è condivisibile.
Sebbene in Occidente passi l'interpretazione di Ahmadinejad pura appendice di Khamenei, in realtà il Presidente non è affatto un ortodosso continuatore della tradizione del clero khomeinista che fa capo alla Guida.
L'alleanza tra Ahmadinejad e Khamenei è dunque di tipo tattico, non strategico. Lo dimostra la stessa composizione del primo governo Ahmadinejad, insediatosi il 3 agosto 2005, formato in larga parte da rappresentanti di quell'elite militare di cui si parlava sopra: ben 18 erano infatti i ministri che provenivano dalle file dei pasdaran.
«Una volta pasdar, per sempre pasdar», il motto delle Guardie della rivoluzione che ben sintetizza il sentimento di identità spirituale e unità comunitaria nazionalista che tra queste vige. Dai Komitè Pasdaran del '79, oggi conosciuti come Sepah Pasdaran, il nucleo originario, partiva la carriera della maggior parte degli attuali fiancheggiatori e sostenitori di Ahmadinejad.
Quest'ultimo faceva in origine parte del battaglione Al Qods, l'unità delle operazioni speciali. I pasadran sono oggi nel complesso centinaia di migliaia e dalle Guardie della rivoluzione dipendono anche i bassiji. In genere, pasdaran e bassiji appartengono agli strati più poveri della popolazione e sono di conseguenza anche attirati dalle offerte della cosiddetta "economia pasdaran", che possiede società commerciali, banche con prestiti senza interesse, università, centri culturali, ospedali, le varie Bonyad, come la Fondazioni dei martiri.
Sebbene abbia sposato la figlia dell'ayatollah Jannati e sia legato da una sorta di discepolato spirituale con l'ultraconservatore ayatollah Mesbah Yazdi, Ahmadinejad ha attuato in Iran il principio che è il partito "militare" rivoluzionario (non i chierici imboscati), ossia la "comunità del fronte", che ha idealmente raccolto il sacro sangue dei giovanissimi martiri caduti a dover guidare la nazione.
Ahmadinejad si presentava da subito, da quando era sindaco di Teheran, quale "bonificatore", ossia come colui che voleva ripulire la tenebrosa palude che aveva oscurato lo spirito originario della rivoluzione, custodito in verità da quel blocco militare che trasmetteva con la sua stessa presenza la memoria dei "martiri".
Immagine simboleggiata dallo stesso abbigliamento con cui è solito presentarsi, lo shal, il fazzoletto, e gli stivaletti, che i volontari portavano al fronte.
Di fronte a quest'immagine di un Presidente nazionalrivoluzionario (più che dogmatico islamista), si potrebbe ben obiettare che egli dice spesso di ispirarsi al messaggio originario dell'Ayatollah Khomeini. Ma ciò è legittimo e comprensibile alla luce dei processi storici.
Le rotture di paradigma, in vari processi rivoluzionari o presunti tali, si sono avuti proprio operando con la medesima metodologia: basti pensare, per fare solo un esempio, a Stalin, che si richiamava pubblicamente al leninismo mentre in realtà puntava diritto alla realizzazione del «socialismo in un solo paese».
La dimensione mistica e spiritualistica di Ahmadinejad, non è un caso, esce chiaramente dalla tradizione khomeinista anche con il principio del mahdaviat, il ritorno del Dodicesimo Imam, il Mahdi.
Nella visione mutuata da Ahmadinejad sin dalla fine degli anni '70, frutto della sua familiarità con la Hojateh, un'associazione fondata sulla preparazione mistica e spirituale dell'«Atteso», il Mahdi, messa fuori legge da Khomeini nel 1983, ma ritornata alla massima vitalità proprio con l'attuale Presidente, nessun governo, neanche quello khomeinista, risponde alla autentica natura dello sciismo.
Viene così svalutata le legittimazione del potere del clero khomeinista, in quanto il compito principale del potere terreno è accelerare (non sostituire, come fa il clero di ispirazione khomeinista, che in tal senso sembrerebbe allontanare l'urgenza cosmologica del ritorno del Mahdi) il ritorno del Mahdi - ritorno che sarà contrassegnato da dure sofferenze e tribolazioni, ma anche dalla fine escatologica del Regno cosmico dell'Oppressione (che talvolta pubblicamente il Presidente persiano ha definito anche regno dell'anticristo), di cui USA e Israele sono i più potenti strumenti e in tal senso la liberazione palestinese dalla "arroganza" assume, nella concezione escatologica di Ahmadinejad, un significato prioritario.
Il Presidente iraniano ha assai spesso sollevato il problema del ritorno del Mahdi, non solo di fronte agli sciiti.
Parlando ad esempio di fronte alle Nazioni Unite, sconcertava il pubblico presente concludendo il suo intervento con una preghiera che invocava proprio l'"Atteso": «O luminoso e forte Signore, ti prego di accelerare la venuta del tuo supremo depositario, l'Atteso, quell'essere umano di luce pura e perfetto: il solo che riempirà questo mondo di giustizia e pace». Secondo molteplici testimonianze, tornato da New York, Ahmadinejad diceva al suo referente spirituale, l'ayatollah Mohammed Taghi Mesbah-Yazdi, che il suo discorso alle Nazioni Unite aveva prodotto il seguente effetto: «Un membro della nostra delegazione ha raccontato di avermi visto attorniato da una luce quando iniziai l'invocazione conclusiva. Mi sentii compenetrato da questa aura benefica luminosa. Avvertivo che l'atmosfera si mutava di colpo e per circa ventotto minuti i leader di tutti il mondo rimasero come rapiti in sogno. Era come se una mano li trattenesse per ricevere il messaggio della Repubblica islamica».
Si sbaglierebbe ad accusare Ahmadinejad di allucinazione o bizzarria: tale tradizione escatologica non solo appartiene alla spiritualità iraniana, anche pre-islamica, [3] ma veniva tenuta in alta considerazione dallo stesso shah Reza Pahlavi, il quale, tutto tranne che islamista radicale, ricorda una sua esperienza di infanzia nella quale trovandosi a contatto con la morte, veniva miracolosamente salvato dalle benefiche forze spirituali attivate dalla mano santa di Abbas, fratello del martire Hussein e dalla manifestazione reale dell'Imam nascosto, il Dodicesimo. [4]
Grave limite di Ahmadinejad è che -fino ad ora- tale visione escatologica non si è accompagnata ad un antigiudaismo spirituale, ma si è limitata ad una retorica antisionista. Sebbene in Occidente si enfatizzi l'importanza che l'antigiudaismo rivestirebbe nel pensiero di Ahmad Fardid, ad un esame attento la visione di quest'ultimo non esce dall'astrazione naturalistica heideggeriana. È anche vero che per sviluppare una simile via escatologica antigiudaica occorrerebbe una forte familiarità con la misteriosofia dei Padri cristiani.
