Italia - Repubblica - Socializzazione

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25 aprile 1945

La famosa trattativa in Arcivescovado

Maurizio Barozzi 
 
marzo 2009

 

Molti storici e soprattutto giornalisti storici fanno spesso, con voluta malafede, una certa confusione circa supposti intenti del Duce per una "resa" della sua Repubblica Sociale al CLN e una eventuale trattativa per un trapasso, desiderato indolore, dei poteri tra una Repubblica che deve, dietro l'invasione Alleata, lasciare il posto ad un nuovo potere che sarà assunto dal CLNAI (l'organismo che rappresenta il governo di Bonomi nel nord Italia) almeno fino all'arrivo delle armate Alleate le quali imporranno la loro amministrazione militare o AMG.
Ogni volta infatti che veniamo a leggere articoli o saggi inerenti il famoso incontro che si svolse in Arcivescovado il pomeriggio del 25 aprile 1945, tra Mussolini ed i rappresentanti del CLNAI, dietro la mediazione del cardinale Idelfonso Schuster, la base di partenza di queste rievocazioni storiche è spesso quella di un Mussolini che si reca in Curia allo scopo di trattare la resa, intendendo come tale la resa sia della RSI come Stato, governo e Forze Armate, e sia la resa delle formazioni del partito fascista.
Qualche volta, ma non sempre, si fa invece un confuso distinguo tra queste due essenziali componenti, ma sempre senza definire bene cosa si intende per "resa".
Se poi consideriamo anche il fatto che tutte le testimonianze e tutte le ricostruzioni del famoso incontro avvenuto in Arcivescovado (la più esaustiva, ma non totalmente veritiera, è forse quella di A. M. Fortuna "Incontro all'Arcivescovado", Sansoni, 1971), divergono tra loro per diversi particolari, spesso anche di scarsa importanza, ci rendiamo conto a quale inattendibilità complessiva ci si trova di fronte.
Recentemente il ricercatore storico, Alberto Bertotto ha pubblicato un suo breve saggio in merito che forse rappresenta, se non altro, una delle più obiettive ricostruzioni storiche [1].
Vediamo allora come stanno le cose sia sotto l'effettivo aspetto storiografico e sia come una doverosa controinformazione storica atta a ristabilire la verità su questo avvenimento.

Intenzioni di resa alle spalle dei tedeschi?
Tanto per cominciare dobbiamo subito sgombrare il campo da un altra illazione, tipica di scrittori alquanto superficiali, quella che vuole insinuare un segreto proponimento del Duce di trattare una resa con gli Alleati alle spalle dei tedeschi (cosa che, invece, fecero proprio i tedeschi negli ultimi due mesi di guerra).
C'è addirittura chi è arrivato a sostenere che il generale delle SS Karl Friedrich Otto Wolff e Mussolini, l'uno all'insaputa dell'altro, in quei giorni di fine aprile '45 stavano trattando una loro unilaterale resa al nemico.
Queste argomentazioni, oltre che dalla malafede, derivano anche da una lettura superficiale degli inevitabili traffici e maneggi che sempre si instaurano in tempo di guerra.
È, infatti, cosa nota e consueta che tra belligeranti, ci sia sempre e nonostante tutto, all'opera una certa diplomazia sotterranea intenta nell'espletare una ricomposizione del conflitto in atto, o una sua più mitigata conclusione o anche solo per intrattenere espedienti tattici che, a volte, sono anche un corollario delle stesse strategie belliche.
Anche in Italia, come in Germania, ecc., determinati e discreti canali diplomatici o attività di Intelligence sono sempre stati all'opera, fin quando è perdurato il conflitto.
Alcune intercettazioni telefoniche ed epistolari tra Mussolini ed Hitler, che ci sono pervenute, attestano come, di queste iniziative, i due alleati ebbero sovente a discuterne e si riscontra anche, da queste intercettazioni, che Hitler era perfettamente informato dell'esistenza di un importante e delicato "Carteggio" in mano a Mussolini, tale da poter essere sfruttato per indurre Churchill a trattative. Il Führer conosceva anche determinate relazioni che c'erano state tra il Duce e lo statista britannico e sappiamo anche che in quei mesi del 1945 Hitler non era d'accordo, in parte anche sulla scelta dei tempi, per i quali farle valere [2].
