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Morte Mussolini:

la testimonianza di Dorina Mazzola di Bonzanigo

Maurizio Barozzi   
 
da "Rinascita",
23 maggio 2009

 


I lettori che su queste pagine hanno seguito la nostra controinformazione sulla inattendibile "storica versione" di Walter Audisio, inerente l'assassinio di Mussolini e della Petacci, avrebbero forse desiderato che esponessimo anche una nostra ipotesi alternativa su come si sono verificate quelle vicende. Il fatto è che riteniamo sia inutile e dannoso cimentarsi nella formulazione di ipotesi alternative. Inutile perché, allo stato attuale delle conoscenze, non si hanno elementi di prova concreti ed oggettivi per attestare un diverso svolgersi degli avvenimenti o magari ipotizzare i nomi dei possibili uccisori e dannoso perché ogni ipotesi avanzata che non sia pienamente comprovata risulta controproducente, specialmente quando questa ipotesi è oltremodo fantasiosa e inattendibile come, per esempio, fu il caso della spy-story di Giovanni Lonati e del suo capitano inglese John (vedi "Rinascita" 15 agosto 2008, M. Barozzi: "La spy-story di Giovanni Lonati e del capitano John").
Tuttavia vogliamo fare una eccezione, presentando una testimonianza di alto valore storico, che da oltre un decennio ha retto alla critica ed alla verifica che voleva sminuirla. Una testimonianza che noi, fino a prova contraria, riteniamo attendibilissima.
Nei primi mesi del 1996 un teste oculare, residente nel 1945 a poco più di un centinaio di metri da casa De Maria a Bonzanigo, lì dove erano stati nascosti Mussolini e la Petacci, rilasciò a Giorgio Pisanò ("Gli ultimi cinque secondi di Mussolini", Il Saggiatore, 1996), una sconvolgente testimonianza sulla morte di Claretta Petacci e indirettamente anche su quella di Mussolini.
Questa testimonianza venne anche rilasciata al giornalista Mario Lombardo di "Epoca".
Lo shock per l'ambiente storiografico "resistenziale" fu devastante, tanto che si cercò di non dare peso, nei limiti del possibile a questo avvenimento.
Quando, nel 2001, Dorina Mazzola, il teste di Bonzanigo, è morta, la stampa ha pubblicato qualche trafiletto di cronaca, ma poi tutto è tornato come prima anche se, da allora, quasi tutti i resoconti o le ipotesi su le vicende della morte del Duce non hanno potuto prescindere da questa testimonianza. Ecco, come il quotidiano "La Stampa" il 26 aprile 2001 ha riportato la notizia della scomparsa della signora Mazzola: «Milano - È morta, a 75 anni, alla vigilia della ricorrenza della Liberazione, Dorina Mazzola, che affermò di essere stata testimone dell'uccisione di Claretta Petacci il 28 aprile del 1945. Dorina Mazzola (...) lascia il marito e tre figli. Divenne famosa, come testimone oculare dei fatti, per il libro-inchiesta "Gli ultimi cinque secondi di Mussolini" di Giorgio Pisanò, lo scomparso parlamentare del MSI-DN e storico della RSI (...) [segue un breve riassunto del libro, N.d.R.] La versione della partigiana [non è esatto la signora non è mai stata una partigiana, N.d.A.], che a quei tempi aveva 19 anni, creò polemiche e anche richieste al Governo di aprire gli archivi dell'ex-PCI per fare chiarezza».
Ma che negli ambienti resistenziali lo shock di questa testimonianza fosse stato notevole lo riscontriamo dal "Corriere della Sera" del 3 marzo 1998 dove venne riportato:
«Commenta lo storico Giorgio Cavalleri, autore di "Ombre sul lago": "La testimonianza di Dorina Mazzola mi sembra fragile e contraddittoria. Comunque, la discussione sull'ora della morte di Mussolini ha scarso rilievo storico: più che altro serve ad accusare i partigiani di aver alterato la realtà"».
Se un importante giornalista storico come il Cavalleri, dopo due anni, contestava la testimonianza della Mazzola, ma senza confutarla e con un "mi sembra", non rendendosi conto che gli orari spostati al mattino da quella testimonianza cambiano le modalità di morte, i motivi di queste uccisioni (Petacci compresa), i nomi degli attori in opera, svelano il falso pomeridiano di una finta fucilazione a Villa Belmonte e dimostrano che si è vergognosamente coperto tutto per 50 anni, vuol dire che non si sapeva più cosa dire.