Un'altra rottura di paradigma con il khomeinismo si ha sul piano del nazionalismo persiano, un nazionalismo assai permeato della dimensione mistica ed universale caratterizzante la visione di Ahmadinejad, collegato nella sfera interna ad una determinata "nazionalizzazione delle masse", con un ruolo dinamico attivo, in tale processo di mobilitazione totale, assegnato anche alle donne.
Ahmadinejad ha immesso a forti dosi -nel tessuto sociale e politico persiano- elementi mutuati dalla tradizione nazionalrivoluzionaria europea. Rilanciando la visione rivoluzionaria e radicalizzandola in senso antiamericanista, antianglosassone ed antisionista, Ahmadinejad persegue il fine strategico di fare dell'Iran un'autentica potenza internazionale. Ma non tanto potenza musulmana, come ambiva ad essere fino alla morte di Khomeini, quanto potenza grande-nazionale, antiamericana ed antisionista.
Una potenza che non mira tanto a "sciitizzare" o islamizzare quanto a imprimere un nuovo assetto geopolitico all'intero Vicino Oriente. Di questa nuova linea nazionalrivoluzionaria fa chiaramente parte la rivendicazione del "diritto al nucleare". La mobilitazione sul tema del nucleare si coniuga, sul piano interno, come si è potuto osservare anche alle recenti elezioni, con un ferreo blocco sociale tra gli elmetti e i mostafazin, ossia i più poveri della popolazione, che hanno ancora accordato la massima fiducia al Presidente nella sua proclamata lotta a sperperi e corruzione.
Il patto sociale di Ahmadinejad è basato su una equa redistribuzione del reddito e su pesanti investimenti finanziati con i guadagni delle esportazioni di gas e petrolio. Per attuare questi obiettivi, il Presidente persiano ritiene che i consumi energetici interni dovrebbero essere sostenuti dal nucleare, non dai guadagni ottenuti dall'esportazione di oro nero e gas, il cui utilizzato è usato per altri fini.
Di conseguenza, le politiche di redistribuzione del reddito sono destinate a ottenere il consenso dei meno abbienti. Significativo che, nella storia recente o meno dell'Iran, i bazarì (la cosiddetta classe media composta soprattutto di mercanti), nelle decisioni politiche definitive, hanno sempre avuto un peso prioritario. Khomeini entrava nelle grazie dei mercanti iraniani da quando, nel 1967, diveniva loro protettore accusando la rivoluzione bianca dello shah di aver mandato in bancarotta molti bazarì.
Subito dopo la presa del potere, impartiva alla Guardia rivoluzionaria l'ordine di non danneggiare le proprietà dei bazarì ed il 29 dicembre del 1980 dichiarava che «la ricchezza è un dono di Dio» [5]. Viceversa, i bazarì hanno sempre visto di cattivo occhio l'ascesa di Ahmadinejad ed ancor più alle ultime elezioni hanno compattamente fatto blocco contro di lui. Nonostante questo, il patto sociale del Presidente non è stato scalfito.
Ahmadinejad, d'altra parte, ha arrestato e placato ma non certamente annichilito la negativa occidentalizzazione che ha sedotto buona parte della società iraniana: significative al riguardo le note feste notturne di Teheran nord dove non sembra mancare niente di quanto prolifera nella decadenza materialista occidentale.
Dunque se il Presidente iraniano è forte del granitico sostegno di soldati e fasce popolari, non potrà mai dormire sonni tranquilli in quanto i mercanti, tradizionale motore della società persiana, non hanno alcuna simpatia per la sua azione e per il suo populismo.
Come una guida rivoluzionaria di altri tempi, Ahmadinejad ha saputo compenetrare perfettamente politica interna e politica internazionale, ha saputo sacrificare completamente la tattica a vantaggio della finalità strategica, ha quasi sempre mantenuto le promesse fatte al suo popolo.
Probabilmente, è stato -di recente- l'unico capo di stato capace di ottenere una massiccia espansione delle proprie posizioni con sacrifici interni minimi o addirittura nulli. Senza tatticismo alcuno, ma esasperando anzi il puro momento strategico.
Del tutto indifferente alle continue minacce riguardo al tanto sbandierato attacco di aria e di mare, su larga scala, verso Teheran, Ahmadinejad rafforzava costantemente le posizioni iraniane in tutto il Vicino Oriente, nell'alleanza strettissima con la Siria, supportando esplicitamente con ogni mezzo l'azione di Hezbollah e Hamas, che frattanto divenivano sempre più (probabilmente sull'esempio mostrato dallo stesso Ahmadinejad) movimenti di liberazione nazionale aperti anche alle componenti patriottiche non islamiste.
La pagina più brutta, e sicuramente non difendibile (almeno da una prospettiva che non sia quella persiana) è stata la linea politica di coopetizione instaurata con gli angloamericani in Iraq, giocata sulle spoglie del glorioso passato patriottico baathista.
Gli attuali leader iracheni sono uomini di Teheran, un'intera classe politica che si formava in Iran negli anni ottanta, le milizie Al Badr e la nuova intelligence sono stati addestrati dai pasdaran e Muqtada Al Sadr passa probabilmente la maggior parte del suo tempo a Teheran.
L'Iran di Ahmadinejad, inoltre, come mostrato dalla recente visita a Teheran di Chavez e come notava un documento del ministero degli esteri israeliano, ha addirittura rafforzato le proprie posizioni in Sud America.
La vittoria di Ahmadinejad è la vittoria di un capo di stato che è comunque sempre stato leale, fino ad ora, verso la Russia. Dunque in prospettiva, è una vittoria filoeuropea.
Putin è stato ospitato a Teheran da Ahmadinejad nel corso di una visita definita storica, in quanto dall'epoca di Stalin nessun capo di stato russo era più entrato in Iran; la costruzione della prima centrale nucleare iraniana è stata completata grazie alla Russia e Sergey Kirienko, il leader dell'agenzia atomica Rosatom, ha promesso di recente all'Iran combustile nucleare (non uranio arricchito) per almeno altri dieci anni.
Da quando si è avuta in Iran la reggenza Ahmadinejad, le forze militari persiane non si sono più fatte coinvolgere nelle strategie geopolitiche angloamericane antirusse quali ad esempio quelle finalizzate alla creazione di "trasversali verdi" in territorio europeo. Durante il recente conflitto russo-georgiano, Ahmadinejad ha plaudito all'azione difensiva russa ed ha denunciato la presenza di moltissimi agenti del Mossad nel Caucaso quali istruttori dell'esercito georgiano e di tutte le forze antirusse ivi operanti.