In ogni caso, per quanto concerne il nostro paese, era prima o poi scontato che sotto l'incalzare della inarrestabile avanzata Alleata, si sarebbe arrivati ad una resa, ma il Duce e lo stesso Graziani, quale ministro della Difesa, non ci sono dubbi in proposito, non avrebbero mai trattato una resa alle spalle dell'alleato, semmai lo avrebbero fatto in sintonia con i tedeschi o dopo che questi si fossero arresi o avessero lasciato il territorio italiano.
Il tradimento dell'8 settembre, con il pesante fardello morale, materiale e storico che aveva marchiato e devastato per sempre il popolo italiano, non sarebbe mai stato ripetuto da coloro che avevano messo in piedi la RSI proprio per riscattare l'onore della nazione vilipeso dal tradimento Badogliano.
È comunque acquisito che Mussolini negli ultimi mesi della RSI coltivasse l'idea, purtroppo una illusione, di poter negoziare al momento opportuno una resa con gli Alleati puntando non solo sul compromettente Carteggio, ma anche sulla valutazione (errata) che, almeno gli inglesi, fossero interessati a limitare l'invasione sovietica dell'Europa (che invece era stata dagli anglo americani auspicata e pianificata entro certi limiti nell'ambito degli accordi di Yalta) [3].
Al contempo però il Duce, nel disperato tentativo di mitigare le condizioni che sarebbero state imposte all'Italia, coltivava anche ipotesi opposte, giocate con la sua repubblica socialisteggiante, ovvero un approccio verso Stalin che proprio in quei momenti fu definito da Mussolini «il più grande uomo dei nostri tempi».
Insomma quello che muove Mussolini, nel disperato tentativo di salvare il salvabile per la sua Nazione alla deriva, è un pragmatismo che lo porta a scandagliare ogni possibilità da qualunque parte si possa presentare anche in virtù delle importantissime carte (il carteggio con Churchill) in suo possesso. Scrive lo storico Alessandro De Felice:
«È opportuno, però, ricordare che la linea filo-occidentale (cioè filo anglo-americana) dell'ultimo Mussolini è accompagnata da una tendenza opposta e contraria dello stesso Mussolini in senso filo-sovietico che egli gioca su un altro tavolo, socialisteggiante, i cui croupiers sono Bombacci, Silvestri ed Edmondo Cione (e con quest'ultimo Giorgio Pini, il Ministro dell'Educazione Nazionale Carlo Alberto Biggini e Concetto Pettinato)».
Ed ancora, lo stesso A. De Felice precisa, più in generale, tutta quella situazione:
«Ci si può chiedere legittimamente cosa Mussolini abbia pensato del viaggio di Hess in Gran Bretagna con i suoi complessi e sconvolgenti -per il sovvertimento geopolitico insito in essi- sviluppi. Capire. Capire quale sia il vero punto di arrivo di tutto il piano segreto tedesco-inglese. Ecco cosa non finirà mai di tormentare l'ultimo Mussolini. Quello che accadde nella primavera del '41, e ciò che sarebbe potuto accadere o che potrebbe ancora nel '44, a guerra perduta, accadere [4]. Se esista un disegno strategico o, ancora meglio, una visione di un possibile ordine futuro dietro eventi che si concatenano l'uno all'altro, giorno dopo giorno, senza che sia ancora possibile intravedere la trama dell'ordito. E soprattutto quale sia il ruolo che al Duce può venir riservato in questo ipotetico domani. Cercare di dare uno sbocco politico al fascismo repubblicano-socialista, di definirne un orizzonte strategico: quello di divenire l'interlocutore di Washington o, all'opposto, di Mosca ad un ipotetico tavolo negoziale. Camminando politicamente per più di 40 anni sulla linea del tempo, Mussolini ha appreso che la storia è una riserva di paradossi e di capovolgimenti imprevedibili e l'alternativa è se stare "on the side of Hammer and Sicule" oppure "on the side of Stars and Strips"». (Vedi: A. De Felice: "Il gioco delle ombre").