Oggi, a 13 anni di distanza, ancora nessuno è riuscito a demolire la testimonianza di Dorina, anzi più passa il tempo e più si è convinti della sua veridicità. Un giornalista imparziale quale lo scomparso Alfredo Pace nel suo libro "B. Mussolini C. Petacci" (Greco & Greco 2008) ha affermato: «È una testimonianza che va creduta fino in fondo, senza dubbio, a parte forse qualche particolare sugli orari o sulle persone viste, ma non sulla sostanza».
Detto questo è comunque doveroso porsi le solite domande: è Dorina Mazzola un teste attendibile? È credibile il suo racconto? Noi rispondiamo affermativamente e ne esponiamo i motivi.
Intanto cominciamo con il rilevare che la signora Mazzola non è un soggetto di "parte", politicamente impegnato, tale da avere avuto un interesse ideale o politico per fornire una mendace versione. Si era in presenza, invece, di una semplice signora dell'età di 70 anni che, all'epoca dei fatti, aveva solo 19 anni. Quindi, precisato questo, dobbiamo poi rilevare:
1. Dorina Mazzola aveva abitato a poco più di cento metri a valle della casa dei contadini De Maria ed è già questo, di per sé stesso, un elemento di enorme rilevanza. Ma la testimonianza della signora è stata anche attestata dai suoi famigliari (figli e nipoti) che ne conoscevano il segreto. Una sua nipote la confermò anni dopo ad un programma Rai Tv, mentre nel 2008 la figlia primogenita Albertina Vanini, che conserva le bozze dei fogli autografi della madre con la ricostruzione di quegli eventi e che aveva sempre sentito quelle storie anche dal nonno materno, ha avuto modo di confermare quei racconti, al "Corriere di Como" e alla TV Espansione di Como, aggiungendo il particolare che, tanti anni addietro a sua madre, per intimidirla, avevano anche gettato una bomba a mano in casa, sia pure disinnescata.
2. Resta difficile poter pensare che il complesso racconto della signora Mazzola, fuori da ogni canovaccio conosciuto per quegli eventi, sia frutto di mitomania. È impensabile che la signora abbia potuto montare (anche se aiutata) un tal genere di storia. La teste, inoltre, cita troppi particolari, troppi nomi di concittadini coevi, troppe dinamiche dei fatti, che oltretutto reggono anche ad una critica ragionata e soprattutto hanno avuto riscontri nei recenti rilievi fatti sul materiale cine fotografico, inerenti le ferite e il vestiario indosso ai cadaveri del Duce e della Petacci, per pensare a qualcosa di artefatto o frutto di mitomania. Certamente alcuni elementi nella sua testimonianza erano conosciuti, ma da qui a ipotizzare che, attraverso la possibile conoscenza di questi particolari (non tutti poi molto noti), la Mazzola abbia potuto mettere in piedi (o gli sia stato suggerito) quel racconto, ce ne corre; forse è possibile che vi abbia aggiunto, a posteriori, qualcosa di suo come, per esempio, le troppe precisazioni sugli orari, o qualche "coloritura", ma questo non inficia la sostanza della testimonianza.
3. Escludiamo che la signora Mazzola possa, a freddo, aver inventato il suo racconto preventivandone un lucro. In via teorica potrebbe forse essere avvenuto il pagamento di un compenso per l'esclusiva (il fatto che il settimanale "Epoca" venne dalla signora invitato a non pubblicare l'intervista appena rilasciata al Lombardo fa infatti pensare che era stata ceduta una esclusiva), ma questo, se pur fosse vero, non vuol dire nulla e semmai attesterebbe una genuinità del racconto, perché sarebbe stupido "vendere" una versione sapendo che è falsa e rischiando, una volta scoperto questo falso, di dover risarcire i danni.