Infine: se Ahmadinejad riuscirà ad avere facilmente ragione di questo iniziale tentativo di "rivoluzione velluto" partorita con largo anticipo da strateghi americani che si sta verificando sulle strade di Teheran in questi giorni, si potrebbero aprire degli scenari inaspettati.
Non si può dire con certezza se risponde al vero quanto denunciava in diverse occasioni la sorella gemella dello shah: cioè che Brzezinski era il reale artefice della rivoluzione khomeinista.
Allora Brzezinski puntava realmente (e vi riusciva!) a creare una "mezzaluna verde", formata da regimi islamisti radicali, a ridosso del lato meridionale dell'URSS, per accerchiare Mosca impedendole peraltro l'accesso ai mari caldi.
Se la versione della sorella dello shah è, a detta di molti, azzardata o infondata, rimane indubbio il fatto che gli angloamericani iniziavano a scaricare lo shah quando -dall'aprile del 1977 almeno, come indicava chiaramente il convegno di Sciraz- il monarca era ormai determinato a far diventare l'Iran da potenza petrolifera una potenza atomica.
Khomeini viceversa considerava l'atomica un frutto diabolico dell'Occidente. Con Ahmadinejad l'Iran rivendica oggi nuovamente il suo diritto storico e morale ad essere una potenza nucleare.
Se si è svolta negli ultimi anni una intensa guerra da parte dell'intelligence israeliana contro elementi di spicco ruotanti verso Teheran (es. Imad Mugnyeh e Mohammed Suleyaman) o contro siti nucleari (settembre 2007) o missilistici (luglio 2007) siriani dove erano impiegati tecnici iraniani, è anche vero che Israele, giunto ai limiti dell'attacco militare, non disponendo mai del semaforo verde e del supporto esplicito di Washington, ha dovuto rinunciare ai suoi propositi. Vediamo ora invece prendere corpo le strategie giudeoamericaniste di cui si è di recente parlato (Cfr. "Obama al Cairo. L'unipolarismo giudeoamericanista").
È infatti chiaro che si ha il clan Brzezinski dietro ai tentativi di "rivoluzione vellutata" che, sul modello delle varie rivoluzioni colorate, sta tentando di delegittimare anzitutto all'interno il Presidente Ahmadinejad.
Vi è quasi certamente la medesima regia dietro i vari attentati verificatisi in Iran negli ultimi mesi nelle zone di confine con il Pakistan e con l'Afghanistan, come a Zahedan.
D'altra parte, le correnti radicaliste sioniste sembrano voler giocare la carta russa.
Gli israeliani, sentendosi per la prima volta abbandonati "strategicamente" -già in passato comunque, non a caso, quando Brzezinski era un influente consigliere di Carter, si avevano momenti di tensione ai limiti della rottura tra Usa e Tel Aviv- hanno mandato il loro ministro degli esteri Lieberman a San Pietroburgo per proporre a Putin quegli aerei automatici senza pilota che nel recente conflitto russo-georgiano, in dotazione all'esercito georgiano, hanno abbattuto diversi aerei con pilota russi.
Una richiesta simile, rivolta a un nemico strategico storico del popolo ebraico (come insegnano Soros e Andrè Glucksmann), come la Russia, denota che il progetto sionista sta correndo disperatamente contro il tempo.
E in questa partita, elemento da notare, fedele alla sua apparente assenza di strategia, che è, come è risaputo, una scuola storica e militare ben precisa, una strategia priva di strategia, quale volontaria, paziente, esasperazione del momento tattico, la Cina sembra rimanere dietro l'angolo.
Il tempo, in conclusione, lavora a favore di Ahmadinejad. Se il Presidente iraniano ha già organizzato una solida difesa interna contro le tecniche tipiche, certamente assai aggiornate, delle suddette rivoluzioni colorate e delle destabilizzazioni interne, molto più che contro un eventuale attacco militare, il suo radicale offensivismo strategico continuerà la via della puntuale realizzazione degli obiettivi prefissati.
 