In ogni caso, come sempre avviene in queste circostanze belliche, c'erano stati sicuramente attivi vari canali, diplomatici o meno, intenti ad acquisire notizie, intraprendere sondaggi ed ascoltare eventuali proposte che potessero dare una indicazione sugli intenti del nemico e su come voler chiudere la guerra. Ma questi, chiamiamoli "sondaggi", che sarebbe stato strano e irresponsabile se non ci fossero stati, non hanno nulla a che vedere rispetto a delle trattative per una resa al nemico della RSI e delle sue forze armate disgiunta da quella tedesca.
Proprio di un "sondaggio" per una "proposta" di resa si ha notizia dal figlio del Duce, Vittorio, il quale racconta che ai primi di marzo del 1945, con il precipitare della situazione e di fronte alla inevitabilità ed imminenza della sconfitta militare, Mussolini gli consegnò un abbozzo di testo per una eventuale trattativa di resa verso gli Alleati che doveva passare attraverso la Curia di Milano e finalizzato alla salvaguardia di uomini, beni e strutture del paese (in questo senso sollecitato nel mese precedente proprio dalla Curia, ovvero dal cardinale Ildefonso Schuster).
Se andiamo a leggere il preambolo di questa "proposta"¸ ci accorgiamo che essa prevedeva una ripresa della piena autonomia d'azione della RSI, sganciata dai tedeschi, quando si verrà a determinare la fase finale della guerra e solo nel caso che questi si ritirino entro i propri confini. Esso dice:
«Nel caso che gli avvenimenti bellici e politici costringano le armate di Kesserling a ripiegare entro i propri confini, in quel momento le forze armate della repubblica Sociale, di ogni specialità si raduneranno in località prescelte anticipatamente onde opporre la più strenua resistenza contro il nemico e le forze del disordine e del governo regio, consci che l'odio antifascista non conceda altra via d'uscita se non il combattimento».
Segue quindi la proposta di firmare, al fine di evitare nuovi lutti e la distruzione del patrimonio industriale del paese, degli accordi preliminari con il Comando supremo Alleato che garantiscano, anche per il dopoguerra, un minimo di sicurezza e continuità di vita civile a quanti, fascisti, soldati o civili hanno prestato giuramento alla RSI. Segue anche una preoccupazione verso i membri di governo ed i loro familiari e quanti hanno avuto funzioni di comando nella RSI, per i quali si richiede di conoscere le intenzioni Alleate (arresti, campi di concentramento, esilio, ecc.).
Questo "sondaggio" che poi, da quello che se ne sa, venne decisamente rifiutato dagli americani (avevano già programmato l'isolamento e l'eliminazione del Duce), è quanto era negli intenti di Mussolini nell'imminenza della sconfitta, il resto sarebbe avvenuto in seguito all'evoluzione militare ed all'atteggiamento dei tedeschi.
Ulteriori illazioni sono invenzioni gratuite, stravolgimenti della realtà di quegli avvenimenti.

L'ultima, disperata, strategia finale di Mussolini
Prima di addentrarci adesso sul problema di un presunto intento di "resa" della RSI alla Resistenza cerchiamo di riassumere alcuni obiettivi che Mussolini sperava di conseguire con la conclusione sfortunata della guerra.
Mussolini nel 1945 riteneva inevitabilmente persa la guerra ed era conscio che il fascismo sarebbe finito con essa. Coerente con la sua visione complessiva della guerra, una visione per così dire "classica" del conflitto, non apocalittica e quasi metastorica come poteva esserlo in Hitler, aveva ferma intenzione, a prescindere della sua persona, di conseguire alcuni risultati minimali, rimanendo però sempre fermo nell'impegno di non trattare alcuna resa militare con gli Alleati, se non -con o dopo- che lo avessero fatto i tedeschi, e questo per non ripetere l'onta dell'8 settembre.