4. Devesi infine escludere che il Pisanò abbia sottilmente manipolato e imbeccato questa signora, perché dovrebbe supporsi che lo stesso avrebbe consegnato alla signora un canovaccio da imparare a memoria e riscrivere di suo pugno (ci sono i fogli scritti e conservati dal teste) estendendo il racconto ai familiari. Ma elemento, questo decisivo, c'è oltretutto da rilevare che soltanto un imbecille, sia esso Pisanò o altro misterioso "suggeritore", poteva azzardarsi a manipolare una signora di 70 anni ed i suoi famigliari, ovviamente pagarla e con il rischio, anzi la certezza di essere smascherato di li a pochi mesi e rendersi ridicolo!
Senza considerare i rischi di una denuncia per falso sporta da qualcuno dei tanti nominativi chiamati in causa dalla signora e/o dallo stesso Pisanò nel suo libro. Ne citiamo alcuni:
- Savina Santi (la vedova di Guglielmo Cantoni, Sandrino uno dei due guardiani del Duce in casa De Maria), per aver riportato confidenze del marito (e da lei custodite in segreto per 50 anni), nonchè per la conferma di un memoriale poi sparito stilato dal marito e affidato all'ex sindaco di Gera Lario, Giuseppe Giulini.
- Don Luigi Bianchi e la signora Adriana Scuri di Gera Lario per le attestazioni di confidenze avute del sindaco Giulini e per la conferma che questi conservava il memoriale, della cui esistenza afferma anche il notaio Rodolfo Casnati di Como ed inoltre lo stesso erede del Giulini, il sig. Ugo Tenchio che pur ne era al corrente. Proprio la plurima conferma dell'esistenza di questo memoriale che alla morte dell'anziano Giulini non è poi venuto fuori, quindi il fatto che "qualcuno" o qualche "istituzione" l'abbia dovuto far sparire, è decisiva per la conferma che pur esiste un "altra verità" da non rendere pubblica!
- I vari partigiani del posto nominati dalla Mazzola come anche il signor Gilardoni, residente nelle vicinanze di casa Mazzola e citato dalla signora per averlo incontrato verso le 15 di quel giorno fatidico, ricevendone importanti informazioni.
- Il sig. Vanotti, ex amico del Cantoni (Sandrino) per le indicazioni, ricevute a suo tempo dal Cantoni stesso, su dove fu esattamente ucciso il Duce (il cortile di casa De Maria).
Volenti o nolenti, si deve quindi digerire questa testimonianza anche perché, come già accennato, svariati riscontri, fin dove è possibile farli, l'hanno sempre sostanzialmente confermata!
Recentemente sul giornale on line "la provincia di Como" il giornalista Antonio Marino, in una nota ad una lettera ricevuta in redazione, ha avuto modo di ricordare quanto segue: «A suo tempo, ebbi modo di conoscere e intervistare Dorina Mazzola e il suo racconto mi parve, come parve a Pisanò, quantomeno sincero e totalmente disinteressato. Cosa che non si può dire di altre versioni sulla morte di Mussolini».
Comunque sia il racconto di Dorina Mazzola non indica, nè svela chi furono i giustizieri del Duce anzi lei, al momento dei fatti, non sa neppure che quello che sta osservando dalle finestre di casa sua riguarda Mussolini o la Petacci; lo dedurrà solo successivamente quando ebbe modo di uscire di casa ed apprendere altri particolari.
Ma chi sia quel morto trasportato a braccia, quella donna che si dispera, chi siano quei partigiani presenti sul posto e chiaramente venuti da fuori, non lo sa proprio. Riconosce solo alcuni partigiani del luogo. Tanto è vero che risulta alquanto difficile stabilire con precisione, dagli elementi forniti dalla signora, l'ora della morte del Duce, la quale spesso afferma: «un po' di tempo dopo», «dopo qualche tempo», ma pur indicando molte volte l'orario, che apprende dal campanile della chiesa, non è possibile stabilire con esattezza quanto sia esattamente questo «qualche tempo», nè se quegli orari da lei riportati sono poi esatti, e quindi va a finire che, mentre per la Petacci abbiamo una indicazione abbastanza precisa che fa risalire la sua morte a poco prima di mezzogiorno, per il Duce si può dedurre un tempo variabile tra poco dopo le nove e un po' prima delle 10.
Analogamente gli spari uditi e riferiti dal teste, possono generare confusione, anche perché sono frammisti ad altri spari, che avvenivano in lontananza, per tenere la gente fuori da quei posti.