 

NOTE:

 

[1] Cfr. W. Buchta, "Who rules Iran? The structure of Power in the Islamic Republic", Washington 2000.
[2] R. Guolo, "La via dell'Imam. L'Iran da Khomeini a Ahmadinejad", Roma-Bari 2007, pag. 113.
[3] Sia detto brevemente, poiché il discorso non può essere affrontato in questo contesto, ma va precisato che alcuni autori sciiti (fra i quali Kamal Kashani e Haydar Amoli) identificano esplicitamente l'Imam atteso con il Paracleto, la cui venuta è annunciata dal Vangelo di Giovanni a cui essi fanno riferimento. L'avvento dell'Imam-Paracleto inaugurerà il Regno del puro senso spirituale degli archetipi primordiali, e cioè della vera religione che è la perenne walayat. Ecco perché il regno dell'Imam preannuncia la Grande Resurrezione. H. Corbin, "Storia della filosofia islamica", Milano 1991, pag. 85; P. Filippani Ronconi, "Zarathustra e il mazdeismo", Roma 2007, pp. 55 e sgg.
[4] Mohammad Reza Pahlavi, "Risposta alla storia. Il testamento politico e morale dello Shah", Milano 1980, pag. 42.
[5] F. Sabati, "Storia dell'Iran", Milano 2003, pag. 166.

 

La strategia del presidente Ahmadinejad

(parte 2)


Il miglior modo per comprendere quanto sta avvenendo in Iran è non immaginare in modo uniforme, ossia quale blocco monolitico, gli schieramenti che si sono fino ad ora affrontati.
Ciò che va anzitutto compreso è che uno scontro interno, quale è quello che contrappone per ora i due modelli principali, si gioca alla luce di un più ampio scontro internazionale. In tal senso, questo articolo è una continuazione del precedente che ho dedicato alla strategia del Presidente Ahmadinejad (terrasantalibera.org-parte prima) e vorrebbe anche mostrare che se di tentata rivoluzione colorata si può parlare in Iran, nondimeno essa si basa su una tattica operativa di uno staff strategico (che mi sono sentito in dovere di identificare da tempo nella grandiosa genialità strategica dinamica del clan Brzezinski , unipolarista e giudeoamericanista, non vagamente mondialista come si ripete superficialmente da più parti) che ha studiato e analizzato sin nei minimi particolari tutte le possibilità insite nei movimenti delle varie pedine presenti sulla scacchiera del loro attuale banco di prova, l'Iran.