Detto questo, si faccia attenzione ai sottostanti punti, l'ordine non è importante, perché è nel loro tentativo di conseguirli, sia pure in modo discontinuo e scoordinato a causa delle vicende belliche, che ruota tutta la strategia finale del Duce e si ha la chiave per comprendere quello che esattamente accadde in quelle tragiche ore. Dunque, Mussolini si riproponeva:
1. evitare ulteriori e inutili lutti e distruzioni al paese, applicando laddove possibile una conduzione politico-militare moderata (tra l'altro da tempo firmava ogni domanda di grazia gli venisse sottoposta). In quest'ottica sperava di mediare un trapasso dei poteri con il CLNAI che evitasse i lutti e gli consentisse uno sganciamento indolore dalle grandi città del nord, ma questo non fu possibile per l'evidente volontà nemica, soprattutto comunista e massonica, di spazzare via il fascismo anche attraverso un bagno di sangue;
2. esperire almeno un tentativo politico, finalizzato a lasciare in eredità alle forze moderate di sinistra le riforme rivoluzionarie della Socializzazione e della Repubblica, ma anche questo non fu possibile perché i vincitori della guerra avevano distrutto il fascismo proprio perché, nonostante la retorica del ventennio e i freni borghesi e savoiardi, ne avevano avvertita tutta la sua portata distruttiva per l'occidente capitalista. Le forze di sinistra moderate, come i socialisti, poco contavano e in quei giorni erano impegnate, soprattutto gli azionisti, a difendere le case e i beni dei grossi magnati, figuriamoci se potevano difendere la socializzazione. Non per niente, finita la guerra, furono tutti d'accordo nell'abrogare immediatamente le riforme della socializzazione e quelle sul monopolio azionario, riconsegnando la gestione delle Aziende al grande capitale! Quindi non solo falliscono i tentativi di Mussolini di cercare di mantenere in vita le grandi riforme sociali della RSI attraverso i socialisti, ma falliscono anche i tentativi di un trapasso dei poteri tra la RSI e il CLNAI. Fallito tutto questo Mussolini cercherà ugualmente di realizzare almeno un incruento trapasso dei poteri uscendo da Milano (25 aprile a sera) prima e da Como successivamente (alba del 26 aprile).
3. sperare in una dignitosa e mitigata conclusione bellica ovvero un alleggerimento delle conseguenze della sconfitta militare e, ovviamente, la salvezza per chi aveva partecipato alla RSI, facendo valere i delicati e importanti documenti in suo possesso (Carteggio con Churchill). In vista di questo obiettivo aveva da tempo intrapreso alcuni discreti sondaggi che fino al quel momento non avevano dato frutti, ma che sperava potessero sempre concretizzarsi all'ultimo minuto e per questa aspettativa aveva intrapreso una tattica "temporizzatrice" allontanandosi progressivamente dalle località dove stavano per arrivare gli Alleati. Ma gli accordi di Yalta non consentivano mediazioni di questo genere ed oltretutto, con il precipitare degli eventi, Mussolini restò immobilizzato in quel di Menaggio. Per finire in bellezza tutti i suoi incartamenti, che aveva anche fatto duplicare in fotocopia per renderli in futuro noti alla nazione, furono razziati o svenduti agli inglesi da ignobili elementi di ogni tendenza e colore;
4. consentire a tutti i fascisti che lo volessero, di mettersi in salvo in qualche modo, contando unicamente sugli irriducibili rimasti fedeli. Personalmente pensò di mettere in salvo la moglie e i figli in Svizzera e la Petacci in Spagna. Neppure questo fu possibile: per i fascisti che si impantanarono in scellerate trattative per una "tregua" in Como e per i suoi familiari a causa del rifiuto svizzero di accogliere donna Rachele e infine per il colpo di testa di Claretta che volle rimanere in Italia, coinvolgendo anche il fratello;
5. per se stesso, infine, rimase fermamente irremovibile nella decisione di restare comunque in Italia, sia per un dignitoso attestato morale della sua vita, ma anche per poter esperire fino all'ultimo minuto qualsiasi possibilità si presentasse avendo un governo, sia pure allo sbando e ridotto ai minimi termini, ma formalmente legittimato e militarmente ancora, almeno simbolicamente, in grado di muoversi. Grazie ad un bravo ricercatore storico Marino Viganò e stata finalmente e completamente sfatata la fandonia, come tale del resto già a conoscenza degli storici più obiettivi, di un Duce che avrebbe voluto riparare in Svizzera, quando invece proprio il desiderio di Mussolini di rimanere a tutti i costi sul suolo italiano, anche di fronte alle insistenze di molti componenti del suo entourage, finì per costargli Piazzale Loreto [5].