Ma soprattutto non sono legati con precisione ad eventi osservati dalla donna, ma soltanto da lei connessi a svariati particolari osservati o uditi subito prima o subito dopo.
Comunque sia, nonostante questo, il resoconto fornito da Dorina Mazzola è più che sufficiente per avere un quadro abbastanza preciso degli avvenimenti.
Massimo Caprara, ex segretario di Togliatti, nel riportare una confidenza del "Migliore", che indicava in Lampredi il fucilatore del Duce, riferì al contempo anche una confidenza avuta da Celeste Negarville (esponente comunista già direttore de "l'Unità" nel '44), il quale asserì: «Con la Petacci Lampredi non c'entra. La Petacci è stata uccisa altrove. Lampredi si trovò un cadavere in più, che non era nel conto».
Angelo Carbone un 83 enne ex partigiano di Rivanazzano in Oltrepò, amico di Sandro Pertini, pur nel contesto di racconti alquanto raffazzonati e sinceramente poco credibili, fece importanti affermazioni. Sul settimanale "Gente" del 8 maggio 1999, affermò di essere stato presente ai fatti (riferendosi però al Cancello di Villa Belmonte) e aggiunse: «Non è vero che Claretta Petacci fu uccisa con Mussolini davanti al cancello di Villa Belmonte. È una storia inventata di sana pianta». Disse, anche «Clara Petacci non doveva morire... doveva essere liberata. Rimase uccisa accidentalmente, nella stanza dove era rimasta custodita con Mussolini».
Elena Curti, figlia naturale di Mussolini, autrice di "Il chiodo a tre punte" (Iuculano editore 2003), ha anche raccontato nel 2007 ad A. Bertotto un suo importante ricordo: «Dieci anni fa, un ragazzo che all'epoca aveva solo 15 anni (Osvaldo Gobbetti un comunista di Dongo, N.d.R.), al quale i partigiani davano incarichi come ricaricare le armi, mi ha riferito, dopo averlo saputo da un compagno che aveva assistito ai fatti di Bonzanigo, che la Petacci era stata uccisa mentre tentava di allontanarsi»; stava correndo su un prato, venne raccontato alla Curti, quando venne falciata proditoriamente da una raffica di mitra alle spalle. Lo stesso partigiano che lo raccontava al Gobbetti era rimasto scioccato (Vedi: A. Bertotto, su "Rinascita", 14 ottobre 2007).
Ed ancora, nel 2003 l'anziano medico, il dottor Pierluigi Cova Villoresi, di sicura fede antifascista, che si disse aveva presenziato alla autopsia di Mussolini, ebbe ad affermare nel corso di una intervista al direttore di "Italia Tricolore", Augusto Fontana, quanto segue e che evidentemente aveva saputo da autorevoli fonti:
«[i cadaveri] li avevano rinchiusi nell'albergo vicino al posto dove poi sono stati fucilati».
«Ah quindi non nella camera da letto dei De Maria?» chiese l'intervistatore riferendosi alle note ipotesi di una uccisione dentro la stanza.
Cova: «No, no, no, fuori!... erano fuori... Lì c'è una specie di terrazzo dal lato stradale col limite in ferro tra la strada e il lago e c'è una piazzetta...».
E sulla Petacci, parlando del cancello di Villa Belmonte ebbe a precisare:
«... quel cancello lì è sbagliato, perché dove l'hanno uccisa è sulla curva di una stradina che parte dal lago, parte dalla strada, c'è la strada che praticamente è parallela al margine del lago».
Ma a supporto del racconto di Dorina, c'è anche la decisiva e mai smentita testimonianza di Savina Santi, la vedova di Sandrino Guglielmo Cantoni.