Abbiamo anzitutto entro l'Iran la riaffermazione, in veste riformistica-sovversiva, del "modello cinese". Bisogna partire dal 1987 almeno, data che simboleggia la dissoluzione interna del Partito repubblicano islamico, a causa della conflittualità interna tra destra e sinistra. Da questa dissoluzione nascevano la Associazione del clero militante (Jame- e- ruhamiyat- e mobarez, fondata nel 1978 rimane inattiva fino all'87) e la Società del clero combattente, che avrebbero rispettivamente continuato la linea della destra tradizionale e dell'islam rosso o di sinistra. Data la rapidissima fluidità dei conflitti ideologici o di potere presenti in Iran, risulta impossibile schematizzare in categorie prefissate le varie correnti o fazioni, nondimeno esistono delle linee guida, ideali o di potere in quanto si raccolgono attorno ad una figura carismatica o ad una personalità dell'elite, che debbono assolutamente essere considerate. È il caso ad esempio della destra pragmatica, nata proprio attorno alla figura di Rafsanjani, in conseguenza della sua reticolata tessitura di potere e delle sue politiche di modernizzazione. [1]
Durante i due mandati di Khatami si assisteva ad una radicale polarizzazione tra le due correnti: da una parte si aveva la fazione riformista, il Fronte del 2 Khordad (che comprendeva la sinistra islamica, varie correnti centriste, movimenti come ad esempio quello delle femministe islamiste e la stessa destra pragmatica di Rafsanjani) e dall'altra la fazione dei conservatori, che era piuttosto disomogenea, ma comprendeva comunque esponenti della cosiddetta "destra fondamentalista" o estremista o "nuova destra", radicalmente antiamericana e antioccidentale in genere, l'ambiente dal quale proveniva lo stesso Ahmadinejad, khomeinisti ortodossi (destra tradizionale che faceva capo alla Guida Suprema) e militari ultra-nazionalisti ostili alle riforme in quanto sinonimo -ai loro occhi- di occidentalizzazione.
Rafsanjani, partendo dal principio che per modernizzare l'Iran fosse necessario avviare in primo luogo la modernizzazione della sfera economica, si sentiva sostanzialmente vicino al fronte riformista. Durante le proteste studentesche del luglio 1999, pur criticando da destra il fronte riformista, tentava ancora di giocare il ruolo di grande mediatore tra riformisti e conservatori.
Nella campagna elettorale del 2000, però, si verificava un evento che avrebbe cambiato il destino del fronte di Khatami. I settori più progressisti tra i riformisti guidati da Akbar Ganij davano il via ad una durissima campagna di stampa contro Rafsanjani, che accresceva la sua disistima tra la popolazione iraniana e gli impediva la rielezione. La guida dei conservatori pragmatici (o destra pragmatica) finiva così per riavvicinarsi gradualmente allo schieramento conservatore della destra tradizionale capeggiato dalla Guida Suprema, che avrebbe conseguentemente portato ad una neutralizzazione sempre più accentuata del fronte riformista.
Lo scontro che si gioca ora in Iran si protraeva in fieri da anni, almeno da quel 24 giugno 2005 che consacrava Ahmadinejad Presidente della Repubblica Islamica con il 64% di preferenze contro il 36% ottenuto proprio da Rafsanjani, che veniva indicato alla vigilia come il grande favorito. Il fronte pragmatico di Rafsanjani aveva condotto una campagna elettorale basata sulla promessa, in politica interna, della crescita economica, su migliori standard di vita, su uno stato autoritario servizievole e collaborativo verso la Guida Suprema ed in politica estera, invece, propugnava la necessità di arrivare ad una distensione delle relazioni con gli USA. Da allora si parlava con fondatezza di Rafsanjani quale massimo rappresentante di una via cinese per l'Iran.
Il modello cinese adattato alla società iraniana era la risposta teorica che, già dal 2001, i conservatori pragmatici (non quindi i riformisti guidati da Khatami) davano rispetto alle sfide strategiche che si delineavano all'orizzonte nel quadro internazionale. I conservatori pragmatici, proponendo la via cinese, intendevano e intendono differenziarsi dal fronte nazionalrivoluzionario della destra estremista o nuova destra (il fronte di Ahmadinejad), dall'immobilismo dei conservatori religiosi della destra religiosa tradizionale (il fronte della Guida Suprema, l'ayatollah Ali Khamenei), dagli stessi riformisti moderati, sinistra islamica o centro, con cui spesso una superficiale analisi critica occidentale li confonde. Come i riformisti moderati, i conservatori pragmatici basano la loro proposta strategica sul presupposto della perdita di legittimità della rivoluzione islamica, ma a differenza dei riformisti moderati non vogliono un mutamento di regime ed una risistemazione totale degli equilibri di potere, bensì l'affermazione di un nuovo quadro tattico finalizzato in primo luogo alla modernizzazione economica, istituzionale, che si accompagni ad una prospettiva di consumi, profitti e continui benefici economici.
Se il processo di modernizzazione promosso e sostenuto da Ahmadinejad è, come scrivevo, improntato ad un radicalismo nazionalista grande-persiano estraneo assolutamente alla tradizione ortodossa khomeinista, tutto caratterizzato dalla volontà di fare dell'Iran una potenza internazionale temuta e rispettata -disposta certamente in questo senso allo scontro con l'Occidente o con Israele- e fondato sul blocco tra militari nazionalisti rivoluzionari e le fasce urbane e rurali popolari economicamente più umili, il processo di modernizzazione promosso dai conservatori pragmatici (gli strateghi interni della cosiddetta "onda verde") si fa interprete soprattutto dei desideri e della volontà della borghesia del bazar, dei tecnocrati e di una parte dei manager delle varie industrie di produzione energetica. La modernizzazione è proposta in senso propriamente "capitalistico", rispetto alla ascesa della economia iraniana da industriale a post-industriale, è intesa in senso di accesso esteso ai consumi e deve essere accompagnata ad una politica estera caratterizzata dal forte dominio del momento tattico e diplomatico rispetto a quello forte, strategico.