In virtù di una attuazione di quanto sopra Mussolini, fin dalla sua venuta a Milano, proveniente il 18 aprile da Gargnano, ha già previsto uno spostamento progressivo, in base agli sviluppi della situazione militare, da Milano a Como e quindi in Valtellina.
Come intenda procedere tatticamente su questa linea, alquanto precaria, è probabilmente affidato alle novità e variabili che potranno venir fuori dagli avvenimenti successivi, ma in ogni caso una cosa appare certa: Mussolini non ha alcuna intenzione di consegnarsi agli Alleati senza concrete garanzie (però a causa di Yalta impossibili da ottenere) ovvero che gli sia concessa la possibilità di difendersi e di difendere la Nazione, perché oltretutto di quella guerra si sentiva "vittima" e non certo responsabile.
Egli vuol seguire il suo destino, tentando tutto quanto è ancora possibile fare, ma senza coinvolgere ulteriormente le popolazioni e le strutture delle città già di per sè stesso abbastanza disastrate. Della sua persona ha sempre detto, non fa questione ed infatti, rifiuta sempre, ostinatamente e con stizza, tutti i progetti di porlo in salvo in qualche modo.
Come si evince dalle memorie dell'ex federale di Verona, Antonio Bonino, Mussolini questi intenti di massima per chiudere la sua avventura li aveva ben presenti già da tempo.
Dice infatti il Bonino che ai primi di dicembre del 1944 gli venne richiesto se il Duce avesse firmato l'ordine che avrebbe trasformato Milano in una roccaforte, condannandola praticamente alla distruzione.
Il Bonino rivolse la domanda direttamente al Duce attraverso apposito memorandum nel quale si esprimevano tutte le perplessità, soprattutto morali, per evitare questa possibilità.
Mussolini dette subito il suo responso:
«Sansone poteva legare i filistei alla sua sorte, non io. Milano non è il tempio di Baal, ne i milanesi sono i filistei. anche se sono pronti, come voi avete scritto, a ricevere gli americani con acclamazioni e di fiori. Per quanto interessa noi occorre stabilire una pregiudiziale: seguirò la sorte dei miei uomini. Sono perciò condannati a fallire i tentativi da voi fatti in senso diverso. La vita non mi interessa, nè muoverò un solo dito per salvarla».
Ed è così che egli, esperito il fallito tentativo di mediazioni in Arcivescovado che adesso andremo a considerare, partirà comunque la sera del 25 aprile '45 da Milano, al fine di trasferirsi in Valtellina, con l'illusione di tenere in piedi un troncone di Stato e i resti del suo governo, portandosi dietro gli ultimi fascisti fedeli radunati da Pavolini e riservandosi poi di verificare e decidere cosa fare una volta ivi arrivato.
È indubbio che, nonostante molti del suo seguito (uomini di governo come Graziani e alti ufficiali delle sue FF.AA., come Borghese, ecc.) lo pressino per arroccarsi in Milano, considerando questo il modo migliore per attendere gli Alleati e salvare la vita, Mussolini invece tende a prendere tempo, mira ad allontanarsi dalle zone dove stanno per arrivare gli Alleati e non ha alcuna intenzione di consegnarsi inerme a costoro.
Sarà invece purtroppo costretto ad adeguare continuamente tutta la sua l'agibilità tattica, finalizzata a conseguire questa strategia minimale, a causa del repentino e continuo cambiamento della situazione e soprattutto del mancato arrivo, a Menaggio dove si era trasferito ed era rimasto bloccato con il suo scarso seguito, di una consistente colonna armata di fascisti provenienti da Como.
Ma queste sono altre storie.

Resa alla Resistenza o trapasso dei poteri?
Come noto, tutta la letteratura resistenziale, ma non solo, riferendosi al famoso incontro all'Arcivescovado nel pomeriggio del 25 aprile '45, tende a profferire affermazioni non dimostrate, in riferimento ad una presunta volontà di Mussolini di essersi recato a quell'incontro per offrire o trattare una resa con il CLN.