Disse la signora, a Giorgio Pisanò, che il marito gli aveva raccontato: «Mussolini e la Petacci non sono stati uccisi nel pomeriggio e davanti al cancello di Villa Belmonte. Mio marito mi disse che quella mattina lui si trovava di guardia alla stanza dove c'erano i prigionieri, quando vide salire le scale Michele Moretti e altri due partigiani che non aveva mai visto nè conosciuto. I tre gli ordinarono di restare sul pianerottolo fuori della stanza ed entrarono nel locale. Mio marito, restando sul pianerottolo, udì uno dei tre che diceva: "adesso vi portiamo a Dongo per fucilarvi", e un altro gridare: "No, vi uccidiamo qui!". Poi mio marito udì altre voci concitate, le urla della donna e colpi d'arma da fuoco..., ma non so dove li hanno uccisi con certezza, credo però che lo sappia un altra persona che ebbe la confidenza da mio marito (il signor Vanotti, N.d.R.). Proverò a domandargli se vuole riferirgliele».
Riassumiamo adesso la testimonianza della signora Mazzola, per la quale però rimandiamo al testo integrale riportato nel già citato libro di Pisanò ed alle relative mappe topografiche della zona, necessarie anche per capire il percorso che venne fatto fare ai cadaveri quando li portarono davanti al cancello di Villa Belmonte.
La signora premise che non aveva mai parlato prima per il clima di terrore sparso nel paese, tanto che la gente trovava persino bigliettini infilati di notte sotto le porte dove si imponeva di tacere per cinquanta anni. Solo così non era successo niente ed erano rimasti tutti tranquilli.
Come sappiamo queste minacce ed intimidazioni sono state da più parti confermate ed anche il vicesindaco di Mezzegra, Vittorio Bianchi, ha recentemente ammesso che, al tempo, la gente venne "zittita". Basterebbe questa sola constatazione, per smentire quanto va falsamente raccontando la "vulgata" di Audisio, perché solo un grave interesse a non far trapelare quanto veramente era accaduto tra Bonzanigo e Giulino di Mezzegra, poteva giustificare la pluriennale messa in atto di così gravi minacce!
La signora Mazzola, inizia ricordando l'importante particolare che già la notte del 27 aprile 1945, intorno alla mezzanotte, ebbe modo di sentire e quindi di scorgere dalla sua finestra a pian terreno degli uomini armati, che salivano verso Bonzanigo. È questo un episodio incredibile, che è veramente difficile che fosse stato inventato di sana pianta, e va a confermare quanto, giustamente, aveva già ipotizzato Alessandro Zanella, nel suo "L'ora di Dongo", Rusconi 1993.
Lo Zanella, infatti, in base ad un misterioso viaggio serale della Giuseppina Tuissi, Gianna, e ad alcune bugie con il quale lo si era voluto nascondere, intuì che invece c'era stato un sopralluogo a casa De Maria, e forse vi erano stati portati anche alcuni bagagli della Petacci (non a caso il giorno dopo da quella casa scapparono fuori eccessivi vestiari e oggetti della donna) molto prima dell'arrivo dei prigionieri. Non era quindi stata una improvvisazione, come si disse, la scelta di quella casa, durante il viaggio notturno delle macchine con Mussolini e la Petacci, che si raccontava erano partite da Dongo, passarono per Moltrasio e arrivarono poi a casa De Maria tra le 4 e le 5.
La mattina successiva, verso le otto e mezzo, arrivò in cucina il padre di Dorina, che veniva dal magazzino di rottami sotto casa, tutto concitato ed alterato dall'emozione ad avvertire di non uscire perché c'erano in giro facce mai viste, uomini in borghese preceduti da altri armati di mitra.
Nel frattempo si udivano, a intervalli, numerosi colpi di fucile, sparati in aperta campagna e la signora saprà poi che erano spari in lontananza per tenere la gente il più possibile rintanata in casa.
Molti spari erano ben udibili perché la posizione di casa era, rispetto al territorio di Bonzanigo, come il fondo di un imbuto, dove rumori e voci vi finiscono ed in particolare proprio i rumori di casa De Maria distante circa 100 metri in linea d'aria, ma sopraelevata di circa una quindicina di metri. Oltretutto, a quel tempo, non c'erano rumori di traffico vicini o lontani.
Forse intorno alle 9 Dorina senti due colpi, che sembravano di pistola, e parevano proprio provenire questa volta da casa De Maria. Ancora pochi secondi ed in casa De Maria scoppiò un furibondo litigio. Giacomo De Maria urlava e picchiava pugni su un tavolo, mentre la Lia piangeva e gridava disperata: "Sono cose da capitare in casa mia?".
