25 aprile 1945
La famosa trattativa in
Arcivescovado
Maurizio Barozzi
marzo 2009
Molti storici e soprattutto giornalisti storici fanno spesso, con voluta
malafede, una certa confusione circa supposti intenti del Duce per una "resa"
della sua Repubblica Sociale al CLN e una eventuale trattativa per un trapasso,
desiderato indolore, dei poteri tra una Repubblica che deve, dietro l'invasione
Alleata, lasciare il posto ad un nuovo potere che sarà assunto dal CLNAI
(l'organismo che rappresenta il governo di Bonomi nel nord Italia) almeno fino
all'arrivo delle armate Alleate le quali imporranno la loro amministrazione
militare o AMG.
Ogni volta infatti che veniamo a leggere articoli o saggi inerenti il famoso
incontro che si svolse in Arcivescovado il pomeriggio del 25 aprile 1945, tra
Mussolini ed i rappresentanti del CLNAI, dietro la mediazione del cardinale
Idelfonso Schuster, la base di partenza di queste rievocazioni storiche è spesso
quella di un Mussolini che si reca in Curia allo scopo di trattare la resa,
intendendo come tale la resa sia della RSI come Stato, governo e Forze Armate, e
sia la resa delle formazioni del partito fascista.
Qualche volta, ma non sempre, si fa invece un confuso distinguo tra queste due
essenziali componenti, ma sempre senza definire bene cosa si intende per "resa".
Se poi consideriamo anche il fatto che tutte le testimonianze e tutte le
ricostruzioni del famoso incontro avvenuto in Arcivescovado (la più esaustiva,
ma non totalmente veritiera, è forse quella di A. M. Fortuna "Incontro
all'Arcivescovado", Sansoni, 1971), divergono tra loro per diversi particolari,
spesso anche di scarsa importanza, ci rendiamo conto a quale inattendibilità
complessiva ci si trova di fronte.
Recentemente il ricercatore storico, Alberto Bertotto ha pubblicato un suo breve
saggio in merito che forse rappresenta, se non altro, una delle più obiettive
ricostruzioni storiche [1].
Vediamo allora come stanno le cose sia sotto l'effettivo aspetto storiografico e
sia come una doverosa controinformazione storica atta a ristabilire la verità su
questo avvenimento.
Intenzioni di resa alle spalle dei tedeschi?
Tanto per cominciare dobbiamo subito sgombrare il campo da un altra illazione,
tipica di scrittori alquanto superficiali, quella che vuole insinuare un segreto
proponimento del Duce di trattare una resa con gli Alleati alle spalle dei
tedeschi (cosa che, invece, fecero proprio i tedeschi negli ultimi due mesi di
guerra).
C'è addirittura chi è arrivato a sostenere che il generale delle SS Karl
Friedrich Otto Wolff e Mussolini, l'uno all'insaputa dell'altro, in quei giorni
di fine aprile '45 stavano trattando una loro unilaterale resa al nemico.
Queste argomentazioni, oltre che dalla malafede, derivano anche da una lettura
superficiale degli inevitabili traffici e maneggi che sempre si instaurano in
tempo di guerra.
È, infatti, cosa nota e consueta che tra belligeranti, ci sia sempre e
nonostante tutto, all'opera una certa diplomazia sotterranea intenta
nell'espletare una ricomposizione del conflitto in atto, o una sua più mitigata
conclusione o anche solo per intrattenere espedienti tattici che, a volte, sono
anche un corollario delle stesse strategie belliche.
Anche in Italia, come in Germania, ecc., determinati e discreti canali
diplomatici o attività di Intelligence sono sempre stati all'opera, fin quando è
perdurato il conflitto.
Alcune intercettazioni telefoniche ed epistolari tra Mussolini ed Hitler, che ci
sono pervenute, attestano come, di queste iniziative, i due alleati ebbero
sovente a discuterne e si riscontra anche, da queste intercettazioni, che Hitler
era perfettamente informato dell'esistenza di un importante e delicato
"Carteggio" in mano a Mussolini, tale da poter essere sfruttato per indurre
Churchill a trattative. Il Führer conosceva anche determinate relazioni che
c'erano state tra il Duce e lo statista britannico e sappiamo anche che in quei
mesi del 1945 Hitler non era d'accordo, in parte anche sulla scelta dei tempi,
per i quali farle valere [2].
In ogni caso, per quanto concerne il nostro paese, era prima o poi scontato che
sotto l'incalzare della inarrestabile avanzata Alleata, si sarebbe arrivati ad
una resa, ma il Duce e lo stesso Graziani, quale ministro della Difesa, non ci
sono dubbi in proposito, non avrebbero mai trattato una resa alle spalle
dell'alleato, semmai lo avrebbero fatto in sintonia con i tedeschi o dopo che
questi si fossero arresi o avessero lasciato il territorio italiano.
Il tradimento dell'8 settembre, con il pesante fardello morale, materiale e
storico che aveva marchiato e devastato per sempre il popolo italiano, non
sarebbe mai stato ripetuto da coloro che avevano messo in piedi la RSI proprio
per riscattare l'onore della nazione vilipeso dal tradimento Badogliano.
È comunque acquisito che Mussolini negli ultimi mesi della RSI coltivasse
l'idea, purtroppo una illusione, di poter negoziare al momento opportuno una
resa con gli Alleati puntando non solo sul compromettente Carteggio, ma anche
sulla valutazione (errata) che, almeno gli inglesi, fossero interessati a
limitare l'invasione sovietica dell'Europa (che invece era stata dagli anglo
americani auspicata e pianificata entro certi limiti nell'ambito degli accordi
di Yalta) [3].
Al contempo però il Duce, nel disperato tentativo di mitigare le condizioni che
sarebbero state imposte all'Italia, coltivava anche ipotesi opposte, giocate con
la sua repubblica socialisteggiante, ovvero un approccio verso Stalin che
proprio in quei momenti fu definito da Mussolini «il più grande uomo dei nostri
tempi».
Insomma quello che muove Mussolini, nel disperato tentativo di salvare il
salvabile per la sua Nazione alla deriva, è un pragmatismo che lo porta a
scandagliare ogni possibilità da qualunque parte si possa presentare anche in
virtù delle importantissime carte (il carteggio con Churchill) in suo possesso.
Scrive lo storico Alessandro De Felice:
«È opportuno, però, ricordare che la linea filo-occidentale (cioè filo
anglo-americana) dell'ultimo Mussolini è accompagnata da una tendenza opposta e
contraria dello stesso Mussolini in senso filo-sovietico che egli gioca su un
altro tavolo, socialisteggiante, i cui croupiers sono Bombacci, Silvestri ed
Edmondo Cione (e con quest'ultimo Giorgio Pini, il Ministro dell'Educazione
Nazionale Carlo Alberto Biggini e Concetto Pettinato)».
Ed ancora, lo stesso A. De Felice precisa, più in generale, tutta quella
situazione:
«Ci si può chiedere legittimamente cosa Mussolini abbia pensato del viaggio di
Hess in Gran Bretagna con i suoi complessi e sconvolgenti -per il sovvertimento
geopolitico insito in essi- sviluppi. Capire. Capire quale sia il vero punto di
arrivo di tutto il piano segreto tedesco-inglese. Ecco cosa non finirà mai di
tormentare l'ultimo Mussolini. Quello che accadde nella primavera del '41, e ciò
che sarebbe potuto accadere o che potrebbe ancora nel '44, a guerra perduta,
accadere [4]. Se esista un disegno
strategico o, ancora meglio, una visione di un possibile ordine futuro dietro
eventi che si concatenano l'uno all'altro, giorno dopo giorno, senza che sia
ancora possibile intravedere la trama dell'ordito. E soprattutto quale sia il
ruolo che al Duce può venir riservato in questo ipotetico domani. Cercare di
dare uno sbocco politico al fascismo repubblicano-socialista, di definirne un
orizzonte strategico: quello di divenire l'interlocutore di Washington o,
all'opposto, di Mosca ad un ipotetico tavolo negoziale. Camminando politicamente
per più di 40 anni sulla linea del tempo, Mussolini ha appreso che la storia è
una riserva di paradossi e di capovolgimenti imprevedibili e l'alternativa è se
stare "on the side of Hammer and Sicule" oppure "on the side of Stars and
Strips"». (Vedi: A. De Felice: "Il gioco delle ombre").
In ogni caso, come sempre avviene in queste circostanze belliche, c'erano stati
sicuramente attivi vari canali, diplomatici o meno, intenti ad acquisire
notizie, intraprendere sondaggi ed ascoltare eventuali proposte che potessero
dare una indicazione sugli intenti del nemico e su come voler chiudere la
guerra. Ma questi, chiamiamoli "sondaggi", che sarebbe stato strano e
irresponsabile se non ci fossero stati, non hanno nulla a che vedere rispetto a
delle trattative per una resa al nemico della RSI e delle sue forze armate
disgiunta da quella tedesca.
Proprio di un "sondaggio" per una "proposta" di resa si ha notizia dal figlio
del Duce, Vittorio, il quale racconta che ai primi di marzo del 1945, con il
precipitare della situazione e di fronte alla inevitabilità ed imminenza della
sconfitta militare, Mussolini gli consegnò un abbozzo di testo per una eventuale
trattativa di resa verso gli Alleati che doveva passare attraverso la Curia di
Milano e finalizzato alla salvaguardia di uomini, beni e strutture del paese (in
questo senso sollecitato nel mese precedente proprio dalla Curia, ovvero dal
cardinale Ildefonso Schuster).
Se andiamo a leggere il preambolo di questa "proposta"¸ ci accorgiamo che essa
prevedeva una ripresa della piena autonomia d'azione della RSI, sganciata dai
tedeschi, quando si verrà a determinare la fase finale della guerra e solo nel
caso che questi si ritirino entro i propri confini. Esso dice:
«Nel caso che gli avvenimenti bellici e politici costringano le armate di
Kesserling a ripiegare entro i propri confini, in quel momento le forze armate
della repubblica Sociale, di ogni specialità si raduneranno in località
prescelte anticipatamente onde opporre la più strenua resistenza contro il
nemico e le forze del disordine e del governo regio, consci che l'odio
antifascista non conceda altra via d'uscita se non il combattimento».
Segue quindi la proposta di firmare, al fine di evitare nuovi lutti e la
distruzione del patrimonio industriale del paese, degli accordi preliminari con
il Comando supremo Alleato che garantiscano, anche per il dopoguerra, un minimo
di sicurezza e continuità di vita civile a quanti, fascisti, soldati o civili
hanno prestato giuramento alla RSI. Segue anche una preoccupazione verso i
membri di governo ed i loro familiari e quanti hanno avuto funzioni di comando
nella RSI, per i quali si richiede di conoscere le intenzioni Alleate (arresti,
campi di concentramento, esilio, ecc.).
Questo "sondaggio" che poi, da quello che se ne sa, venne decisamente rifiutato
dagli americani (avevano già programmato l'isolamento e l'eliminazione del
Duce), è quanto era negli intenti di Mussolini nell'imminenza della sconfitta,
il resto sarebbe avvenuto in seguito all'evoluzione militare ed
all'atteggiamento dei tedeschi.
Ulteriori illazioni sono invenzioni gratuite, stravolgimenti della realtà di
quegli avvenimenti.
L'ultima, disperata, strategia finale di Mussolini
Prima di addentrarci adesso sul problema di un presunto intento di "resa" della
RSI alla Resistenza cerchiamo di riassumere alcuni obiettivi che Mussolini
sperava di conseguire con la conclusione sfortunata della guerra.
Mussolini nel 1945 riteneva inevitabilmente persa la guerra ed era conscio che
il fascismo sarebbe finito con essa. Coerente con la sua visione complessiva
della guerra, una visione per così dire "classica" del conflitto, non
apocalittica e quasi metastorica come poteva esserlo in Hitler, aveva ferma
intenzione, a prescindere della sua persona, di conseguire alcuni risultati
minimali, rimanendo però sempre fermo nell'impegno di non trattare alcuna resa
militare con gli Alleati, se non -con o dopo- che lo avessero fatto i tedeschi,
e questo per non ripetere l'onta dell'8 settembre.
Detto questo, si faccia attenzione ai sottostanti punti, l'ordine non è
importante, perché è nel loro tentativo di conseguirli, sia pure in modo
discontinuo e scoordinato a causa delle vicende belliche, che ruota tutta la
strategia finale del Duce e si ha la chiave per comprendere quello che
esattamente accadde in quelle tragiche ore. Dunque, Mussolini si riproponeva:
1. evitare ulteriori e inutili lutti e distruzioni al paese, applicando laddove
possibile una conduzione politico-militare moderata (tra l'altro da tempo
firmava ogni domanda di grazia gli venisse sottoposta). In quest'ottica sperava
di mediare un trapasso dei poteri con il CLNAI che evitasse i lutti e gli
consentisse uno sganciamento indolore dalle grandi città del nord, ma questo non
fu possibile per l'evidente volontà nemica, soprattutto comunista e massonica,
di spazzare via il fascismo anche attraverso un bagno di sangue;
2. esperire almeno un tentativo politico, finalizzato a lasciare in eredità alle
forze moderate di sinistra le riforme rivoluzionarie della Socializzazione e
della Repubblica, ma anche questo non fu possibile perché i vincitori della
guerra avevano distrutto il fascismo proprio perché, nonostante la retorica del
ventennio e i freni borghesi e savoiardi, ne avevano avvertita tutta la sua
portata distruttiva per l'occidente capitalista. Le forze di sinistra moderate,
come i socialisti, poco contavano e in quei giorni erano impegnate, soprattutto
gli azionisti, a difendere le case e i beni dei grossi magnati, figuriamoci se
potevano difendere la socializzazione. Non per niente, finita la guerra, furono
tutti d'accordo nell'abrogare immediatamente le riforme della socializzazione e
quelle sul monopolio azionario, riconsegnando la gestione delle Aziende al
grande capitale! Quindi non solo falliscono i tentativi di Mussolini di cercare
di mantenere in vita le grandi riforme sociali della RSI attraverso i
socialisti, ma falliscono anche i tentativi di un trapasso dei poteri tra la RSI
e il CLNAI. Fallito tutto questo Mussolini cercherà ugualmente di realizzare
almeno un incruento trapasso dei poteri uscendo da Milano (25 aprile a sera)
prima e da Como successivamente (alba del 26 aprile).