Anche in questo caso si noti la differenza circa il concetto di modernizzazione con i riformisti puri, che darebbero un taglio più "democratico", fondato sui diritti dell'uomo e sulla stessa retorica femminista, pur sempre in un quadro islamico. Ma si tenga bene in mente che questo processo di modernizzazione per i pragmatici conservatori- non deve avvenire con una fuoriuscita dal legittimo potere politico e dal tradizionale quadro della Repubblica Islamica. Una tale prospettiva metterebbe fuori gioco lo stesso Rafsanjani, la figura più carismatica e abile del fronte conservatore-pragmatico. Si tenga anche presente che non è in discussione la partita di potenza geopolitica e regionale che l'Iran sta disputando, nucleare incluso. Questo va compreso.
Sebbene, come ormai acclarato il progetto dell'onda verde sia sorto in larga parte sull'esempio e sulla prassi della rivoluzioni colorate, non ci possiamo spiegare le migliaia di contestatori sulle strade di Teheran se non alla luce di un progetto strategico di ampio respiro fondato sulla centralità di un programma di potenza iraniano. Chi conosce il popolo iraniano (e le menti raffinate di Washington e Londra ben lo conoscono), chi ha chiaro il tradizionale orgoglio persiano, sa bene che giocare esplicitamente la carta della mera occidentalizzazione, dei diritti umani e della apertura ai consumi, sarebbe stato il modo migliore per bruciare immediatamente la protesta. Ciò che Rafsanjani ed i suoi luogotenenti mettono invece in discussione è il radicalismo mistico, la dottrina sociale fortemente antiplutocratica ed anticapitalistica, la politica estera contrassegnata da un forte avvicinamento a Cina e Russia declinato in senso antioccidentale, l'azzardo strategico militarista, considerato a torto dai pragmatici conservatori come una forma di ingenuo avventurismo, che ha caratterizzato la reggenza Ahmadinejad.
Modello cinese dunque in quanto capace di conciliare priorità del dominio politico, conservatore autoritario, e forte ascesa economica capitalistica, che sarebbe garantita dalle naturali risorse dell'Iran, con una politica internazionale contrassegnata dalla Realpolitik e dalla possibile estinzione di ogni conflittualità latente con l'Occidente. Rafsanjani non solo ha forti legami con il bazar per eredità e tradizione familiare, ma gode anche di una grande considerazione a Qom. Proprio a Qom, nel Vaticano dello sciismo, dove risiedono vari membri dell'Assemblea degli Esperti, Rafsanjani si è recato spesso sia prima sia dopo la gara elettorale. Egli è stato capace di incassare il consenso e il supporto di grandi ayatollah sciiti, non solo di Ali al- Sistani, massima autorità sciita in Iraq, ma anche di Yousef Saanei, che risiede a Qom, definito il "Papa sciita".
Viceversa, rispetto alle mobilitazioni di piazza di questi giorni, Assadollah Badamshian, capo della Motalefeh, la Coalizione islamica, fondata negli anni '60 sotto la direzione di Khomeini (la Coalizione è un influente raggruppamento della destra religiosa in contatto con la Guida, che ha al proprio interno mullah conservatori ed importanti famiglie dei bazarì che hanno finanziato la rivoluzione islamica ed hanno poi occupato rilevanti posti nella repubblica islamica), ha preso fortemente le distanze da Rafsanjani, in quanto, secondo la sua visione, si sta facendo strumento di un attacco che proviene dall'Occidente: una rivoluzione di velluto promossa dai nemici dell'Iran. Va considerato che la Motalefeh, per quanto si rimetta alla volontà di Khamenei, non ha mai visto di buon occhio l'ascesa di Ahmadinejad e nel 2005, nel ballottaggio, appoggiava Rafsanjani, non Ahmadinejad. In questo quadro che ho cercato sommariamente di delineare si muovono a loro volta le strategie internazionali più ampie.
Se Russia e Cina, per motivazioni diverse, si sono comunque affrettate a riconoscere la legittimità delle elezioni e soprattutto la Russia, tramite Medvedev, ha sponsorizzato più di ogni altro paese la causa di Ahmadinejad, dall'altra parte si assiste chiaramente ad una contrapposizione tattica, tra sionisti ed americani con Londra che questa volta agisce di concerto con Washington, per quanto finalizzata ad un medesimo disegno: l'annientamento di Ahmadinejad e della forza militare patriottica persiana. [2]
È indifferente a questo punto, per gli angloamericani e per gli stessi sionisti, la continuità della repubblica islamica. Non è la repubblica islamica il problema. Forse non lo è mai stato. Rafsanjani, ad esempio, potrà essere utilizzato anche in senso antirusso ed allora difficilmente si continuerà a parlare dell'atomica in Iran come più grande problema universale. Non è l'antiamericanismo radicale il punto strategico che regge la coalizione della destra pragmatica di Rafsanjani.
Il problema fondamentale -è ormai chiaro- è che il coerente patriottismo rivoluzionario del Presidente Ahmadinejad è pervaso da un irriducibile misticismo tipicamente persiano e al tempo stesso universale e da un disegno strategico radicalmente anti-angloamericano e di conseguenza russofilo.
Con grande lungimiranza di prospettive, a differenza del Mossad che ha subito colto la palla al balzo per fomentare agitazioni terroristiche in fondo controproducenti, come ad esempio l'attentato al mausoleo dell'ayatollah Khomeini (20 giugno 2009), [3] il clan Brzezinski, dopo aver preparato il terreno per sedizioni interne finalizzate alla delegittimazione del Presidente persiano, ha seguito con apparente distacco gli eventi, manifestando una sostanziale quando poco credibile indifferenza rispetto alla eventuale vittoria di un Ahmadinejad o di un Moussavi. Se i politici di professione, negli USA, contestavano Obama per la sua condotta sull'Iran, un vecchio stratega dell'unipolarismo giudeoamericanista quale Henry Kissinger giudicava positivamente l'astuta condotta del presidente americano sui fatti iraniani. In questo caso specifico, Londra sembrerebbe aver agito di concerto con Washington, più che con Tel Aviv, promovendo dall'interno la contestazione (squadre terroristiche addestrate in Iraq dai servizi segreti anglosassoni entravano in azione al centro di Teheran quando le manifestazioni pacifiche andavano esaurendosi) e dall'esterno attaccando costantemente il Presidente persiano con i vari mezzi propagandistici e rifiutando invece di colpire con azioni eclatanti i simboli della nazione (tattica operativa usata fino ad ora dal Mossad).