Mentre queste liti continuavano Dorina si accorse che nel cortile antistante casa De Maria c'erano alcuni uomini che si agitavano tra la porta di casa e quella della cantina.
Essendo il punto in cui si trovava in quel momento la signora, sebbene al secondo piano, un poco più basso rispetto a quello del cortile di casa De Maria, ella poteva vedere solo la parte superiore del corpo, dalla cintola in su, delle persone ivi apparse.
E laggiù la signora venne colpita dalla vista di un uomo con la testa calva che, nonostante la mattinata grigia e fredda, indossava solo una maglietta bianca e si muoveva zoppicando a piccoli passetti lenti. Anche qui, possiamo anticipare, trova conferma che Mussolini, prima di essere ucciso venne ferito al fianco e forse al braccio, proprio come si poteva intuire dalla strana polidirezionalità, inclinazioni di tiro e distanzialità delle ferite che si riscontrava sul cadavere.
Proprio allora dal finestrone del secondo piano di casa De Maria si affacciò una giovane donna che urlava "Aiuto, aiutateci", ma qualcuno la tirò dentro mentre lei continuava a gridare e piangere.
Nel frattempo il signore calvo era scomparso dalla vista della Mazzola e poco dopo questa sentì nitidi, con un distacco preciso uno dall'altro, altri sette colpi. Tutti esplosi lì, davanti a casa De Maria. È bene precisare che Dorina non ha alcuna idea su chi fossero tutte quelle persone, ma sopratutto ignora chi sia la donna che strilla aiuto e l'uomo calvo, claudicante e in maglietta bianca.
Il litigio in casa continuava, mentre uomini correvano entrando ed uscendo di corsa dall'edificio. Altri varcavano il cancello che si apre su via del Riale e salivano verso il paese.
Poi ci fu una sparatoria nel cortile davanti a casa De Maria tanto che di colpo quel frastuono cessò e rimase solo il pianto disperato della Lia De Maria e dell'altra donna.
L'allora diciannovenne Dorina tornò in cucina spaventata e nel proseguo di tempo si udirono solo colpi di fucile provenienti dalla campagna a destra di Bonzanigo e dalla sinistra ove c'è la chiesa parrocchiale di Sant'Abbondio. En passant dobbiamo far notare come molte testimonianze del posto confermarono nel dopoguerra che quel giorno si erano uditi spari di diversa provenienza.
Dal secondo piano di casa sua Dorina si accorse anche che nel piccolo slargo che si apre sul retro della sua casa, all'inizio di via Albana, c'era parcheggiata un automobile scura.
Racconta Dorina che successivamente, mentre stava dando da mangiare ai piccioni:
«Il sole era ormai alto. Le undici erano suonate da oltre mezz'ora... fu mentre gettavo il mangime che, alzando gli occhi, notai alcuni uomini scendere da via del Riale. Erano di certo partigiani. Camminavano lentamente. Poi si fermarono. Qualcuno di loro tornò indietro. Uno si sedette sul muretto della strada: reggeva tra le braccia un grosso fagotto con indumenti, coperte, e mi parve, un cappotto... Intanto, mentre seguivo i loro movimenti, avevo sentito di nuovo il pianto disperato della donna che aveva gridato aiuto. Questa volta più vicino. Ed ecco dalla curva spuntare altri tre uomini che si tenevano a braccetto e camminavano a passo molto lento. Dietro di loro apparve una donna che si gettò in ginocchio davanti a quello dei tre che stava nel mezzo, abbracciandogli i piedi. E gridava convulsamente qualche cosa che non riuscivo a capire, per via del fracasso che facevano i piccioni raccogliendo il mangime dalla lastra zincata... Vidi uno dei partigiani avvicinarsi alla donna, parlarle accarezzandole i capelli e cercare di sollevarla da terra. Ma lei continuava a disperarsi. La sentii gridare, questa volta chiaramente: "Dov'è mio fratello". Alla curva arrivò un terzo gruppo di uomini. Alcuni vestiti in borghese. C'erano con loro almeno due donne... La De Maria non c'era, l'avrei riconosciuta. Due donne non della zona. Non le avevo mai viste. E nemmeno le rividi più».
Dorina si rese improvvisamente conto che quest'uomo al centro non camminava con le sue gambe, ma era trasportato per le ascelle mentre la testa gli pendeva sulla sinistra. Era morto.