3. sperare in una dignitosa e mitigata conclusione bellica ovvero un
alleggerimento delle conseguenze della sconfitta militare e, ovviamente, la
salvezza per chi aveva partecipato alla RSI, facendo valere i delicati e
importanti documenti in suo possesso (Carteggio con Churchill). In vista di
questo obiettivo aveva da tempo intrapreso alcuni discreti sondaggi che fino al
quel momento non avevano dato frutti, ma che sperava potessero sempre
concretizzarsi all'ultimo minuto e per questa aspettativa aveva intrapreso una
tattica "temporizzatrice" allontanandosi progressivamente dalle località dove
stavano per arrivare gli Alleati. Ma gli accordi di Yalta non consentivano
mediazioni di questo genere ed oltretutto, con il precipitare degli eventi,
Mussolini restò immobilizzato in quel di Menaggio. Per finire in bellezza tutti
i suoi incartamenti, che aveva anche fatto duplicare in fotocopia per renderli
in futuro noti alla nazione, furono razziati o svenduti agli inglesi da ignobili
elementi di ogni tendenza e colore;
4. consentire a tutti i fascisti che lo volessero, di mettersi in salvo in
qualche modo, contando unicamente sugli irriducibili rimasti fedeli.
Personalmente pensò di mettere in salvo la moglie e i figli in Svizzera e la
Petacci in Spagna. Neppure questo fu possibile: per i fascisti che si
impantanarono in scellerate trattative per una "tregua" in Como e per i suoi
familiari a causa del rifiuto svizzero di accogliere donna Rachele e infine per
il colpo di testa di Claretta che volle rimanere in Italia, coinvolgendo anche
il fratello;
5. per se stesso, infine, rimase fermamente irremovibile nella decisione di
restare comunque in Italia, sia per un dignitoso attestato morale della sua
vita, ma anche per poter esperire fino all'ultimo minuto qualsiasi possibilità
si presentasse avendo un governo, sia pure allo sbando e ridotto ai minimi
termini, ma formalmente legittimato e militarmente ancora, almeno
simbolicamente, in grado di muoversi. Grazie ad un bravo ricercatore storico
Marino Viganò e stata finalmente e completamente sfatata la fandonia, come tale
del resto già a conoscenza degli storici più obiettivi, di un Duce che avrebbe
voluto riparare in Svizzera, quando invece proprio il desiderio di Mussolini di
rimanere a tutti i costi sul suolo italiano, anche di fronte alle insistenze di
molti componenti del suo entourage, finì per costargli Piazzale Loreto
[5].
In virtù di una attuazione di quanto sopra Mussolini, fin dalla sua venuta a
Milano, proveniente il 18 aprile da Gargnano, ha già previsto uno spostamento
progressivo, in base agli sviluppi della situazione militare, da Milano a Como e
quindi in Valtellina.
Come intenda procedere tatticamente su questa linea, alquanto precaria, è
probabilmente affidato alle novità e variabili che potranno venir fuori dagli
avvenimenti successivi, ma in ogni caso una cosa appare certa: Mussolini non ha
alcuna intenzione di consegnarsi agli Alleati senza concrete garanzie (però a
causa di Yalta impossibili da ottenere) ovvero che gli sia concessa la
possibilità di difendersi e di difendere la Nazione, perché oltretutto di quella
guerra si sentiva "vittima" e non certo responsabile.
Egli vuol seguire il suo destino, tentando tutto quanto è ancora possibile fare,
ma senza coinvolgere ulteriormente le popolazioni e le strutture delle città già
di per sè stesso abbastanza disastrate. Della sua persona ha sempre detto, non
fa questione ed infatti, rifiuta sempre, ostinatamente e con stizza, tutti i
progetti di porlo in salvo in qualche modo.
Come si evince dalle memorie dell'ex federale di Verona, Antonio Bonino,
Mussolini questi intenti di massima per chiudere la sua avventura li aveva ben
presenti già da tempo.
Dice infatti il Bonino che ai primi di dicembre del 1944 gli venne richiesto se
il Duce avesse firmato l'ordine che avrebbe trasformato Milano in una
roccaforte, condannandola praticamente alla distruzione.
Il Bonino rivolse la domanda direttamente al Duce attraverso apposito memorandum
nel quale si esprimevano tutte le perplessità, soprattutto morali, per evitare
questa possibilità.
Mussolini dette subito il suo responso:
«Sansone poteva legare i filistei alla sua sorte, non io. Milano non è il tempio
di Baal, ne i milanesi sono i filistei. anche se sono pronti, come voi avete
scritto, a ricevere gli americani con acclamazioni e di fiori. Per quanto
interessa noi occorre stabilire una pregiudiziale: seguirò la sorte dei miei
uomini. Sono perciò condannati a fallire i tentativi da voi fatti in senso
diverso. La vita non mi interessa, nè muoverò un solo dito per salvarla».
Ed è così che egli, esperito il fallito tentativo di mediazioni in Arcivescovado
che adesso andremo a considerare, partirà comunque la sera del 25 aprile '45 da
Milano, al fine di trasferirsi in Valtellina, con l'illusione di tenere in piedi
un troncone di Stato e i resti del suo governo, portandosi dietro gli ultimi
fascisti fedeli radunati da Pavolini e riservandosi poi di verificare e decidere
cosa fare una volta ivi arrivato.
È indubbio che, nonostante molti del suo seguito (uomini di governo come
Graziani e alti ufficiali delle sue FF.AA., come Borghese, ecc.) lo pressino per
arroccarsi in Milano, considerando questo il modo migliore per attendere gli
Alleati e salvare la vita, Mussolini invece tende a prendere tempo, mira ad
allontanarsi dalle zone dove stanno per arrivare gli Alleati e non ha alcuna
intenzione di consegnarsi inerme a costoro.
Sarà invece purtroppo costretto ad adeguare continuamente tutta la sua
l'agibilità tattica, finalizzata a conseguire questa strategia minimale, a causa
del repentino e continuo cambiamento della situazione e soprattutto del mancato
arrivo, a Menaggio dove si era trasferito ed era rimasto bloccato con il suo
scarso seguito, di una consistente colonna armata di fascisti provenienti da
Como.
Ma queste sono altre storie.
Resa alla Resistenza o trapasso dei poteri?
Come noto, tutta la letteratura resistenziale, ma non solo, riferendosi al
famoso incontro all'Arcivescovado nel pomeriggio del 25 aprile '45, tende a
profferire affermazioni non dimostrate, in riferimento ad una presunta volontà
di Mussolini di essersi recato a quell'incontro per offrire o trattare una resa
con il CLN.
È questo però un falso storico, anche se la differenza tra una "resa" vera e
propria e l'intento di Mussolini di lasciare totalmente il campo libero alle
nuove autorità cielleniste, ritirandosi verso il nord senza combattere in virtù
di determinate condizioni da trattare con il CLNAI, è sottile e si gioca sul
filo delle parole.
Comunque una differenza c'è. "Resa" vuol dire cessazione di qualsiasi attività
politica e militare, deporre le armi e consegnarsi o mettersi a disposizione dei
vincitori e queste non erano certamente le intenzioni di Mussolini per impostare
una trattativa con la Resistenza.
In realtà Mussolini era da tempo che, su più versanti, aveva incaricato uomini
del suo entourage come Tarchi (ministro della Produzione Industriale), Bassi
(capo provincia di Milano), Zerbino (ministro Interni), il figlio Vittorio, ecc.
di sondare le possibilità che potevano offrirsi affinché ci fosse un "passaggio
indolore dei poteri" tra la RSI che avrebbe lasciato ogni potere e con le sue
forze armate e milizie si sarebbe ritirata più a nord, nel caso fin verso la
Valtellina o le frontiere del Reich, e le nuove autorità subentranti del CLNAI.
Per quanto riguarda poi le FF.AA. della repubblica, ogni loro atteggiamento non
avrebbe che potuto essere condizionato dal preavvertimento o da una prassi
consensuale con i tedeschi.
Il tutto ovviamente nell'ottica di evitare ulteriori rovine e lutti da ambo le
parti e magari salvare possibilmente i fascisti e i loro famigliari dalle
inevitabili ritorsioni e vendette.
Era una strategia moderata, disponibile a lasciare il campo alla Resistenza
depotenziando l'imminente "insurrezione" e stemperare le vendette delle frange
estremiste.
In vista di queste eventuali ed auspicabili trattative, che con la caduta di
Bologna già preannunciata dal 20 aprile (gli Alleati vi entreranno la mattina
successiva) si cercò di accelerare e approcciare in tutte le direzioni,
Mussolini sarebbe stato ben disposto anche a lasciare a disposizione forze
militari della sua, di fatto oramai ex, repubblica per il mantenimento
dell'ordine pubblico.
È chiaro infine che la RSI, lasciato il suo ruolo e i suoi poteri in Lombardia,
sarebbe poi stata costretta a chiudere la sua pagina di storia qualche giorno
più tardi in relazione all'invasione Alleata ed alla contemporanea ritirata
delle armate tedesche.
Il Duce aveva anche coltivato l'illusione che fosse possibile tramandare in
qualche modo (il socialista Carlo Silvestri mediatore)
[6] le conquiste socializzatrici e repubblicane alle forze
moderate della sinistra ciellenista, affinché gli occupanti anglo americani
avessero trovato un fatto compiuto e qualcosa di quelle conquiste e innovazioni
sociali si fosse potuto mantenere in futuro.
A monte e corollario di queste vicende esiste una relazione informativa stesa da
Rudolf Rahn, Ambasciatore del Terzo Reich presso il governo di Salò e diretta al
Ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop in data 31 marzo 1945.
In questa relazione, con una certa malafede, l'ambasciatore esprime
preoccupazioni circa la lealtà della RSI verso la Germania anche rispetto alle
iniziative "socialisteggianti" di Mussolini, preoccupazioni che saranno poi
ripetute da Ribbentrop all'ambasciatore della RSI a Berlino Filippo Anfuso il
quale le girerà a Mussolini che a sua volta convocherà l'ambasciatore Rahn a
Salò. Affermerà quindi Alessandro De Felice nel suo "Il gioco delle ombre" già
citato:
«A quest'ultimo (Rahn, n.d.r.) Mussolini esprime il suo sdegno, a nostro
giudizio storicamente giustificato, e doppiamente: in primo luogo perché per
tutto il corso della guerra, dall'inizio alla fine, i vertici istituzionali
nazisti hanno tenuto al corrente i colleghi fascisti italiani solo di ciò che a
loro tedeschi conveniva, tacendo su strategie, trattative o quant'altro e
mettendoli spesso di fronte a fatti compiuti; in secondo luogo, appare oltremodo
strano, dopo tutto ciò che abbiamo detto sulle zone grigie dei contatti segreti
e della diplomazia parallela tra nemici intercorse in quella primavera 1945
sulle rive del Garda (o di altri laghi dell'Italia del Nord), il contegno ed il
rimprovero tedesco al Capo del Governo del fascismo repubblicano. Tutti pare
stiano giocando la loro partita, tutto sembra compromesso per l'Asse, i servizi
segreti di mezzo mondo ed i loro agenti speciali sono già al lavoro a Milano e
dintorni: non si capisce perché Mussolini non debba quindi guardarsi attorno
prima di una tragica resa dei conti che potrebbe -come gli costerà- costargli la
vita. Quella di Rahn, anzi di Ribbentrop, ha l'aspetto di una excusatio non
petita accusatio manifesta. Ciò sarà, del resto, confermato dalla ricerca
unilaterale tedesca di trattative di pace col CLNAI ad insaputa di Mussolini e
della RSI. Degna di nota è, poi, l'affermazione mussoliniana di aver
acconsentito alla nascita dell'ala sinistra socialista all'interno del Partito
Fascista Repubblicano (PFR), di correnti, insomma, legate a concezioni
para-marxiste o di socialismo avanzato. Il Raggruppamento di Edmondo Cione,
compatito dal Duce, ha però, nell'ottica machiavellica di quest'ultimo,
l'utilità di fare concorrenza da sinistra al PCI ed al PSIUP del CLNAI. Per
Mussolini il Raggruppamento Socialista Repubblicano di Cione & Co., che si situa
sulla stessa linea ideologica degli articoli costituzionali del Manifesto di
Verona di Nicola Bombacci, ha una sua indubbia funzione, e criticarla, come si
fa da parte nazista, non ha senso: "Sono sorpreso -dice Mussolini a Rahn- che
venga messa in discussione adesso la svolta a sinistra da me inaugurata a
partire dal settembre 1943. Io di fatto ho solo seguito l'esempio della Germania
e non ho, a proposito della socializzazione, fatto altro che decidere di
iniziare un nuovo corso e di essere conseguente ai princìpi fascisti, che sono
diventati chiari per l'Europa e probabilmente per il mondo intero". Parole che
non hanno bisogno di alcun commento od esegesi interpretativa e che confermano
una volta di più l'accelerazione mussoliniana verso il socialismo data al
fascismo repubblicano e le resistenze a tale direttiva poste dai tedeschi. Pur
tuttavia, lo stesso Mussolini tiene a precisare che la sua linea
politico-ideologica "non ha nulla a che vedere con un avvicinamento alla Seconda
Internazionale"».
Ancora lo storico A. De Felice riporta anche alcuni interessanti estratti di
lettere e dialoghi di Mussolini con Carlo Silvestri, iniziando dalle parole
contenute in una lettera del Silvestri a Mussolini del 26 gennaio 1945
[7] :
«"Comunque sia il domani, già è certo per me che la Repubblica sociale italiana,
per Vostra iniziativa, sta gettando le fondamenta di quella che un giorno si
avvererà una profonda sostanziale trasformazione dell'ordine politico sociale ed
economico. Anche se per dannata ipotesi le attuali leggi non potessero attuarsi
e consolidarsi nell'ambito della Repubblica da Voi fondata e presieduta, esse
avranno sempre il valore di un'anticipazione fondamentale e di una polemica che
sarà vittoriosa in sede storica".
Dirà in quei giorni Mussolini: "Quanto maggiore cammino si sarebbe potuto fare
in quest'anno se un gruppo di socialisti seri e responsabili mi avessero dato la
loro collaborazione?
No, mai e poi mai. Anche se dipendesse dal nostro apporto dare a Mussolini la
possibilità di realizzare il programma (…) del socialismo. No, mai e poi mai?
Perché? Perché è Mussolini".
"Vi dico che il più grande dolore che potrei provare sarebbe quello di rivedere
nel territorio della Repubblica sociale i carabinieri, la monarchia e la
Confindustria.