Certamente, il quadro successivo alla vittoria elettorale di Ahmadinejad non è stato luminoso per un qualsiasi seguace iraniano del Presidente ma all'insegna della destabilizzazione e dell'insicurezza continua. Consideriamo però ciò che in fondo tutta l'opinione pubblica mondiale anti-Ahmadinejad auspicava. Ebbene, questo non si è verificato affatto. Né l'esercito, né tanto meno i Bassiji -i nuovi squadristi persiani, secondo un'identica corrente di pensiero che comprende B.H. Levy, i radicali e l'estrema sinistra no-global- hanno perso il dominio dei caotici eventi. Non hanno compiuto alcuna strage stile Tienanmen, nonostante all'origine delle proteste vi siano state azioni terroristiche proprio contro di loro, con morti e feriti. Non hanno affatto abbandonato i fucili unendosi alle proteste, come si ventilava da più parti. Sarà in seguito sicuramente fatta luce sul caso più eclatante: la morte della giovane Neda, e si avrà modo di constatare che anche in questo caso la regia è stata probabilmente esterna. In definitiva, forze armate persiane e Bassiji hanno fino ad ora fatto doverosamente rispettare l'ordine pubblico, con serietà e con grande spirito patriottico, come è loro compito. Con grande pazienza e autodominio, si potrebbe anche dire, visti gli atti di teppismo gratuito che hanno colpito costantemente Teheran dopo le elezioni.
In questa chiave, un tentativo di complotto golpistico giudeoamericanista (con il fondamentale supporto di Londra) anti-Ahmadinejad e filo-Rafsanjani ha finito per rafforzare il potere interno del Presidente. Questo perché? È bene andare un attimo indietro negli anni.
La Guida Suprema si rivolgeva infatti agli ambienti militari ed alle forze di sicurezza dal 1997, cercando di fermare in tal senso l'avanzata riformista. Nominava allora ai vertici dei Pasdaran ufficiali che avevano un orientamento conservatore ed antiriformista. Gradualmente, le forze di sicurezza e i militari hanno guadagnato un sempre più forte spazio politico. Dalla definitiva legittimazione di questo spazio politico derivava l'ascesa di Ahmadinejad. L'attuale Presidente persiano era infatti uno dei fondatori di Isargan ed uno degli esponenti di maggior rilievo della coalizione Abadgaran Isargan ("i sacrificati per la rivoluzione") e Abagardan sono organizzazioni che hanno la medesima piattaforma politica, composte in larga parte da militari, mutilati e veterani di guerra, familiari di martiri del conflitto Iran Iraq ed ex comandanti dei Pasdaran che dalla fine degli anni '90 ad oggi hanno assunto sempre più peso politico nella società iraniana, fino ad essere definite la guida del movimento rivoluzionario ultra-conservatore.
Il termine "rivoluzionario conservatore" mi sembra più corretto rispetto al termine ultra-conservatore (che anche l'analista iraniano Amir Mohebbin dà a questo movimento) che andrebbe applicato invece, a mio avviso, alla corrente della destra religiosa tradizionale facente capo alla Guida Suprema. Nel dicembre 2004 si aveva infatti una fondamentale rottura tra gli ultra-conservatori (la vecchia guardia khomeinista ortodossa) e il fronte che ho appena definito "rivoluzionario-conservatore". Mentre la vecchia guardia khomenista aveva allora il punto di riferimento in Ali Lariani, i rivoluzionari conservatori (il partito degli elmetti) si riferivano soprattutto all'ex capo della polizia Qalibaf, mentre una componente minoritaria militava già a favore di Ahmadinejad.
Quando si arrivava al ballottaggio del 2005, tutto il fronte rivoluzionario conservatore si schierava con Ahmadinejad. Isaragan annunciava il proprio sostegno ad Ahmadinejad in questi termini: "Certamente sosterremo con fermezza Mahmoud Ahmadinejad, un candidato che rappresenta il simbolo della giustizia e dell'onestà, nelle parole e nelle azioni e che onorerà i nostri doveri nazionali e religiosi".
Da allora, il partito nazionalrivoluzionario degli elmetti, che estendeva il suo peso nelle istituzioni parastatali, nello stato-ombra, originariamente strumento di protezione del potere del clero, nelle stesse Fondazioni, si identificava quasi totalmente con la visione del mondo e l'azione del Presidente Ahmadinejad. Il clero di stretta osservanza khomeinista, viceversa, ha fatto quasi totalmente blocco contro Ahmadinejad.
Nel precedente articolo ho parlato di un'alleanza tattica, più che strategica, tra la Guida Suprema ed il Presidente Ahmadinejad. Tutti questi elementi che ho brevemente esposto, indicano chiaramente che è Ahmadinejad, molto più della Guida, in una posizione privilegiata. I Pasdaran ed i Bassiji, prescindendo dagli elementi formali, rispondono in sostanza al Presidente, molto più che alla Guida.
Per gli elmetti in generale, ma in particolare per i Bassiji, Ahmadinejad è un eroe, una guida ed un esempio. È un uomo umile, semplice, senza pretese, che sembra realmente aver consacrato la sua vita alla causa della rivoluzione e alla sovranità della patria. La sfida del nucleare lanciata da Ahmadinejad è probabilmente diversa da come l' avrebbe sviluppata un Rafsanjani. È la sfida strategica -che sembra annichilire ogni mediazione politica e diplomatica- [4] di chi, con tale strumento, vuole ridare voce alla millenaria spiritualità del suo popolo, rientrando attivamente, di diritto, tra le grandi potenze. Non a caso molti osservatori hanno già definito il periodo Ahmadinejad come contrassegnato dal percorso della "militarizzazione della politica". Tutti questi elementi lo rendono particolarmente popolare e lo fanno amare dal "popolo dei bassiji" e dai militari in genere.
Per tutti questi motivi, infine, mi sembra più corretto parlare del Presidente Ahmadinejad come di un "rivoluzionario conservatore" piuttosto che di un ultra-conservatore.
E probabilmente, tutta l'intellettualità giudaica e le forze del materialismo internazionale mobilitate contro di lui, tutte queste forze che si organizzano capillarmente contro un processo rivoluzionario che vorrebbe comunque assegnare un ruolo centrale all'elemento spirituale e eroico si augurano, del resto, che è solo per un tragico scherzo del destino che questo rivoluzionario-conservatore nasceva il 28 ottobre in un piccolo villaggio della Persia più profonda. Peraltro: un figlio del fabbro..