Pensò allora che doveva essere il padre o un famigliare della donna che si disperava.
Dorina vide anche che questa donna, senz'altro giovane, vestita di scuro, si aggrappava di sovente, urlando, alle gambe del morto, stringendole, tanto da finire per sfilargli uno degli stivali.
Un partigiano strappò subito, dalle mani della donna, lo stivale e si chinò in terra per rimetterlo al piede, ma prova e riprova dovette poi desistere. Scoppiò anche una lite tra i partigiani e se la presero con quella donna che gli faceva perdere tempo.
La donna continuava a lamentarsi e gridava: "Cosa vi hanno fatto! Come vi hanno ridotto!", e la signora Mazzola rimase colpita da quel "voi" dato al morto che, pensò, non poteva essere il padre perché altrimenti si sarebbe espressa in altro modo.
Comunque il gruppo arrivò lentamente al famoso slargo erboso dove si può proseguire per la via Regina, curvando a destra per viale delle Rimembranze, oppure proseguire per via del Riale, fiancheggiando casa Mazzola immettendosi, venti metri dopo, in via Albana.
Nel frattempo l'allora giovanissima Mazzola, nascosta tra i rottami udì grida ed improperi anche in dialetto locale: «Fate largo! Toglietevi dai piedi. Via di ball! Tornate dove siete stati fino adesso...». Quando però il gruppo svoltò verso viale delle Rimembranze Dorina non potette più vederli perché, di fatto, si trovava più in basso rispetto al livello dello slargo.
Evidentemente poi dovettero però invertire la marcia perché tornò a vederli ed anzi la prima che rivide fu la donna disperata. Stringeva nella mano destra un foulard e sotto il braccio sinistro portava una borsetta. Qualcuno le aveva anche gettato una pelliccia sulle spalle.
La donna che continuava a disperarsi fece qualche passo in direzione di via del Riale e verso via Albana. A Dorina diede l'impressione che volesse correre avanti.
La vide bene perché non era più distante da lei di sei o sette metri.
Fu allora che qualcuno fece partire una raffica di mitra che passò anche vicino casa Mazzola.
Tra i partigiani si scatenò il finimondo. Urlavano, inveivano, bestemmiavano.
Le donne strillavano dallo spavento. Dorina udì frasi come: «Pezzo di merda! Guarda che cosa hai fatto!» e ancora: «Chi è quel pezzo di merda che ha sparato? Da dove è arrivato? Non ti far vedere da me, che ti lego le budella attorno al collo!».
C'era gente del paese ed altri da fuori. Chi inveiva in italiano, chi in dialetto, racconta la signora, che riconobbe alcuni ragazzi che conosceva: Carlo De Angeli, Pietro Faggi, che morì un anno dopo, e Paolo Guerra, che divenne poi sindaco comunista di Tremezzo.
Successivamente Dorina, spaventata, tornò in casa e dalla cucina sentì due colpi di pistola esplosi dietro la casa dove inizia la via Albana e la baraonda cessò. Vide anche ricomparirgli alla vista l'uomo sorretto dai due partigiani. Attorno a loro un gruppetto di persone venuta da fuori, tra queste un signore molto distinto con un impermeabile quasi bianco, cintura alta in vita e uno strano berretto con visiera in testa. A tracolla una lussuosa macchina fotografica. L'altro, più piccolo con i capelli corti brizzolati ed un giaccone scuro. Dietro il gruppo due donne in pelliccia, una di visone e l'altra di pelo vaporoso, bianche in volto dallo spavento e occhi rossi di pianto. Mai viste da Dorina.
Poco dopo Dorina vide anche molto bene che il morto, precedentemente visto era sicuramente quell'uomo che circa tre ore prima aveva notato zoppicante nel cortile di casa De Maria.
Aveva infatti, sotto il cappotto, la stessa maglietta bianca, ma lacera e insanguinata. Attorno ai fianchi gli avevano messo una sciarpa attorcigliata ed in testa il passamontagna.
Neppure allora però la signora Mazzola immaginò chi fosse.