Sarebbe l'estrema delle mie umiliazioni. Dovrei considerare definitivamente
chiuso il mio ciclo, finito".
"Del resto, la scelta a sinistra del duce è confermata anche dalla sua famosa
dichiarazione finale: i valori della repubblica e del programma sociale
affermati a Salò vanno in eredità all'antifascismo repubblicano e socialista"».
In base a questi documenti le cui frasi qui estratte pone tra virgolette, lo
storico A. De Felice affermerà:
«Mussolini si proclama "decisamente fuori e contro il sistema capitalistico" e
lascia in eredità ai componenti del Partito Socialista di Unità Proletaria di
Pietro Nenni, Lelio Basso, Giuseppe Saragat, Rodolfo Morandi, Oreste Lizzadri e
Sandro Pertini il socialismo del suo Partito Fascista Repubblicano e della sua
Repubblica Sociale-(ista) Italiana. Ma, in realtà, in quel momento, a Milano e
nel territorio in cui si è insediato il CLNAI spadroneggiano PCI, PdA (Partito
d'Azione) e le frange più chiuse e violente dello stesso PSIUP facenti capo a
Pertini. Mussolini offre ai socialisti un'alleanza col PFR e le migliaia dei
suoi militanti "nettamente anticapitalisti". Che il "ponte" fascio-socialista
-per dare dignità all'indipendenza nazionale italiana contro l'occupazione
anglo-americana che strizza l'occhio ai Savoia ed ai "traditori" del fascismo di
destra confindustriale del 25 luglio 1943- si costruisca e che le esecuzioni
sommarie ai danni dei fascisti repubblicani finiscano dipende solo dai
socialisti del CLNAI che però si sono già compromessi cogli inglesi: "Che tutto
questo succeda -Mussolini dice- o non succeda dipende dall'atteggiamento dei
socialisti, dei repubblicani (del PRI, N.d.R.), delle forze di sinistra del
CLNAI. Se la soluzione sarà di destra, monarchica, conservatrice, la
responsabilità spetterà ai dirigenti del Partito socialista di unità proletaria.
Contro questa soluzione noi ci batteremo con tutte le nostre forze"» (vedi: A.
De Felice, "Il gioco delle ombre" già citato).
Ci siamo volutamente soffermati sulla illustrazione di questa strategia "di
sinistra" Mussoliniana per evidenziare la distanza che intercorre tra una resa
incondizionata alla resistenza ed invece un passaggio indolore dei poteri con la
consegna, oltretutto, del patrimonio sociale della RSI, mentre Mussolini e gli
ultimi seguaci si ritireranno verso i confini del Nord per chiudere la guerra in
qualche modo con gli Alleati.
Comunque sia, in base a questi intenti di Mussolini, si arrivò alla sera del 24
aprile quando il Duce ricevette Carlo Silvestri. Il Duce, in quella occasione,
formalizzò una serie di appunti che consegnò al Silvestri stesso pregandolo di
inoltrarli alle forze moderate e socialiste della Resistenza:
«Compagni socialisti. Benito Mussolini mi ha chiamato e mi ha dettato questa
dichiarazione che mi ha autorizzato a ripetervi. Poichè la successione è aperta
in conseguenza all'invasione anglo americana, Mussolini desidera consegnare la
Repubblica Sociale Italiana ai repubblicani e non ai monarchici, la
socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai borghesi. Della sua
persona non fa questione. Come contropartita chiede che l'esodo dei fascisti
possa svolgersi tranquillamente. Nel proporre questa trasmissione dei poteri,
egli si rivolge al partito Socialista, ma sarebbe lieto se l'idea fosse
considerata ed accettata anche dal partito d'Azione nel quale, del resto,
prevalgono le correnti socialiste. (...) A quanto sopra sono autorizzato ad
aggiungere che come contropartita Mussolini chiede: a) garanzia per l'incolumità
dei fascisti e dei fascisti isolati che resteranno nei luoghi di loro abituale
domicilio con l'obbligo della consegna delle armi nei termini stabiliti; b)
indisturbato esodo delle formazioni militari fasciste, così come di quelle
germaniche, nell'intento di evitare conflitti e disordine tra italiani e
distruzione di impianti da parte dei tedeschi e nuove rovine e lutti nelle città
e nelle campagne».
Come sappiamo questo tentativo "politico" abortì subito per l'intransigenza di
socialisti estremisti come Sandro Pertini e per la volontà e l'interesse di
liquidare tutto il fascismo, comprese le sue conquiste sociali, dietro un bagno
di sangue, ma questa è un altra storia, quello che qui preme sottolineare è
l'intento di Mussolini che il 24 aprile, ancora ignaro dei propositi di resa dei
tedeschi, parla espressamente di un "trapasso dei poteri" e di un ripiegamento
delle formazioni militari fasciste.
Non di una "resa" vera e propria, quindi, della sua RSI alla Resistenza, lo si
tenga presente perché gli stessi intenti, sia pure elisi della possibilità,
oramai tramontata, di consegnare le conquiste sociali della RSI ai socialisti,
si ripresenteranno il giorno successivo in Arcivescovado.
Come abbiamo accennato, infatti, la strategia di Mussolini, in quelle ultime
ore, precipitata per l'improvvisa resa trattata di nascosto dai tedeschi, era
quella del "ripiegamento", cercare cioè di spostarsi il più a Nord possibile con
un simulacro di governo, almeno nominalmente e formalmente in auge ed un minimo
di fascisti ancora, sia pure più che altro simbolicamente, in armi, in modo da
affrontare con gli Alleati, anche forte delle sue preziosissime carte di enorme
incidenza internazionale, gli eventi finali di una guerra inevitabilmente
perduta.
La resa, seppure inevitabile, sarebbe stata l'ultima ratio ed in dipendenza
sempre del comportamento dell'alleato germanico. Non solo una resa a discrezione
alla Resistenza non era nelle sue intenzioni e sarebbe stata addirittura
indefinita e problematica vista la inconsistenza delle forze a disposizione del
CLNAI in Milano, ma oltretutto e svariati riscontri ce lo confermano, anche in
questo caso egli avrebbe evitato a qualunque costo di intraprendere qualsivoglia
trattative in questo senso, se non dopo o assieme ai tedeschi.
Quella che si doveva configurare come una trattativa per un passaggio indolore
dei poteri, tra la RSI e la Resistenza, mediatrice la Curia dell'infido
cardinale Schuster, che ne avrebbe fatto da garante, era un qualcosa di ben
diverso da una trattativa di resa vera e propria e addirittura incondizionata
come cercarono di imporre i delegati del CLNAI in quell'incontro.
Scrisse giustamente Pino Romualdi che Mussolini pensava di dover discutere, in
quella sede, un calmo passaggio dei poteri, non di trattare i particolari,
ammesso che potesse trattare almeno quelli, di una resa a discrezione. Di un
ordinato passaggio dei poteri non si parlò neppure, ma solo di darsi, mani e
piedi legati agli avversari.
In definitiva, arrivati al 25 aprile, sotto l'incalzare degli eventi, a
Mussolini non rimaneva che il ripiegamento, ma affinché questo ripiegamento
potesse realizzarsi nel massimo ordine e senza un oramai inutile spargimento di
sangue, era opportuna una garanzia di una autorità, del prestigio e di una
entità superiore a tutti, che fosse in grado di mediare tra le parti in lotta e
convincerle ad un trapasso indolore dei poteri.
Fu per questo che, tra le varie trattative in atto, Mussolini alla fine preferì
accettare quella che era stata la proposta dell'industriale Gian Riccardo Cella,
il quale avvalendosi dell'ingegner Gaetano Bruni, intermediario con il CLN e la
Curia, proponeva un incontro con il CLN, sotto la mediazione del cardinale
Schuster.
Per comprendere bene le intenzioni di Mussolini, quindi, circa un ordinato
trapasso dei poteri da contrattare in Curia, dobbiamo partire dal presupposto
che egli aveva da tempo deciso il percorso di sganciamento del governo
repubblicano verso le località più a Nord.
Già dal 19 aprile Mussolini in seduta con il prefetto Mario Bassi, il federale
Vincenzo Costa e il comandante militare per la Lombardia Filippo Diamanti, ed
altri uomini dell'amministrazione repubblicana, scartò l'ipotesi di una difesa
armata dentro Milano, decidendo il trasferimento delle truppe in Valtellina. Ci
conferma poi l'agenda del maresciallo Graziani che Mussolini il 21 aprile:
«A Milano, alle 10 precise, tenne il Consiglio dei Ministri, l'ultimo, ed aprì
la discussione sulla ritirata in Valtellina la cui preparazione e organizzazione
era da tempo stata affidata al segretario del Partito».
Con la prematura presa di Bologna, causata da un evidente disimpegno tedesco,
tutti gli avvenimenti presero però una certa caotica accelerazione e lo stesso
ripiegamento in Valtellina assumerà, con il passare delle ore, un aspetto
diverso, perché era ovvio che, a prescindere dagli scarsi preparativi e
apprestamenti militari e logistici sul posto, finalizzati ad una estrema difesa
dirimpetto alle frontiere del Reich, la resa tedesca rendeva impraticabili
questi progetti e configurerà il ripiegamento in Valtellina come una semplice e
ulteriore fase transitoria verso l'epilogo.
Con questi fermi presupposti, comunque, di ripiegamento del governo e dei
fascisti verso la Valtellina, Mussolini il pomeriggio del 25 aprile 1945,
convinto dall'industriale Gian Riccardo Cella che si era dato da fare in
proposito, si recò in Arcivescovado e ci andrà non di sotterfugio, ma con una
evidente conoscenza da parte tedesca, fatto questo che esclude già a priori,
qualsiasi intento di agire di nascosto da loro.
Il suo probabile stato d'animo in quei giorni ce lo descrive perfettamente
Alberto Bertotto, nel suo saggio già citato, quando ci ricorda le parole che
Mussolini aveva confidato a Madeleine Mollier, moglie dell'addetto stampa
dell'ambasciata tedesca e volontaria della Croce Rossa che già lo aveva
intervistato a Roma per una rivista tedesca nel 1938.
Gli disse Mussolini:
«Sette anni fa ero ancora un personaggio interessante. Adesso sono un defunto...
Sì, signora. Sono finito. La mia stella è tramontata. Lavoro e faccio sforzi,
pur sapendo che tutto non è che una farsa. Aspetto la fine della tragedia e,
stranamente distaccato da tutto, non mi sento più attore; mi sento come l'ultimo
spettatore».
Raccontò quindi di aver iniziato a morire nel gennaio del 1944, quando non aveva
potuto ostacolare l'esecuzione di suo genero Galeazzo Ciano che lo aveva tradito
il 25 luglio 1943). Questo tragico evento aveva portato alla rottura con Edda
Mussolini Ciano, la sua figlia prediletta.
«L'agonia è atrocemente lunga. Sono il capitano della nave in tempesta. La mia
nave si è spezzata. Mi trovo nell'Oceano furioso, su un rottame.
Quest'impossibilità di agire, di rimediare! Nessuno sente la mia voce… Adesso mi
rinchiudo nel silenzio. Ma un giorno il mondo mi ascolterà.... Se io promettessi
a ogni italiano delle monete d'oro, nessuno mi crederebbe. Se le facessi versare
nelle loro mani, le prenderebbero, ma intimamente sarebbero convinti della loro
falsità. E quando un esperto garantisse loro che fossero di puro metallo
prezioso, allora penserebbero che l'oro non vale più nulla. (…) Chi teme la
morte non è mai vissuto, e io sono vissuto anche troppo. Io andrò dove il
destino mi vorrà. Dopo la sconfitta io sarò coperto furiosamente di sputi, ma
poi verranno a mondarmi con venerazione. Allora sorriderò, perché il mio popolo
sarà in pace con se stesso. (…) Nulla da fare, signori. Cala il sipario... Ho
provocato la fortuna, si è rivoltata. Ho evocato la violenza, mi si è gettata
contro centuplicata. Ho sfidato il mondo, è stato più forte di me. Ho
disprezzato gli uomini, si sono vendicati... Ho lottato sino all'estremo. Mi
hanno vinto... Andiamo dove si deve andare. E vi andrò senza recriminazioni,
senza odio, senza orgoglio. Addio» [8].
Con questa amarezza e rassegnazione, ma ben deciso e determinato a conseguire
quel minimo di obiettivi che si era prefisso e abbiamo poc'anzi illustrato,
Mussolini si recò all'appuntamento in Arcivescovado.
25 aprile 1945: l'incontro in Arcivescovado
In una intervista a Mussolini, rilasciata al giornalista di Alessandria, Gian
Gaetano Cabella (22 aprile del 1945), ed uscita poi dopo la morte del Duce, si
legge:
«"Duce, non sarebbe bello formare un quadrato attorno a voi e al gagliardetto
dei Fasci e aspettare, con le armi in pugno, i nemici? Siamo in tanti, fedeli,
armati...".
"Certo, sarebbe la fine più desiderabile... ma non è possibile fare sempre ciò
che si vuole. Ho in corso delle trattative. Il cardinale Schuster fa da
intermediario. Ho l'assicurazione che non sarà versata una goccia di sangue...
Un trapasso di poteri. Per il Governo, il passaggio fino in Valtellina, dove
Onori sta preparando gli alloggiamenti. Andremo anche noi in montagna per un po'
di tempo".
Osai interromperlo: "Vi fidate, Duce, del cardinale?".
Mussolini alzò gli occhi e fece un gesto vago con le mani. "È viscido. Ma non
posso dubitare della parola di un Ministro di Dio. È la sola strada che debbo
prendere. Per me è, comunque, finita. Non ho più il diritto di esigere sacrifici
dagli italiani"».
In base ai ricordi di Vincenzo Costa ultimo commissario della federazione
fascista di Milano, si può ricostruire che al mattino nell'ufficio del prefetto
Nicola Gatti, segretario particolare di Mussolini, si tenne una riunione alla
quale parteciparono Costa, Franco Colombo comandante della "Muti", i membri del
governo Barracu, Zerbino, Mezzasoma, Pavolini segretario del PFR e il capo della
provincia Bassi, il questore Larice, il colonnello Casalinovo, il colonnello
Gilormini della GNR ed altri ufficiali.
Pavolini riassunse così la situazione:
«Che cosa stia accadendo sul Po non lo sappiamo. Di conseguenza, piaccia o non
piaccia al Maresciallo Graziani, le nostre formazioni debbono subito essere
indirizzate verso la Valtellina.».