 

NOTE:

[1] W. Buchta, "Who rules Iran? The structure of Power in the Islamic Republic", Washington 2000, pp. 11-20.
[2] Nessuno ha notato che nel corso delle due campagne elettorali che ha affrontato, il Presidente Ahmadinejad quando introduceva il tema della politica estera, basando tutto il concetto sul motivo della sovranità nazionale e dell'orgoglio persiano, sosteneva che dovere della diplomazia iraniana è basarsi sulla necessità di buoni rapporti con tutte le nazioni sulla base del reciproco rispetto secondo un ordine che contempla in primo luogo tutti i paesi che un tempo appartenevano all'antico Impero Persiano.
[3] Particolare interessante, al riguardo, il MOSSAD respinse una richiesta in questo senso dell'allora premier iraniano S. Bakhtiar, rifiutandosi di uccidere Khomeini: Cfr. http://ilsecoloxix.ilsole24ore.com/p/mondo/2009/06/24/AMqadFhC-uccidere_ayatollah_khomeini.shtml
[4] Significativo al riguardo, circa due anni fa, il sequestro di un reparto della Marina anglosassone che aveva violato la spazio navale iraniano, quando tutto il mondo dava per imminente un attacco militare antiraniano.

 

Luca Fantini   
Dottore di ricerca in storia della filosofia