Mentre osservava tutto questo, vide spuntare da destra, strisciando contro il muro di casa, altri partigiani che portavano il cadavere di una donna, coperto da un cappotto: proprio quella che precedentemente piangeva e si disperava. E anche qui trova conferma l'uccisione della Petacci chiaramente avvenuta con una sventagliata di mitra alla schiena come attestano le foto delle ferite sul suo cadavere e la foto della pelliccia forata nel retro.
Era circa mezzogiorno e a mano a mano la gente se ne andava in varie direzioni e Dorina vide anche, l'automobile nera allontanarsi lentamente per via Albana.
Dorina Mazzola il pomeriggio, verso le sedici, dovette uscire per andare ad Azzano a fare spese. Ebbe così modo di vedere, al di là del cumulo di rottami, il punto dove aveva visto la donna disperata l'ultima volta. C'era ancora, tra l'erba, del sangue per terra.
Poco dopo Dorina arrivò alla fontanella allora ubicata verso viale delle Rimembranze e, sorpresa, notò acqua e sangue per terra. Ma non c'era nessuno, erano andati tutti verso Azzano visto che, oltretutto, come oramai accertato era stata sparsa la falsa voce che, nella sottostante provinciale sarebbe passato Mussolini prigioniero..
Proprio allora si sentì chiamare. Era un certo signor Gilardoni proprietario di una casa di fronte alla fontanella. Questi, un po' nascosto tra le siepi del suo giardino, gli raccontò che un ora prima, da quelle parti, c'erano stati dei partigiani che sparando in aria mandavano tutti giù al bivio di Azzano.
Poi, disse il Gilardoni, era arrivata un automobile scura dalla quale avevano tirato fuori un cadavere insanguinato. Posto in terra, vicino alla fontanella, gli avevano tolto una maglietta bianca insanguinata e l'hanno lavato con delle pezze gettate poi nel torrente. Quindi l'hanno rivestito e l'hanno portato a braccia giù per via delle Vigne, mentre l'auto ripartiva subito per viale delle Rimembranze. Non aveva visto donne, nè vive, nè morte.
Mentre Dorina stava ancora parlando con il sig. Gilardoni, udirono raffiche di mitra provenire da Giulino di Mezzegra. Seppur sconsigliata dal Gilardoni, Dorina risalì via 24 Maggio per circa duecento metri, venne però bloccata da due partigiani con i mitra che gli imposero di non proseguire per Giulino perché dovevano scendervi delle automobili.
Ed anche questi particolari, cioè che tra le 15 e le 16 erano in atto da quelle parti vari posti di blocco, trovano conferma in molte testimonianze e stanno ad indicare che l'arrivo di Audisio non fu improvvisato, ma preordinato per mettere in atto una messa in scena di una finta fucilazione davanti al cancello di Villa Belmonte.
La signora Mazzola, tempo dopo, seppe da sua zia, una certa Mariola che lavorava nell'hotel Milano, che dopo mezzogiorno un auto scura era arrivata ed era rimasta per qualche ora nel garage. La zia aveva anche notato alcuni partigiani che l'avevano scortata nel garage ed erano poi entrati nell'albergo e piangevano. Quindi i cadaveri erano stati parcheggiati nell'albergo Milano.
Giorni dopo Dorina incontrò Paolo Guerra, un giovane partigiano di Tremezzo che nutriva una certa simpatia per lei. In seguito diventò anche sindaco comunista del suo paese. Morì nel 1992. A lui Dorina chiese particolari sulle varie sparatorie udite al mattino e questi disse che era stato ordinato (anche a lui) di sparare alternativamente, alle spalle del paese, da sinistra a destra, dove si sapeva che c'era Mussolini in casa De Maria e tenere così la gente lontana da Bonzanigo.
Ad un certo momento però, raccontò il Guerra, "udimmo spari che provenivano da casa De Maria e capimmo che qualcosa era andata storta. Venimmo così a sapere che Mussolini era stato ucciso".
Ma Dorina gli gridò in faccia che lei lo aveva anche visto nel gruppo che si agitava quando la Petacci era stata uccisa. E lui gli consigliò di stare zitta altrimenti l'avrebbero ammazzata.
E lei era rimasta zitta per tantissimi anni.
 

Maurizio Barozzi 

[N.B. - In sede di pubblicazione su "Rinascita" l'articolo, per esigenze di spazio ha subito piccoli tagli]