Verso il termine di questa riunione, sembra che apparve il generale Diamanti che
da una settimana aveva assunto il comando militare regionale. Disse:
«Signori, noi militari abbiamo concluso un accordo con il comanda delle forze
partigiane. Attueremo il passaggio dei poteri e l'ordine pubblico sarà garantito
da pattuglie miste di partigiani di nostri soldati. E tu (rivolgendosi a
Pavolini) se vuoi che le brigate nere si salvino fai togliere subito ai fascisti
le camicie nere, fagli indossare quelle grigioverdi con le stellette e mettile
ai nostri ordini».
Al che Pavolini saltò su e inveendo disse:
«Gli ordini li deve dare solo il Duce, solo Lui, lo avete dimenticato?... Che
schifo!» E uscì per andare a informare Mussolini.
Racconta ancora Costa, che nel primo pomeriggio, dai giardini della villa di Via
Mozart, che comunicava con il retro della Prefettura, udirono passare Mussolini,
proveniente dal Palazzo del Governo. Si avvicinarono Costa, Pavolini e il
federale di Mantova Motta e il Duce gli disse:
«Il cardinale Schuster mi ha invitato in Arcivescovado. Avete ragione non sembra
che i tedeschi abbiano intenzione di schierarsi a difesa della sponda lombarda
del Po. Tra qualche ora la decisione definitiva».
Come Dio volle poco dopo le 16 del 25 aprile, Mussolini salito a bordo della sua
Alfa Romeo (e non di una fantomatica "Limousine" della Curia), guidata
dall'autista Giuseppe Cesarotti, fece le poche centinaia di metri che separano
la Prefettura dal palazzo Arcivescovile per recarsi all'incontro con i capi
della Resistenza, sotto la mediazione del cardinale Schuster.
Sono in macchina con lui Cesare Maria Barracu colonnello sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio e il prefetto Mario Bassi Capo della Provincia di
Milano, oltre all'attendente del Duce Pietro Carradori. Alcune fonti affermano
che entrò in macchina anche il tenente Fritz Birzer capo della scorta tedesca
del Duce, ma la cosa non è certa, e comunque questa figura la ritroveremo più
tardi nel cortile della Prefettura al ritorno del Duce.
Su un altra macchina, partita poco dopo, c'erano invece Paolo Zerbino ministro
degli interni, e l'industriale Gian Riccardo Cella, ma anche qui qualcuno
afferma che Zerbino era già anche lui nella macchina con il Duce. Sottigliezze.
Sono comunque tutti in borghese tranne il Duce che porta la sua solita divisa.
Il maresciallo Rodolfo Graziani, ministro delle Forze Armate arrivò per conto
suo ancora un poco più tardi a bordo di una macchina scoperta, scortata da
quattro tedeschi che poi sembra rimasero nei pressi dell'ingresso del palazzo
ubicato in piazza Fontana, ma anche questa è una notizia non accertata.
Riportare la cronaca esatta di quell'incontro è pressoché impossibile visto che
le testimonianze in proposito divergono non solo su aspetti importanti, ma anche
su particolari insignificanti.
Un "Rapporto Settimanale" Riservato del 12 maggio 1945 in lingua americana,
redatto da una Unità della Sezione della Guerra Psicologica del 15° Gruppo del
Quartier Generale dell'Esercito statunitense, riporta una ricostruzione di
quella riunione dedotta all'epoca da varie fonti italiane. Vi si precisa che non
rappresenta i punti di vista degli estensori americani.
Sono comunque una raccolta di informazioni raffazzonate, rese sull'onda emotiva
e propagandistica di quei tempi, oltretutto anche imprecise, ma più o meno sono
i cardini su cui poi poggiarono le ricostruzioni di quella riunione che fecero
da base per varie pubblicazioni negli anni seguenti.
È di un certo interesse leggerle, eccone un estratto:
«Si deve dire che il Cardinale Schuster, l'Arcivescovo di Milano, aveva scritto
a Mussolini numerose volte per cercare di convincerlo a fare aperture agli
Alleati per la resa, così che la distruzione e lo spargimento di sangue della
lotta, alla fine, potessero essere evitati. Nessuna risposta diretta fu ricevuta
a questi suggerimenti fino a quando il 25 aprile il Cardinale Schuster ricevette
una nota dal dittatore che gli chiedeva di organizzare un incontro al Palazzo
della Curia dell'Arcivescovo tra egli stesso (Mussolini, N.d.R.) ed il Generale
Cadorna e l'Avv. Marazza come rappresentanti del CLNAI». (Come vedesi si
conferma che Mussolini non presentò mai concrete aperture per una resa agli
alleati, tranne come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, quel "sondaggio",
nel mese di marzo e tramite il figlio Vittorio, con dei preamboli per una futura
"proposta" di resa, il quale però poteva concretizzarsi solo dopo la ritirata
dei tedeschi dal territorio italiano, N.d.R.).
«Circa alle 3.30 post meridiem l'Avv. Marazza, seguendo le istruzioni del CLNAI
di contattare la Curia Arcivescovile (in modo da seguire il più attentamente
possibile le mosse che avrebbero poi preso i tedeschi per negoziare una resa
tramite la mediazione dell'Arcivescovo), entrò alla Curia ed egli era appena
arrivato quando il Cardinale uscì fuori dalla sua sala di udienza con una nota
in cui si diceva che Mussolini era ansioso di parlare col Generale Cadorna e
Marazza. Il rappresentante del CLNAI si congedò immediatamente per consultarsi
coi suoi colleghi ed andare a prendere il Generale Cadorna, ma ci fu qualche
ritardo prima che potesse trovarlo. Nel contempo Mussolini arrivò alla Curia e
per oltre un'ora conversò con il Cardinale che cercava di convincerlo ad
arrendersi. Durante questa conversazione, stando alla versione del Cardinale
Schuster, Mussolini espresse le sue intenzioni di lasciare Milano con 3000
Camicie Nere e di ritirarsi in Val Tellina per fare un'ultima resistenza prima
di arrendersi. Quando i rappresentanti del CLNAI giunsero (in aggiunta a Cadorna
e Marazza venne anche l'ing. Lombardi, ora Prefetto di Milano), essi trovarono
delle guardie delle SS all'ingresso del palazzo dell'Arcivescovo e dei militi
fascisti allineati lungo la scalinata. Essi entrarono nella Curia e Mussolini
chiese che Graziani dovesse essere presente. Il Ministro dell'Interno (della
RSI, N.d.R.), Zerbino, ed il Sotto-Segretario Barracu, vennero pure. Mussolini
apparve a Marazza come un relitto umano. Egli disse "Cosa avete da dire".
Marazza replicò che egli era stato invitato per conferire ed egli pensava che
Mussolini avesse qualcosa da proporre. Il Generale Cadorna indicò che tutti loro
erano venuti per ricevere la resa incondizionata di Mussolini. Mussolini sembrò
infastidito da ciò e rispose che si era aspettato una discussione amichevole e
sembrò aspettarsi alcune concessioni nelle formalità di resa. Marazza replicò
che queste erano questioni di trascurabile importanza e potevano essere
organizzate e Mussolini allora si calmò e sembrò disposto ad accettare la resa
incondizionata. A questo punto, comunque, Graziani intervenne e ricordò al suo
capo gli obblighi della loro alleanza con la Germania. Per lui era una questione
di onore agire solamente in comune accordo con gli alleati tedeschi. Ci fu
qualche discussione ed uno degli astanti (può darsi si trattasse di Zerbino)
indicò che egli aveva di recente avuto informazioni del fatto che i Tedeschi
erano occupati da qualche tempo nel cercare di negoziare una resa propria ed
avevano proposto come uno dei termini di questa resa il disarmo della milizia
Fascista da parte delle truppe tedesche. Questa affermazione prese Mussolini
completamente di sorpresa e lo fece cadere in una violenta collera sbraitando
fortemente contro i Tedeschi. Egli protestò vigorosamente (secondo il Cardinale)
"essi ci hanno trattato come schiavi ed adesso essi ci tradiscono". Egli
dichiarò di dover andare dai Tedeschi e dire loro ciò che egli pensava di essi
chiedendo ai membri del CLNAI se essi sarebbero stati contenti di accompagnarlo.
Questi ultimi declinarono (l'invito, N.d.R.). Il Cardinale convinse Mussolini a
non dire ai Tedeschi che egli conosceva i loro segreti negoziati poiché vi era
il pericolo che essi volessero negare ciò che aveva avuto luogo e volessero
quindi continuare a combattere. Mussolini allora partì, dopo aver detto che
sarebbe stato di ritorno entro un'ora per definire le trattative. Egli non tornò
ma, mentre Marazza aspettava con Cadorna e Lombardi, il console tedesco Wolff
(da non confondere con il generale Wolff in quel momento fuori dall'Italia,
N.d.R.) venne per dire che il ritardo era probabilmente dovuto alle difficili
comunicazioni e chiese ai rappresentanti del CLNAI di pazientare specialmente in
virtù del fatto che il Generale Von Vietinghoff stava emanando un proclama alle
sue truppe per dire che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per
mitigare il loro destino. Dopo aver aspettato ancora, Marazza telefonò in
Prefettura e gli fu detto che Mussolini era già partito per il suo sfortunato
tragitto».
(Vedi: A. De Felice: "Il gioco delle ombre" www.alessandrodefelice.it).
Da come si riscontra, questa raccolta di notizie, in parte imprecisa, fatta
all'epoca dagli americani, ruota sull'equivoco dell'intenzione di trattare una
resa da parte di Mussolini, del resto già parzialmente smentito nel testo
stesso, dove il Duce afferma di volersi ritirarsi verso la Valtellina con 3.000
Camice Nere e poi si racconta della sua veemente reazione per aver appreso delle
trattative di resa dei tedeschi, una irritazione che in parte potrebbe essere
stata esagerata al fine di riappropriarvi verso i tedeschi di ogni libertà di
azione, ma sarebbe fuori luogo e assurda se anche lui si fosse recato in Curia
con le stesse intenzioni, ma sostanzialmente la cronaca di quegli avvenimenti è
più o meno quella.
Noi, epurandola da ogni faziosità propagandista possiamo anche riassumerla
partendo dai momenti seguenti all'arrivo dei rappresentanti della RSI. i quali
visto che erano arrivati prima, si intrattennero nel frattempo in anticamera in
colloqui di varia natura con l'ambiente della Curia tra cui monsignor Giuseppe
Bicchierai (incaricato dei rapporti tra la Curia e il CLNAI e i tedeschi),
monsignor Eclesio Terraneo, segretario dell'Arcivescovo, ecc., mentre il Duce si
apparterrà con il cardinale Idelfonso Schuster il quale lascerà poi ai posteri
alcuni melliflui ricordi di quel colloquio per i quali non c'è da fidarsi troppo
circa la loro attendibilità.
Certo è che l'infido Cardinale, pur conoscendo le trattative per la resa
intessute con i tedeschi, pregava Mussolini affinchè accettasse una
capitolazione, magari anche una sua consegna in Curia. Si dice, ma non è
accertato, che gli aveva già fatto preparare una cameretta per accogliere il
prezioso "prigioniero", quel che sembra certo è invece il fatto che nei pressi
dell'Arcivescovado stava attendendo la consegna del Duce, l'ufficiale italo
inglese Max Salvadori, ufficiale inglese di collegamento tra il Comando Alleato
ed il CLNAI, dicesi per prendere in consegna il Duce per conto degli Alleati.
È una notizia questa che sconcerta perchè proprio quella mattina, nella decisiva
riunione del CLNAI (tenutasi nella biblioteca del Collegio dei Salesiani di via
Copernico 9) il Salvadori aveva sollecitato i capi della Resistenza ad agire
autonomamente nei confronti di Mussolini visto che ne avevano l'autorità per
farlo, fino all'arrivo delle truppe Alleate. In pratica era un sottile invito a
farlo fuori alla svelta.
È significativo che il Duce, in questa specie di colloquio, considerasse finita
la RSI ed esprimesse il desiderio di ritirarsi in Valtellina con i fascisti che
avessero voluto seguirlo.
Disse Mussolini, parlando evidentemente in termini generici, intenzionali e
comunque subordinati dagli eventuali futuri avvenimenti:
«Il mio programma comprende due parti e due tempi diversi. In un primo tempo,
domani [26 aprile] l'esercito e la GNR saranno sciolti. In quanto a me, ho
deciso di ritirarmi in Valtellina con una schiera di tremila Camice Nere».
Schuster avrebbe replicato:
«Non illudetevi, duce. io so che le Camice nere che vi seguiranno non sono che
trecento e non tremila come vi si fa credere» [9].
Sorridendo mestamente Mussolini replicò:
«Forse saranno un po' di più, ma non di molto. Non mi faccio illusioni"».
Storica rimase anche un ultima battuta di Mussolini, in risposta al Cardinale
che gli parlava della Storia e del suo giudizio:
«Ella mi parla della Storia. Io credo solo alla storia antica, quella cioè che
viene redatta senza passione e tanto tempo dopo».
Finite queste "confidenze" tra il Duce e il Cardinale, Mussolini restò con il
regalo avuto dall'alto prelato: un suo libro su la "Storia di San Benedetto" che
mise in una busta e che non leggerà mai.
Nel frattempo il maresciallo Graziani, dall'Arcivescovado, aveva scritto un
biglietto alla moglie, la marchesa Ines, ospite delle "Suorine di Maria Bambina"
che accudiscono il Cardinale:
«Scrivo qui dall'Arcivescovado, dove mi trovo con il Duce presso il Cardinale.
Si stanno trattando questioni di eccezionale importanza, alle quali non è
estranea l'azione decisa da me svolta su Mussolini in questi giorni. ...Forse è
vicino il momento che un raggio di sole possa risplendere finalmente sulle
tenebre che ci hanno avvolto in questo tremendo periodo».
Ma ancor più, durante quell'attesa dei delegati ciellenisti, sembra che don
Bicchierai si lasciò scappare la notizia che stavano attendendo in Curia
l'arrivo del generale Wolff per firmare la resa, al che un allarmatissimo
prefetto Bassi avvertì immediatamente il maresciallo Graziani il quale
confermerà il particolare nel suo libro di memorie. Stranamente però la faccenda
non venne subito riportata alle orecchie di Mussolini che la verrà a conoscere
in modo dramatico poco dopo in piena riunione.
Giunsero alfine, da una entrata secondaria del palazzo, i delegati della
Resistenza Raffaele Cadorna, comandante del CVL (Corpo Volontari della libertà,
praticamente la struttura armata della resistenza), l'avvocato Achille Marazza
esponente della Democrazia Cristiana nel CLNAI, Riccardo Lombardi del partito
d'Azione e già prefigurato Prefetto di Milano. Mancano i socialisti e i
comunisti. Giustino Arpesani (liberale nel CLNAI) arriverà invece
successivamente a riunione in corso.
La "trattativa" in Arcivescovado
Iniziata la riunione, con Mussolini che chiede quali novità e condizioni gli si
vuol far conoscere, occorre sottolineare che, cambiando le carte in tavola
rispetto alle premesse che avevano portato all'incontro, i delegati del CLN,
consenziente il Cardinale, per bocca di Marazza, chiedono subito la resa
incondizionata dei fascisti, determinando immediatamente l'impasse per eventuali
trattative.
Già qui c'è da rilevare il non indifferente particolare che i rappresentanti
della resistenza erano privi dei delegati socialisti e comunisti (oltre che di
importanti esponenti come Longo, Mattei, Parri, ecc.) e se guardiamo bene,
questi rappresentanti "moderati" della Resistenza rappresentavano più che altro
se stessi e avevano avuto fino allora un loro ruolo solo in virtù delle
coperture concessegli dagli Alleati.
Mussolini non poteva non rilevare e soppesare questa carenza di
rappresentatività nei suoi interlocutori, ma addirittura se, ipoteticamente,
Mussolini avesse anche accettato una resa incondizionata, non si capisce come le
autorità cielleniste avrebbero potuto, in quel momento totalmente prive di
qualsiasi consistenza militare in città, prendere possesso dei palazzi
governativi (la Prefettura la si dovette far occupare, alle 6 del mattino
successivo, mentre le formazioni fasciste sgombravano Milano, dalla Guardia di
Finanza) e delle migliaia di fascisti e militi della RSI che si sarebbero dovuti
consegnare, senza patteggiare "condizioni" per e richieste a Mussolini per
l'utilizzo delle forze armate della RSI.
Come si vede quindi, tutto il contesto di quella vicenda lo si è voluto
propagandisticamente manipolare per dipingere la riunione all'Arcivescovado
sotto una luce che non è proprio quella che si ebbe nella realtà.
Mussolini che era arrivato a quella riunione senza alcuna preclusione
ideologica, del resto assurda data la situazione, e con l'intento di lasciare
completamente il campo ed il potere al CLN a patto che consenta un deflusso
incruento delle forze fasciste verso la Valtellina, ed in questo disponibile
anche a lasciare forze militari della Repubblica e della GNR (Guardia Nazionale
Repubblicana) in funzione di ordine pubblico (tutti intenti questi che, giocando
sull'equivoco delle parole, faranno poi sostenere una sua presunta, ma
inesistente volontà di arrendersi alla Resistenza), di fronte ad una richiesta
di resa incondizionata si mostra meravigliato e ribadisce che lui non è lì per
concedere tanto.
Egli chiede comunque di conoscere i termini precisi dell'accordo. Racconta Ezio
Bacino, in una delle prime ricostruzioni dell'incontro, che il Duce così
dicendo, si raddrizza sul busto, gonfia il petto e con mano ad artiglio
avvinghia il bracciolo del divano:
«Mi era stato detto che avrei ottenuto la salvaguardia dei fascisti e delle loro
famiglie e la resa onorevole per le truppe» dice Mussolini.
[10]
Gli si risponde che, comunque, tale configurazione di resa offrirebbe garanzie
personali agli sconfitti ed in particolare alle loro famiglie.
In pratica il progetto che il cardinale Schuster sperava, beato lui, di far
approvare verteva più o meno su tre punti:
1. l'esercito e le formazioni fasciste, compresa la Decima Mas e la
Legione Muti, deposte le armi, si sarebbero consegnati prigionieri, ottenendo
gli onori militari a norma della convenzione dell'Aja e gli ufficiali il
mantenimento dell'arma;
2. ai familiari dei fascisti sarebbe stata garantita l'incolumità fisica
e la protezione degli averi;
3. il Duce sarebbe stato considerato prigioniero di guerra e consegnato
agli Alleati.
Lombardi, che assume la veste del più ostico, aggiunge che le modalità di una
eventuale intesa saranno concordate, ma prima bisogna firmare. È un prendere o
lasciare. Di fatto la fine di una trattativa mai iniziata.
In ogni caso preciserà subito Graziani, a scanso di equivoci:
«Duce non si può trattare una resa in questo modo, dobbiamo avvertire i camerati
tedeschi. La fedeltà verso di loro è la causa e la giustificazione della mia
linea di condotta».
È forse a questo punto che qualcuno, probabilmente con il nascosto fine di
ammorbidire le posizioni dei fascisti. accennò alle trattative di resa
intraprese in segreto dai tedeschi con la Curia, particolare, come abbiamo già
detto, che sembra già don Bicchierai si era lasciato sfuggire prima in
anticamera,. Di fronte allo sconcerto che subentra tra i fascisti il ministro
Zerbino, altri dicono Graziani, interverrà per segnalare quanto già conosceva:
«Duce, Bassi conosce fatti nuovi ed eccezionali, che noi non sappiamo».
Viene quindi ascoltato Bassi che rivela quanto precedentemente appreso circa le
trattative segrete per una resa svolte dai tedeschi all'insaputa degli italiani.
Altra versione narra invece che fu il maresciallo Graziani ad avvisare Mussolini
il quale, sorpreso, guardò interrogativamente il cardinale Schuster che gli
confermò la notizia, aggiungendo che però i tedeschi non avevano ancora firmato,
ma avevano promesso di farlo entro 24 ore (come sappiamo, invece, i tedeschi
avevano finalizzato le loro trattative direttamente con gli Alleati in
Svizzera).
Comunque sia il cardinale Schuster, dichiarandosi dispiaciuto che certe
informazioni siano trapelate, decide di andare a prendere i suoi appunti in
merito che poi leggerà agli astanti.
Si vengono quindi a conoscere i vari passi fatti dai tedeschi, tra i quali anche
la loro proposta di disarmare le Brigate Nere.
L'effetto di quella rivelazione, se finalizzato a disorientare ed ammorbidire i
fascisti, fu però diverso, perché i fascisti e soprattutto Mussolini ebbero una
reazione indignata ed istintiva che pose fine ad ogni ulteriore discussione del
resto già impossibile.
Per la precisione bisogna anche sottolineare, tanto per cambiare, che non è
assolutamente certo "il come" questa faccenda della resa tedesca uscì fuori nel
corso della riunione e venne esplicitata durante l'incontro. Le memoria di
Cadorna, Lombardi, Graziani, ecc., e le varie ricostruzioni storiche, ne danno
tutti una diversa sequenza e mettono in bocca, ora a questo, ora a quest'altro
personaggio, e con parole diverse, il fatto di aver reso note le trattative in
atto dei tedeschi.
Ma anche in questo caso l'aspetto non riveste un grande interesse visto che,
oltretutto, precedentemente in anticamera, alcuni esponenti fascisti ne erano
già venuti a conoscenza.
Si immagini comunque la vacuità e impraticabilità dei tre punti precedentemente
accennati, sui quali verteva la discussione e a cui, per la mancanza dei
rappresentanti socialisti e comunisti, non si poteva fare alcun affidamento.
Proprio quel mattino, oltretutto, il CLNAI, dietro l'operato del Comitato
Insurrezionale antifascista aveva emesso il suo famoso Secondo Decreto, quello
sull'Amministrazione della giustizia, che all'art. 5 affermava:
«I membri del Governo fascista e i gerarchi del fascismo, colpevoli di aver
contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, di aver distrutto
le libertà popolari, creato il regime fascista, compromessa e tradita la sorte
del paese, e d'averlo condotto all'attuale catastrofe, sono puniti con la pena
di morte!».
Non è certo se la discussione o meglio il parapiglia si interruppe a quel punto.
In ogni caso la discussione era andata comunque avanti anche dopo la richiesta
di una resa incondizionata e questa "appendice" di riunione la si è voluta far
passare come una intento di Mussolini di trattare "ugualmente" una sua resa, ma
il particolare non vuol dire nulla, se non forse per il fatto che Mussolini,
conscio di aver comunque, deciso di abbandonare Milano a sera, evidentemente
sperava di strappare qualche accordo transitorio che garantisse il deflusso in
modo incruento del governo e dei fascisti e qualche garanzia per eventuali
familiari che restavano in città.
Ma, di fatto, ogni ipotesi di trattativa era irrimediabilmente tramontata sia
dopo la richiesta di una resa a discrezione e tanto più dopo l'annuncio della
resa tedesca.
Per riassumere, quindi, Mussolini, invitato il 25 aprile pomeriggio in
Arcivescovado per trattare quello che gli hanno fatto credere un possibile ed
incruento passaggio dei poteri o comunque una "resa" tra virgolette,
condizionata, che lo lasci libero di ritirarsi verso la Valtellina, si era
trovato invece di fronte ad una richiesta di resa incondizionata, magari con
tanto di sua consegna al nemico, questo infatti era il mandato con il quale i
tre esponenti della resistenza erano venuti all'incontro.
E ovvio che i rappresentanti della RSI restarono tutti spiazzati e sorpresi,
compreso il maresciallo Graziani, che pur era suo intendimento chiudere al più
presto quella pagina di storia, ma non con una resa incondizionata, unilaterale
e oltretutto non all'insaputa dei tedeschi.
Ed è proprio la presenza di Graziani, non solo ministro militare del Governo
repubblicano, ma anche Comandante dell'Armata "Liguria", a sua volta dipendente
dal Comando Superiore Germanico, che smentisce ogni intenzione di resa da parte
di Mussolini. Nel caso di una resa tedesca infatti, si doveva arrendere anche
Graziani, ma una resa di Graziani, di nascosto dei tedeschi, sarebbe stata non
solo infamante, ma anche impossibile.
Ed anche il fatto che in Curia sia stata resa nota una segreta trattativa di
resa dei tedeschi, non cambia le cose e non autorizzava i fascisti a procedere
per conto loro.
In sostanza, non solo la strategia mussoliniana prima accennata, esclude
assolutamente una sua qualsiasi intenzione di resa al CLN, intesa come fine di
ogni suo agire politico e militare e magari una sua consegna al nemico, ma è
ulteriormente ridicolo pensare che Mussolini avrebbe potuto arrendersi a questi
cosiddetti capi della Resistenza che, nonostante una certa agiografia
resistenziale, a posteriori, abbia voluto ingigantire nelle loro reali
consistenze, erano ben poca cosa (in Arcivescovado, a Cadorna che minacciava di
avere 50.000 uomini armati, Graziani battendo il pugno sul tavolo rispose: «tu
hai 50.000 c...!»).
Mussolini quindi sapeva perfettamente che questi "capi" (tra l'altro tutti
individuati nei giorni precedenti dalla polizia fascista nei loro nascondigli,
ma da lui lasciati indisturbati sotto le tonache dei preti), poco o nulla
contavano ed il loro seguito in quel momento era ancora militarmente scarso
(alcune discrete divisioni partigiane erano ancora lontane) e comunque inferiore
al sia pur esiguo potenziale militare dei fascisti ancora in armi.
Mussolini e gli altri esponenti della RSI potevano essere disperati per la loro
situazione senza vie di uscita, ma non erano degli ingenui o dei pazzi, e
certamente non avrebbero mai contrattato una resa con questo effimero CLN che,
oltretutto, visto che la sua sola e reale consistenza militare clandestina era
quella comunista, neppure poteva garantire l'esecuzione degli accordi e la
sicurezza di chi si sarebbe arreso.
Arrendersi a questa Resistenza sarebbe stato assurdo, ma ovviamente oggi questo
non lo si fa rilevare per non inficiare l'immagine coreografica di una mai
avvenuta "insurrezione" del 25 aprile.
Se Mussolini avesse voluto arrendersi in quel momento e salvarsi in qualche
modo, in definitiva consegnandosi agli Alleati, non aveva senso cercare di farlo
tramite il CLNAI, per giunta orbo delle frange comuniste, ma lo avrebbe fatto
direttamente, trincerandosi in città e attendendo il loro l'imminente arrivo,
più o meno quello che fecero i tedeschi dopo aver contrattato in Svizzera la
resa relativa alle loro forze armate stanziate in Italia.
Mussolini sapeva perfettamente che stava andando verso la sconfitta e quindi
verso una resa che gli Alleati gli avevano ben fatto capire doveva essere
incondizionata.
Era solo questione di giorni, se non di ore, ma quelle ore il Duce voleva
utilizzarle per giocarsi qualche carta in virtù delle sue documentazioni e nella
speranza di un qualsiasi spiraglio che potesse aprirsi all'ultimo minuto.
Era anche sensibile ad evitare ulteriori distruzioni e un probabile bagno di
sangue, sapendo bene che a rimorchio delle armate Alleate e in conseguenza del
rifluire delle formazioni fasciste le strade e le piazze si sarebbero riempite
di "partigiani dell'ultim'ora" e di elementi incontrollabili e assetati di
vendette.
Ed è per questo che aveva cercato il "contatto" con le componenti della
Resistenza ed alla fine aveva privilegiato la mediazione della Curia, per
trattare il trapasso dei poteri e spuntare qualche garanzia che questo trapasso
fosse "indolore".
Per lui le trattative di resa con il CLNAI, come abbiamo precedentemente
illustrato, se proprio vogliamo usare questa parola, riguardavano il territorio,
nella fattispecie la Lombardia che veniva evacuata dal governo e dai fascisti
(ma del resto quasi tutta l'Italia era oramai andata), lasciando il posto alle
nuove autorità cielleniste.
È normale quindi che in Arcivescovado Mussolini, di fronte ad una richiesta
unilaterale di resa, ne esce infuriato e spiazzato dalla informativa, appresa in
quella sede, sugli accordi segreti per una imminente resa tedesca che rendeva
ora veramente problematico lo sganciamento finale dei fascisti.
In Curia quindi, prima minaccia di denunciare la scorrettezza tedesca alla
radio, cosa che getta preoccupazione per gli eventuali contraccolpi di un
annuncio del genere (sembra che poi Graziani si incaricò di farlo desistere da
questa iniziativa), poi lascia detto "diplomaticamente" che farà sapere le sue
decisioni, in realtà già prese e se ne viene via tornando in Prefettura a Corso
Monforte.
Scriverà Graziani:
«Egli dominò la riunione dal primo all'ultimo momento, quando si alzò di scatto
per uscire, come se fosse stato in una delle tante riunioni di Palazzo Venezia».
Famose resteranno le parole del Duce, riferite ai tedeschi:
«Ci hanno sempre trattato da servi, ora ci pugnalano alle spalle.. Mi hanno
tradito. Sin da questo momento dichiaro di riprendere nei confronti della
Germania la mia libertà d'azione».
Testimonierà Pietro Carradori, il suo attendente, che si trovava in quei
frangenti nei pressi del Duce che questi, venuto a conoscenza della imminente
resa tedesca :
«... Mussolini si mostrò non soltanto sorpreso, ma palesemente indignato, e dopo
momenti di pesante tensione e di un silenzio che si poteva tagliare a fette,
annunciò al Cardinale la sua decisione: "Alle otto di stasera lasceremo Milano.
Non voglio che per causa mia sia sparso altro sangue"».
Una indiretta ed ulteriore conferma, di come stanno esattamente le cose,
oltretutto, l'abbiamo dal successivo ed immediato comportamento del Duce, venuto
via dall'Arcivescovado, quando si scagliò violentemente contro l'industriale e
factotum Gian Riccardo Cella che aveva svolto la prassi mediatrice proprio per
realizzare l'incontro dal cardinale Schuster.
Lo accusò e con lui la Curia e i cosiddetti capi della resistenza, di volerlo
fare arrendere ed ingabbiare quella sera stessa in città. Ma in quelle ore si
scagliò anche contro i tedeschi rei di aver intrapreso trattative di resa
all'insaputa degli italiani, mettendo in crisi tutte le strategie militari della
repubblica.
In ogni caso, se vogliamo dirla tutto, possiamo anche considerare il fatto che
il Duce non poteva non sapere che i tedeschi stavano tramando qualcosa e che
probabilmente sarebbero arrivati ad una resa e quindi, in buona parte, la sua
reazione contro di essi fu anche calcolata, nell'ottica di potersi
riappropriare, sull'onda emotiva di una denuncia del loro grave inadempimento,
di ogni sua liberta di azione, ma è altrettanto plausibile che il venirlo a
sapere all'improvviso il quel frangente ed in quella riunione, gli scombinò
anche tutti i programmi che si era prefissato nelle prossime ore.
Il Duce poi, non mancò neppure di accennare ad un imminente e peggior 25 luglio,
riferendosi evidentemente a quanto aveva ben percepito in quelle ore, ovvero che
le Istituzioni e le varie strutture della repubblica stavano oramai defilandosi
per passare armi e bagagli dalla parte dei vincitori (Guardia di Finanza in
testa). Un atteggiamento, quindi, quello di Mussolini, che indica chiaramente
che lo stesso si era recato a quella riunione con ben altri intenti di quelli di
voler trattare una capitolazione.
Sono poi tutte leggende quelle che, per esempio, narrano che fu Sandro Pertini,
oltretutto giunto in Arcivescovado quando Mussolini se ne stava andando, che
fece saltare le presunte "intenzioni di arrendersi di Mussolini". È questo un
equivoco, malevolo e voluto, che si gioca tutto su la differenza, che sembra
piccola, ma è profonda, tra un "trapasso dei poteri" ed una "resa incondizionata
al nemico" e che farà millantare al Pertini meriti che non ha mai avuto.
Era accaduto, infatti, che uscito Mussolini, arrivò in Arcivescovado un
irascibile Pertini, alquanto infuriato, seguito poi dal comunista Emilio Sereni:
«Dove sono andati? Dov'è Mussolini? Perché lo avete lasciato andar via?
Bisognava trattenerlo, prenderlo». E giù una filippica di Pertini contro il
Cardinale e contro i delegati ciellenisti rei a suo dire di aver voluto
"trattare" con Mussolini [11].
Tutta una sceneggiata che però da il senso di quanto si vorrebbe fare con il
Duce.
In curia sopraggiunse anche il console tedesco Wolff (da non confondere con il
generale Wolff che in quel momento si trovava fuori dell'Italia) per
giustificare i ritardi delle notificazioni dei tedeschi circa le trattative di
resa (in realtà i tedeschi avevano oramai tagliato fuori la mediazione della
Curia).
Sarà l'ex prefetto Carlo Tiengo, un ex ministro legato alla massoneria, che poco
dopo avvertirà Mussolini delle intenzioni omicide nei suoi confronti.
La presenza del Tiengo, comunque, pone grossi interrogativi sul ruolo giocato
dalla massoneria in quei frangenti ed in ogni caso occorre dire subito che non
fu certamente questo avvertimento di Tiengo che spinse Mussolini a non tornare
in Arcivescovado, perchè tutto il suo comportamento, nei minuti successivi alla
sua uscita dalla Curia, dimostrano chiaramente che il Duce aveva immediatamente
già deciso di troncare ogni trattativa del resto impossibile.
Altrettanto grossi interrogativi li sollevano la presenza in Arcivescovado di
"agenti dell'Oss" quali quel Giuseppe Cancarini Ghisetti, definito il
"partigiano combattente dei servizi segreti", entrato a far parte della
"formazione spionistica Nemo" e già artefice, fin dall'ottobre del 1944 della
collusione con gli Alleati del colonnello delle SS Eugen Dollmann e in seguito
impegnato nelle trattative di resa tra il generale delle SS Karl Wolff e il
cardinale Ildefonso Schuster.
È anche interessante sapere che dopo la caduta di Roma, Ghisetti, dietro
disposizioni dell'Oss seguì il suo superiore Temistocle Testa (prefetto e poi
Governatore della città durante la RSI) a Milano. Qui dirigerà l'Ufficio
intendenza del Ministero dell'Interno preposta alla sovra intendenza di tutto il
traffico dei trasporti, compresi i convogli automobilistici vaticani.
A questo proposito il valente ricercatore storico di Parma Franco Morini scrisse
in un suo articolo questa osservazione:
«È interessante notare che anche Nadotti (l'ingegnere Giovanni Nadotti, tenente
segretario e braccio destro di Romualdi che da Parma lo seguirà a Milano quando
Romualdi diverrà vice segretario del PFR, N.d.R.), quando fu trasferito a Milano
al seguito di Romualdi nell'autunno-inverno del 1944, fu anch'egli incaricato di
dirigere e controllare l'autoparco della Brigata Nera. Proprio questo incarico
permetterà a Nadotti e Ghisetti di avere fra loro assidue relazioni, senza con
ciò destare alcun sospetto, dati i loro stretti rapporti d'ufficio; per una rete
spionistica, ciò significava essere continuamente al corrente dei vari
spostamenti dei principali mezzi di locomozione civili e militari, nonché poter
fruire dei mezzi stessi con la massima copertura anche in eventuali operazioni
segrete».
Questo, tanto per dare il senso del quel "nido di serpi", di quella equivocità
di ambienti e situazioni con cui dovette confrontarsi il Duce nelle sue ultime
ore di vita.
Come già accennato, giornalisti che non hanno il senso del limite, sono anche
arrivati a sostenere tesi che davano per scontato il fatto che Mussolini e
Wolff, ciascuno per conto suo, stavano cercando di trattare una resa
all'insaputa dell'altro. Quando, non solo è evidente e comprovato, che Mussolini
non avrebbe mai ripetuto un "8 settembre", ma altresì, pur volendolo fare, non
avrebbe avuto alcuna possibilità di agire in questo senso, di nascosto dai
tedeschi ed oltretutto si recò in Arcivescovado dietro la loro attenta
osservazione.
Affermerà il maresciallo Graziani (nel suo "Una vita per l'Italia", Mursia
1986):
«Così si chiuse la riunione presso l'Arcivescovado poggiata sull'equivoco di
voler occultare fino all'ultimo momento un fatto così importante come la resa
tedesca e considerare quella fascista indipendente da essa. Sia precisato che
non poteva trattarsi se non delle formazioni del partito (tra l'altro quelle che
avrebbero voluto arrendersi, perché le altre avrebbero seguito il Duce in
ripiegamento, N.d.R.); non già delle Divisioni le quali inserite com'erano nello
schieramento avanzato, avrebbero dovuto seguire la sorte delle truppe tedesche.
Mussolini ritenne e lo disse al ritorno al palazzo del governo che "si trattava
di un espediente inscenato per incapsularlo quella notte in Milano con tutto il
governo».
Tra le tante interpretazioni di quell'incontro e le tante sue ricostruzioni,
tutte difformi una dall'altra, colui che forse colse in pieno la realtà delle
cose è stato l'avvocato Alessandro Zanella che nel suo "L'ora di Dongo", Rusconi
1993, ebbe a scrivere:
«(Mussolini) ... non vuole salvarsi sotto le sottane di Schuster, così come teme
di finire rinchiuso nella torre di Londra o al Madison Square Garden, zimbello
dei nuovi potenti del mondo. Evita anche una edizione italiana del processo di
Norimberga, come dirà anche Churchill,... perché vuole ad ogni costo che la sua
vicenda politica ed umana vada a concludersi con il rispetto che merita e non in
un circo con la folla vociante e impazzita dall'odio».
Mussolini lascia Milano
Spendiamo adesso qualche parola per illustrare anche il resto di quella
maledetta giornata del 25 aprile, i cui avvenimenti e testimonianze renderanno
ancora più comprensibile la nostra precedente ricostruzione dell'incontro in
Arcivescovado.
A Milano, nel corso della giornata, si stavano manifestando, un po' dappertutto,
i soliti sintomi di squagliamento tipici di queste situazioni. Ci sono militi e
addetti a funzioni di natura militare o di polizia che non tornano nei reparti
di appartenenza, vari funzionari e impiegati negli uffici governativi che
preferiscono non presentarsi al lavoro, scioperi e così via.
Del resto era noto che il capo della Polizia Renzo Montagna, interpretando a
modo suo le disposizioni del Duce circa l'uso dell'applicazione di una certa
clemenza, era venuto a mettere l'uniforme della polizia repubblicana a individui
di ogni provenienza e perfino a partigiani.
Il generale Filippo Diamanti, comandante militare regionale per la Lombardia,
come abbiamo visto fu sentito affermare che "era tempo di togliersi i gladi e di
rimettersi le regie stellette" palesando con la sua mentalità da "militare"
quello che si sarebbe verificato con l'Esercito repubblicano.
Ricorda il federale di Milano Vincenzo Costa:
«... appena Mussolini si diresse verso l'Arcivescovado, io tornai in piazza San
Sepolcro. Notai che la circolazione tranviaria era completamente arrestata. Una
calma apparente gravava sul centro cittadino. In Galleria, padre Eusebio stava
parlando a qualche centinaia di fascisti, che lo ascoltavano silenziosi con le
armi al fianco... Alle 16, improvvisamente, incominciarono a suonare le sirene
di tutti gli stabilimenti e del dispositivo antiaereo. Intuimmo subito che quel
segnale annunciava l'insurrezione antifascista. Ma i partigiani non apparivano».
Insomma si stava creando in città un clima surreale, ma esclusa qualche
revolverata in periferia o nei pressi di qualche stabilimento industriale,
questa storica insurrezione del 25 aprile, nessuno l'ha vista. Le sorti della
Repubblica in ogni caso erano, di fatto, legate a quelle della guerra e, come
disse Bruno Spampanato nel suo "Contromemoriale", improvvisamente non si ebbero
più notizie proprio della guerra, mentre nessun piano era stato predisposto per
queste emergenze.
Racconta il questore Secondo Larice:
«Poco prima di mezzogiorno si era cominciato a parlare di una probabile
partenza, ma nulla sembrava deciso non essendo pervenute le notizie che si
attendevano dalla Valtellina, dal generale Onori».
Per inquadrare bene le intenzioni di Mussolini di lasciare Milano, prima ancora
dell'incontro pomeridiano in Arcivescovado, è anche utile leggere quanto
riportato da M. Viganò nel suo "Mussolini, i gerarchi e la fuga in Svizzera" già
citato:
«In effetti, ancora in un colloquio a Milano il 25 aprire mattina con Garobbio,
il funzionario originario del Canton Ticino, [12]
il Duce esclude la scappatoia della Svizzera e annuncia il ripiegamento su Como:
"Fra qualche giorno andremo a Como. In prefettura vi diranno dove mi potrete
trovare. Poi proseguiremo per la Valtellina. Perché non venite anche voi?".
"Potrei ben venire", gli dico un'altra volta traducendo dal dialetto. "Gli
svizzeri mi hanno offerto questa volta l'ospitalità". Una pausa: "Ho risposto
che non vado in Svizzera (…) cosa avete intenzione di fare?". "Non ho ancora
deciso ma, dovendo lasciare Milano, pensavo di rientrare a casa mia...".
"Dove?". "A Moltrasio". "Sulla sponda occidentale del lago", precisa e, dopo una
pausa: "Rientrate in seno alla vostra famiglia e, dopo due o tre giorni, venite
da me a Como. Ho dato disposizioni che i fascisti si concentrino nel triangolo
Milano-Lecco-Como. Poi proseguiremo per la Valtellina. In Valtellina potreste
essere utile, conoscete la terra, la gente. Perché non venite con noi?", ripete,
e stavolta non traduco al dialetto: "Verrò senz'altro, duce". Scambiamo ancora
qualche frase, torno ad esprimere la mia preoccupazione per un colpo di testa
tedesco che si risolverebbe ai nostri danni, il colloquio finisce: mi presenterò
al duce a Como, fra qualche giorno» (Vedi Garobbio, "A colloquio con il Duce").
Fernando Feliciani, già vice comandante della GIL, ora alla Divisione Italia,
come capitano dei bersaglieri, amicissimo del ministro Mezzasoma, racconterà:
«Mi incontrai con Mezzasoma alle 12 circa, dopo che alla sede del partito (in
via Mozart) avevo riscontrato confusione e disorientamento... Mezzasoma (che era
sereno, pur non nascondendo la drammaticità del momento) mi comunicò che nel
pomeriggio tutti i membri del governo si sarebbero ritrovati in Prefettura per
poi trasferirsi a Como».
Mussolini che come si vede dalla testimonianza di Feliciani aveva deciso di
lasciare Milano prima ancora di recarsi da Schuster, tornato in Prefettura a
Corso Monforte, dopo l'incontro all'Arcivescovado, decide quindi di lasciare
Milano a sera intorno alle 20, in coerenza con la sua intenzione di
decruentizzare la fase finale della guerra e per avere ancora mano libera nel da
farsi visto che ora, i tedeschi con la loro intenzione di firmare una resa,
trattata unilateralmente e di nascosto, lo dovranno giocoforza liberare
moralmente.
Giustamente osserva il Viganò, nel suo saggio "Mussolini, i gerarchi e la fuga
in Svizzera":
«Chi scrive ha maturato, dopo anni di indagini, una convinzione induttiva: se
Mussolini si trasferisce da Gargnano a Milano per seguire in modo diretto le
varie trattative in corso per una resa a condizioni, che salvaguardi le vite dei
suoi subordinati; se si rende conto che tali trattative sono state piegate da
questo o quel collaboratore a fini assai più personali di autoconservazione; se
realizza il 25 aprile nel colloquio in arcivescovado di esser stato attratto in
una "trappola", un "nuovo 25 luglio"; se dopo avere assistito al fallimento di
tale trattativa, spacciatagli per seria, viene bersagliato di minacce di morte
da esponenti del "Comitato insurrezionale" -leggasi Pertini-; se è al corrente
che ormai le forze tedesche in Italia sono in stato prearmistiziale e non è più
caso di collegare la difesa fascista -la Valtellina- a quella nazista -la
Baviera-; se conosce l'ordine d'insurrezione nazionale diffuso dal CLNAI; ebbene
non gli resta che un atto politico: "neutralizzare" l'insurrezione togliendogli
un obiettivo primario, cioè il "nemico"».
E più oltre il Viganò, nel suo stesso saggio, afferma anche:
«La sera del 25 aprile 1945 Mussolini lascia Milano, dove si era trasferito il
18 convinto con tutta probabilità di poter trattare con la controparte un
accordo di resa a condizione. Fallite tutte le mediazioni -peraltro confuse, e
spesso interessate- a causa del crollo del fronte italiano e germanico in
Italia, come pure nel Reich, abbandona il capoluogo ambrosiano e raggiunge Como
dove da mesi ha stabilito di ripiegare quale località più favorevole per
difendersi, trattare con emissari inglesi o raggiungere il debole ridotto della
Valtellina, in attesa degli Alleati cui consegnarsi. "Depotenziata" in una certa
misura l'insurrezione nazionale con la mancata difesa di Milano, sfuggito infine
al soffocante controllo nazista sulla sua persona e sui suoi atti poiché i
tedeschi stessi stanno firmando la resa delle forze in Italia, il duce non
sembra avere altro scopo che attendere gli sviluppi della situazione per
arrendersi: subito dopo, però, la cessazione delle ostilità da parte germanica
non tollerando un secondo "Badoglio-Waffenstillstand"».
In ogni caso Mussolini, che tra l'altro lo aveva già previsto, ora ancor più
vuole uscire da Milano ed in questa ottica diventa applicabile il piano di
ritirata che ruota nel triangolo Milano-Como-Lecco.
Ancora Viganò ricorderà nel suo saggio "Mussolini i gerarchi e la "fuga in
Svizzera":
«Lo stesso Mussolini, secondo una memoria di Mario Bassi, capo della provincia
di Milano, avrebbe subito chiarito la destinazione di Como prima della riunione
con i gerarchi al sottocapo di stato maggiore della Guardia nazionale
repubblicana, Asvero Gravelli; e l'avrebbe ribadita a ogni interlocutore
nell'ora seguente».
E tutto questo in contrasto con coloro, Graziani e Borghese in testa, che
preferirebbero arroccarsi, magari nel Castello Sforzesco che considerano
difendibile fino all'arrivo degli Alleati.
È una soluzione che probabilmente consentirebbe di salvare la pelle e qualcuno
forse spera anche, almeno in parte, le proprie posizioni personali in base alle
condizioni di resa.
Mussolini, conformemente alle sue ultime decisioni si indirizza comunque verso
il ripiegamento su Como, pre tappa verso la Valtellina, a prescindere da quello
che poi, sul posto, si potrà militarmente mettere in atto ed in questo senso da
a tutti appuntamento a Como.
L'uscita di Mussolini da Milano, quindi, con i rischi e le incertezze che
comporta, contro il parere di molti seguaci e personalità ivi presenti, smonta
totalmente qualsiasi ipotesi che egli in quel momento già voleva arrendersi agli
Alleati, come invece era nei desiderata di molti.
Per Mussolini, se resa ci dovrà essere, essa dovrà avvenire a certe condizioni,
a tempo debito e facendo anche pesare le importanti documentazioni in suo
possesso.
Al rientro in Prefettura, reduci dall'incontro in Arcivescovado, l'industriale
Cella gli domanda se devono rientrare da via Mozart, e il Duce quasi gli urla:
«Si entri dalla porta grande!».
Poco dopo, racconterà Graziani, che intanto aveva persuaso Mussolini a non
parlare alla radio, come questi aveva minacciato in Arcivescovado, per
denunciare il comportamento dei tedeschi, il Duce ebbe un altro scatto d'ira con
il comandante tedesco di piazza, H. Wening.
Con una ricostruzione frutto del vaglio di decine di testimonianze e
pubblicazioni in proposito, scriverà A. Zanella ("L'ora di Dongo", Rusconi
1993):
«Mussolini scende, pallido come la morte, il viso contratto, le labbra affilate,
stringe in una mano la busta con il libro di Schuster. Tutti scattano
sull'attenti, applaudono, non risponde. Sosta, chiama forte due ufficiali
tedeschi della scorta. Parla con loro concitato, scandendo le parole in tedesco.
È il momento fissato forse nella foto più famosa di quel giorno, nella quale si
vede il tenente Birzer (della sua scorta tedesca, N.d.R.) preoccupato a fianco
del Duce che lo sta investendo con una serie di accuse.
Ai piedi della scala incontra Asvero Gravelli (sotto capo di Stato maggiore
della Guardia, N.d.R) e gli dice impetuosamente:
"Sapete cosa mi ha detto il Cardinale? Pentitevi dei vostri peccati! E sapete
perché? Perché non l'ho aiutato a diventare Papa!" È amaro, Gravelli chiede
ordini.
"Voi mi raggiungerete dopodomani a Como. La Guardia deve fare servizio di
sicurezza in unione ai reparti del CLN. Mettetevi subito in contatto con
l'Arcivescovado" gli dice e ponendo una mano sulla spalla di quel gregario che
lo ha seguito per tanti anni: "Dopodomani a Como" aggiunge guardandolo ben fisso
e con irruenza rabbiosa si avvia per le scale..."
Gli va incontro il guardasigilli: "Pisenti, siamo stati traditi dai tedeschi e
dagli italiani", lo apostrofa. È eccitatissimo, il disgusto gli si legge in
viso. "Era fuori di sè" dirà il figlio Vittorio.
Renzo Montagna (generale, capo della Polizia, N.d.R.) lo vede arrivare come un
turbine...
"Gli andai incontro e mi accorsi che era incredibilmente eccitato, addirittura
sconvolto, Più che parlare gridava: "Sono dei criminali, degli assassini! Non è
possibile trattare con loro"...
Mussolini grida anche: "Siamo stati traditi da tutti. Non c'è da fidarsi di
quella gente. Sospendete anche le vostre trattative". Tutti i ministri e i
gerarchi gli si fanno incontro. Tutti vogliono dire qualcosa. Ci sono Pisenti,
Montagna, Tarchi, Mezzasoma, Liverani, Zerbino, Barracu, Bassi e Cella. Chiamati
espressamente arrivano anche Graziani e Pavolini. La porta viene chiusa.
"Intanto" scrive Secondo Larice (questore, tenente colonnello della Forestale,
N.d.R.) "si diramano ordini urgentissimi tra cui quello di far venire subito un
reparto della " Muti" con carri armati al comando del tenente Rovetta e lo
stesso comandante Colombo, per scortare la colonna.
Si telefona a Como al prefetto Celio, al federale Porta, al questore. Tutti i
ministri, il seguito e molti altri si preparano a partire. L'unica persona
tranquilla che avevo notato in anticamera era stato Nicola Bombacci ...".
Nel grande studio di Mussolini si è sui carboni ardenti. La frase di Mussolini
rompe il silenzio: "Bisogna agire, qui vogliono fare un altro 25 luglio. Mi
vogliono arrestare. Siamo caduti in un tranello. Ma questa volta non mi
avranno"...
Quando si accorge che Cella lo ha seguito fin nel suo studio diviene furioso e
lo aggredisce:
"Mi avete ingannato, mi avete condotto dove mi è stata richiesta la resa senza
condizioni. Ora Cella me ne risponderete con la vostra vita"».
Interrompiamo un momento la ricostruzione degli avvenimenti di quelle ore fatta
da A. Zanella per riportare un passo di un rapporto americano, che si rifà anche
ad un articolo (probabilmente scritto dall'industriale Cella) su "Il Popolo" del
2 Maggio 1945, vi si leggono queste frasi di Mussolini che più o meno trovano
riscontri in altri testi:
«Se io fossi stato armato io avrei colpito molti di loro. Noi non possiamo
subire un altro 25 Luglio. Siamo caduti in una trappola". Poi seguì, stando al
resoconto di Cella, una scena di grande confusione, con Mussolini che urlava
ordini da un balcone a quelli che erano sotto in cortile per tenersi pronti a
partire, e (con Mussolini, N.d.R.) che sbraitava contro gli Ebrei, la Massoneria
e la Chiesa; Graziani che appare con la notizia che gli Alleati
(anglo-americani, N.d.R.) avevano attraversato l'Adige e che i Tedeschi erano
irrimediabilmente sconfitti e Pavolini che annuncia "Duce attendo i vostri
ordini. La Guardia Repubblicana è pronta così come la Decima Mas e le SS"».
Riprendiamo dal libro di A. Zanella:
«La confusione, riferisce Montagna, si fa "indescrivibile, tutti gridano hanno
progetti da proporre e suggerimenti da dare. E quando Mussolini all'improvviso
annuncia che vuole partire, ricorrono ad ogni possibile argomento per
convincerlo a restare a Milano".
Graziani è contrario allo spostamento del governo. Sono d'accordo con lui i
generali che non intendono muoversi da Milano. Buffarini e Tarchi sono decisi a
passare in Svizzera.
Pavolini propone di finirla con una bella morte in Valtellina e con quest'ultimo
altri.
La discussione dura parecchio con un Graziani sempre più inferocito. Ma il Duce
non cambia minimamente parere. Mussolini a Milano non vuole restare. Prevede
delle stragi e dice: "Non voglio che per causa mia sia sparso del sangue".
Dopo qualche minuto ricompare Graziani che dice:
"Gli americani hanno passato l'Adige. I tedeschi sono irrimediabilmente
sconfitti e le avanguardie nemiche possono arrivare a Milano da un ora
all'altra".
"Bisogna andare, bisogna andare a Como. La notte la passo a Como" dice il Duce a
Mario Bassi (capo della Provincia di Milano, N.d.R.)...».
Abbastanza simile la ricostruzione di quelle ore fatta dal ricercatore storico
Marino Viganò:
«Nel suo studio, Mussolini prendeva le ultime decisioni. C'erano Graziani,
Pavolini, Romano, Liverani, Mezzasoma, Barracu, Pisenti, Bassi, Silvestri e
qualche altro.
Cella era scomparso, vista la pessima luce che i suoi uffici avevan gettato
nello spirito del duce. A un certo momento, ascoltati i più vari pareri, disse:
"È necessario partire per la Valtellina. Comunque, cerchiamo di andare a Como".
Graziani ribatté: "Duce, non vi garantisco la libertà delle strade, di notte".
Mussolini, determinatissimo, insisté: "Bisogna andare a Como". Anche Borghese fu
tra coloro che lo sconsigliarono.
Narrò d'aver proposto, non si sa se a questo punto, che si restasse in città e
che ci si consegnasse da militari a militari. Poiché il maresciallo Graziani
insisteva, il duce si ritirò con lui e col prefetto di Milano nel vano di una
finestra. Il maresciallo ribadì che, a suo avviso, era un errore lasciare in
quel momento la città;
Bassi assicurò che non erano ancora svanite le speranze di trattative onorevoli
e che, in ogni modo, il tempo non stringeva. Stanco di quell'inutile schermaglia
il duce aprì senz'altro la finestra e, rivolto agli uomini della sua scorta che
sostavano nel cortile lì sotto, con voce sonora gridò di prepararsi alla
partenza. Fra questi c'erano i soldati del battaglione contraereo tedesco che
l'avevano seguito da Gargnano e che attendevano in un loro autocarro. Fu
questione di una mezz'ora: il tempo di raccogliere i bagagli di Mussolini. Tra
le 18 e le 18 e 30 al massimo, scese nel cortile. Aveva una borsa e la portava
personalmente. Indossava il cappotto... Una volta di più il "colloquio in
arcivescovado" si rivelerebbe per ciò che è stato nella realtà: intermezzo del
tutto casuale -significativo se si fossero in effetti raggiunti accordi;
ininfluente se non avesse prodotto nulla, come non fosse avvenuto- entro una
strategia già delineata da mesi e resa esecutiva in pochi minuti, constatato
che, nelle trattative con la controparte ciellenistica, possibilità di
conseguire l'approvazione unanime del CLNAI non esistono. "Mussolini aveva
deciso di raggiungere Como in serata", annoterà l'allora vicesegretario del PFR,
Pino Romualdi: "Tutti -disse-, tutti dovete venire a Como". E credeva che a Como
potesse essere rimesso in piedi, anche per un giorno soltanto, ciò che stava in
quel momento crollando a Milano (...) Mi guardò con un affettuoso sorriso:
"Romualdi, a domattina a Como"».
E ancora Viganò riporterà una testimonianza del giornalista Pino Rolandino:
«Borghese gli si avvicinò (al maresciallo Graziani, N.d.R.) domandandogli:
"Maresciallo, quali sono gli ordini?". "Raggiungi Como in serata con tutte le
tue forze". Pochi istanti dopo Mussolini appariva nel cortile della Prefettura.
Il progetto Pavolini aveva prevalso. Il Governo abbandonava Milano. "Tutti a
Como", disse il Duce, con un'aria sconvolta e con un fare duro e nervoso». Ma
come sappiamo Valerio Borghese restò a Milano al comando della sua X Mas e venne
poi prelevato dagli americani che lo misero in salvo.
L'attendente del Duce Carradori, racconterà questo significativo aneddoto:
«Rientrai in Prefettura, ci fu la nota sfuriata di Mussolini al tenente Birzer,
che gli scodinzolava attorno. Quindi si chiusero tutti nel suo ufficio. Graziani
non voleva saperne di lasciare Milano e insisteva sulla necessità di trincerarsi
tutti all'interno del Castello Sforzesco, che egli riteneva facilmente
difendibile, e qui attendere gli anglo americani. Ma Mussolini al solo nominare
gli inglesi, andò su tutte le furie, facendo capire che mai e poi mai si sarebbe
consegnato nelle loro mani. Ben presto la decisione di lasciare Milano alle ore
20 fu ufficializzata e comunicata a tutti gli uffici competenti».
Il federale di Milano Vincenzo Costa racconterà che Mussolini prima di partire
disse chiaramente che scioglieva i fascisti dal giuramento, e la notizia creò un
grosso disorientamento.
Questa informazione però, così come riferita dal Costa, lascia alquanto
interdetti perché è in contrasto con gli ordini che poi ebbe Pavolini per
radunare tutti i fascisti e portarli l'indomani mattina a Como e nasce forse,
come vedremo, da analoga informazione, in tutt'altra situazione, pervenuta il
pomeriggio del giorno dopo al ritorno di Pavolini da Menaggio, non la sera del
25 aprile come dice Costa.
Probabilmente tutta la faccenda si gioca sull'equivoco di uno "scioglimento dal
giuramento" non inteso come un separarsi delle posizioni tra i fascisti,
Mussolini e la RSI, ma come un invito di Mussolini a contare solo sui fascisti
fedeli, disposti a seguirlo, senza alcuna imposizione a ottemperare ad un
giuramento.
Ancora Feliciani ricorderà:
«Mezzasoma alla fine mi raggiunse dicendo: "Partiamo, il Duce si è deciso,
cercavano di farlo restare, ma si è convinto che trasferirsi a Como è la cosa
migliore, del resto rimaniamo in territorio italiano».
Anche Larice ricorda:
«Bombacci con una valigetta di levatrice, mi saluta: "Dove va lui, vado io".
Approfitto di un attimo che ha meno gente attorno e prendendo il coraggio a due
mani, gli dico: "Duce, partite?! Non lasciate Milano ...". Si volta di scatto,
mi risponde: "Anche tu raggiungerai Como, pre campo".
Mentre nel cortile della Prefettura sono già pronte le autovetture per la
partenza, si moltiplicano le invocazioni di restare in città, alcuni piangono,
altri come Carlo Borsani, l'eroico cieco di guerra, lo implorano, qualcuno
vorrebbe trattenerlo con la forza.
Il Duce è però irremovibile, si congeda ripetendo a Bassi:
«Dovete tutti venire a Como, resta solo Pisenti (ministro di Grazia e Giustizia,
N.d.R), ci potrebbe essere qualcosa da fare». E l'altro:
"per il generale della Polizia, per il generale Montagna quali ordini?" "Ditegli
che lo aspetto domani mattina a Como".
Sale in macchina con Nicola Bombacci e parte, davanti l'autista Salvati e dietro
Carradori di scorta.
Intorno alle 20,30 in Curia, don Bicchierai (non si sa se ci fa, o c'è...),
deluso dal precedente incontro in Arcivescovado, telefona in Prefettura per
avere una risposta alle intenzioni di Mussolini. È il prefetto Mario Bassi che
risponde e comunica che Mussolini è partito.
Sarà solo verso le 6 del mattino, mentre i fascisti stanno lasciando Milano, che
la Guardia di Finanza, finalmente passata armi e bagagli al CLNAI, dopo aver
passato mesi con i piedi in due staffe, penetrerà nei cortili della Prefettura e
ne prenderà possesso.
La ricostruzione delle giornate di Milano attesta chiaramente che Mussolini ha
da tempo previsto il progressivo ripiegamento del governo verso le zone della
guerra che solo più tardi saranno raggiunte dalle forze Alleate. Una meta finale
dovrebbe essere la Valtellina in cui da tempo si cercava di predisporre misure
ed accorgimenti militari per farne un ridotto ad estrema difesa, ma che invece,
come detto, in pratica ben poco si era fatto in questo senso. Ed anche di questo
ci si rese conto solo all'ultimo momento.
Il precipitare della situazione, con gli americani arrivati a Bologna, i
sensibili sintomi di sfaldamento e l'inizio del defilarsi degli uomini delle
Istituzioni in Milano, il fallimento di una trattativa con la Resistenza per
realizzare un trapasso indolore dei poteri e quindi un ripiegamento ordinato ed
incruento, a cui si aggiunge la notizia ricevuta di una imminente resa tedesca
trattata di nascosto, inducono Mussolini a predisporre decisioni, anche se da
tempo previste, in modo affrettato, sul momento e sotto l'agitazione per le
vicende dell'incontro in Arcivescovado.
È evidente che il ripiegamento di Mussolini, oltre a voler evitare fatti di
sangue in Milano, è finalizzato soprattutto a gestire le possibilità di una
futura ed imminente resa con gli Alleati solo a tempo debito e a certe
condizioni: l'arma che il Duce ha nelle borse è il compromettente Carteggio con
Churchill ed altri delicati incartamenti. Il governo al seguito e i fascisti
ancora in armi dietro a lui gli sono necessari per l'attuazione della sua
strategia minimale che non deve comunque contemplare, per una questione d'onore,
una eventuale sua fuga all'estero.
Quel che si potrà fare, evidentemente, pensa di risolverlo sul momento, di ora
in ora.
È in questo senso indicativa un lettera che era stata indirizzata dal Duce al
maresciallo Rodolfo Graziani il 9 gennaio 1945, diceva in essa Mussolini:
«Le vicende della guerra non mi illudono più. Io non faccio questione della mia
persona, ma quello che mi preoccupa è il pensiero di vedere in un prossimo
futuro l'Italia interamente occupata dagli anglo-americani.
Al momento ritengo di grande importanza portare in salvo questi incartamenti, in
primo luogo lo scambio delle lettere e gli accordi con Churchill. Questi saranno
i testimoni della malafede inglese. Questi documenti valgono più di una guerra
vinta, perché spiegheranno al mondo le vere, le sole ragioni del nostro
intervento a fianco della Germania. Ho bisogno di vedervi. Vi attendo per
stasera"».
Questa linea di condotta di Mussolini, che può far capire le sue decisioni in
quelle ultime ore della repubblica, è altresì confermata da una registrazione
telefonica, fatta dai tedeschi, di una conversazione tra Mussolini e Pavolini
avvenuta il 25 marzo 1945:
«Mussolini: "Ho parlato appena adesso con Zerbino. Viene subito qui con tutti
gli atti (le fotocopie del Carteggio che Zerbino aveva provveduto a far
eseguire, N.d.R.).
Aspetto anche voi".
Pavolini: "Arrivo subito Duce. Duce, ma non avete proprio nessuna buona
notizia?"
Mussolini: "No, proprio nessuna. Il modo di comportarsi dei tedeschi mi piace
sempre meno. Ne sono seriamente preoccupato..L'esito della guerra non mi illude
più. Non faccio questione della mia persona, ma ciò che mi preoccupa è il
destino dell'intera Italia...
Al momento ritengo che il più importante e il più utile sia mettere al sicuro le
nostre carte, soprattutto lo scambio di lettere e gli accordi con Churchill.
Questi documenti saranno l'esempio ineluttabile della malafede degli inglesi.
Questi documenti valgono per l'Italia più di una guerra vinta, perché essi
spiegheranno al mondo le vere, ripeto, le vere ragioni del nostro intervento al
fianco della Germania. Dunque vi aspetto subito"».
Maurizio Barozzi
Note:
[1] Vedi: "L'incontro in Arcivescovado" (reperibile
anche telematicamente in:
http://www.effedieffe.com/content/view/6804/182/ )
[2] Per i testi di queste intercettazioni vedere:
Ricciotti Lazzero "Il sacco d'Italia", Mondatori 1994.
[3] Sembra che, già dal 1944, ci furono alcuni segreti
incontri di Mussolini, ora dicesi accompagnato da Bombacci, ora da Barracu,
ecc., (altre volte dicesi anche con delegati tedeschi) con misteriosi emissari
Alleati, probabilmente inglesi, in alcune ville ubicate verso i confini del Nord
Italia. Nella ricerca di una via di uscita alla disastrosa situazione bellica è
molto probabile che ci siano stati incontri del genere di cui i tedeschi erano
informati entro certi limiti. Comunque, da come sappiamo da alcune
intercettazioni epistolari e telefoniche tra Mussolini e Hitler, quest'ultimo
gli impedì sempre di portare a conclusione simili approcci. Quello che però
lascia dubbiosi è il fatto inspiegabile di come poteva fidarsi il Duce ad andare
a questi incontri in ville isolate, con la sua sola guardia del corpo
(Carradori) e l'autista, senza temere di essere proditoriamente ucciso, quando
poi, come sappiamo, ben temeva tentativi inglesi in questo senso. Sembra che
fosse il questore del bresciano Manlio Candrilli a predisporre le misure di
sicurezza del Duce ed infatti, si afferma anche, che proprio a causa della sua
conoscenza di questi segreti, gli inglesi vollero caparbiamente la fucilazione
del Candrilli nel 1945. Ma nulla è accertato in proposito.
[4] Lo storico si riferisce all'incredibile e
misterioso viaggio solitario di Rudolf Hess in Inghilterra il 10 maggio 1941.
Quell'avvenimento sollevò in tutto il mondo vari interrogativi rispetto alle
strategie politico militari dei belligeranti. È ovvio che anche Mussolini si
chiese con apprensione cosa si poteva nascondere dietro quel viaggio e la
risposta più immediata che poteva darsi era quella che i tedeschi intendevano
forzare una pace ed un accordo globale con gli inglesi. In questo caso è
evidente che l'Italia avrebbe corso seri rischi facendo le spese di un tal
genere di accordo segreto, visti i suoi interessi geopolitici in collisione con
quelli britannici. Erano gli stessi motivi che lo inducevano, prima della sua
entrata in guerra, a sperare che nè gli inglesi, nè i tedeschi prevalessero
militarmente e nettamente sul continente e che, all'apposto, non si mettessero
d'accordo tra loro.
[5] Vedere: Marino Viganò: <<Mussolini, i gerarchi e la
"fuga" in Svizzera (1944-'45)>>, Nuova Storia Contemporanea" N. 3 -2001.
[6] Carlo Silvestri era un vecchio socialista, già
importante giornalista del Corriere della Sera, che al tempo del delitto
Matteotti era stato tra i più accesi oppositori del Duce. Durante la RSI era
entrato in contatto con Mussolini ed aveva ripreso una certa amicizia,
collaborando e organizzando opere di pacificazione e salvataggio per esponenti
antifascisti. Mussolini gli fece anche prendere visione di un dossier che
mostrava chiaramente la sua estraneità al delitto del deputato socialista.
Dossier ovviamente fatto sparire dalle nuove autorità cielleniste che ne erano
venute in possesso la notte del 25 aprile 1945 in zona Garbagnate.
[7] Documenti estratti dall'autore, da: Carlo Silvestri
a Mussolini, 26 gennaio 1945, in ACS, RSI, Segreteria particolare del duce,
Carteggio riservato, b. 7, cit. da Gloria Gabrielli, Carlo Silvestri socialista,
antifascista, mussoliniano.
[8] M. Mollier, «Pensieri e previsioni di Mussolini al
tramonto», Tipografia Colombi, 1948; O. Dinale, «Quarant'anni di colloqui con
lui»,
[9] Questa uscita del Cardinale, potrebbe sembrare un
passaggio dialettico del discorso, ma è invece altamente indicativa di tutti i
tradimenti e le defezioni di cui Schuster, per l'autorità e il ruolo giocato
fino ad allora, era perfettamente a conoscenza e che infatti, già da quella sera
in Milano, si cominciarono a manifestare nella fila della Repubblica e sia pure
in modo più contenuto in quelle del fascismo.
[10] Vedere: Alberto Maria Fortuna "Incontro
all'Arcivescovado" Ed. Sansoni 1971.
[11] Sono decisamente da relegarsi nel campo delle
barzellette gli aneddoti che vogliono il Pertini sopraggiunto in Curia mentre
Mussolini sta uscendo, che sale le scale con la pistola in pugno e poi
dichiarerà che se lo avesse riconosciuto gli avrebbe sparato. Storielle queste,
facenti parte dell'agiografia resistenziale, ma del resto, ridimensionate in
seguito dalla stesso Pertini. In ogni caso bisogna rimarcare che Pertini non
aveva fatto "saltare" alcuna trattativa, per il semplice fatto che i
rappresentanti del CLNAI avevano comunque impostato il confronto su la richiesta
di una resa incondizionata e quindi Mussolini non aveva potuto proseguire su
quella strada e la trattativa era già fallita prima ancora di cominciare.
Gli strali di Pertini potevano tutto al più essere rivolti al fatto che si era
comunque andati ad una trattativa e che Mussolini lo si era lasciato andar via,
ma del resto non si vede come lo si sarebbe potuto fermare. In definitiva si
millanta un potenziale bellico che in quel momento la Resistenza in Milano
assolutamente non aveva.
La data del 25 aprile quale giorno dell'insurrezione è un falso storico, perchè
non ci fu nessuna insurrezione e solo il giorno dopo verso le 6 del mattino,
quando i fascisti, inquadrati da Pavolini, presero a lasciare Milano per andare
a Como, la Guardia di Finanza, passata dalla parte della resistenza, prese
possesso della Prefettura. I primi, timidi, gruppetti e auto di partigiani si
cominciarono a vedere alcune ore dopo, senza bisogno che ci fosse alcuna
insurrezione perchè Mussolini e i fascisti se ne erano andati via.
Non è neppure ipotizzabile per scherzo, che quel pomeriggio, in una città
presidiata da fascisti e dai tedeschi, senza alcuna presenza militare
partigiana, Pertini e gli altri membri del Comitato Insurrezionale, arrivati in
Curia, potessero armi in pugno tentare qualcosa contro Mussolini. Solo degli
storici faziosi e superficiali, possono continuare a diffondere queste
barzellette.
[12] Aurelio Garobbio, era un irredentista ticinese
nativo di Mendrisio (Canton Ticino), durante la RSI venne spesso incaricato del
Duce per le questioni elvetiche.
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