È questo però un falso storico, anche se la differenza tra una "resa" vera e propria e l'intento di Mussolini di lasciare totalmente il campo libero alle nuove autorità cielleniste, ritirandosi verso il nord senza combattere in virtù di determinate condizioni da trattare con il CLNAI, è sottile e si gioca sul filo delle parole.
Comunque una differenza c'è. "Resa" vuol dire cessazione di qualsiasi attività politica e militare, deporre le armi e consegnarsi o mettersi a disposizione dei vincitori e queste non erano certamente le intenzioni di Mussolini per impostare una trattativa con la Resistenza.
In realtà Mussolini era da tempo che, su più versanti, aveva incaricato uomini del suo entourage come Tarchi (ministro della Produzione Industriale), Bassi (capo provincia di Milano), Zerbino (ministro Interni), il figlio Vittorio, ecc. di sondare le possibilità che potevano offrirsi affinché ci fosse un "passaggio indolore dei poteri" tra la RSI che avrebbe lasciato ogni potere e con le sue forze armate e milizie si sarebbe ritirata più a nord, nel caso fin verso la Valtellina o le frontiere del Reich, e le nuove autorità subentranti del CLNAI.
Per quanto riguarda poi le FF.AA. della repubblica, ogni loro atteggiamento non avrebbe che potuto essere condizionato dal preavvertimento o da una prassi consensuale con i tedeschi.
Il tutto ovviamente nell'ottica di evitare ulteriori rovine e lutti da ambo le parti e magari salvare possibilmente i fascisti e i loro famigliari dalle inevitabili ritorsioni e vendette.
Era una strategia moderata, disponibile a lasciare il campo alla Resistenza depotenziando l'imminente "insurrezione" e stemperare le vendette delle frange estremiste.
In vista di queste eventuali ed auspicabili trattative, che con la caduta di Bologna già preannunciata dal 20 aprile (gli Alleati vi entreranno la mattina successiva) si cercò di accelerare e approcciare in tutte le direzioni, Mussolini sarebbe stato ben disposto anche a lasciare a disposizione forze militari della sua, di fatto oramai ex, repubblica per il mantenimento dell'ordine pubblico.
È chiaro infine che la RSI, lasciato il suo ruolo e i suoi poteri in Lombardia, sarebbe poi stata costretta a chiudere la sua pagina di storia qualche giorno più tardi in relazione all'invasione Alleata ed alla contemporanea ritirata delle armate tedesche.
Il Duce aveva anche coltivato l'illusione che fosse possibile tramandare in qualche modo (il socialista Carlo Silvestri mediatore) [6] le conquiste socializzatrici e repubblicane alle forze moderate della sinistra ciellenista, affinché gli occupanti anglo americani avessero trovato un fatto compiuto e qualcosa di quelle conquiste e innovazioni sociali si fosse potuto mantenere in futuro.
A monte e corollario di queste vicende esiste una relazione informativa stesa da Rudolf Rahn, Ambasciatore del Terzo Reich presso il governo di Salò e diretta al Ministro degli Esteri tedesco Joachim von Ribbentrop in data 31 marzo 1945.
In questa relazione, con una certa malafede, l'ambasciatore esprime preoccupazioni circa la lealtà della RSI verso la Germania anche rispetto alle iniziative "socialisteggianti" di Mussolini, preoccupazioni che saranno poi ripetute da Ribbentrop all'ambasciatore della RSI a Berlino Filippo Anfuso il quale le girerà a Mussolini che a sua volta convocherà l'ambasciatore Rahn a Salò. Affermerà quindi Alessandro De Felice nel suo "Il gioco delle ombre" già citato:
«A quest'ultimo (Rahn, n.d.r.) Mussolini esprime il suo sdegno, a nostro giudizio storicamente giustificato, e doppiamente: in primo luogo perché per tutto il corso della guerra, dall'inizio alla fine, i vertici istituzionali nazisti hanno tenuto al corrente i colleghi fascisti italiani solo di ciò che a loro tedeschi conveniva, tacendo su strategie, trattative o quant'altro e mettendoli spesso di fronte a fatti compiuti; in secondo luogo, appare oltremodo strano, dopo tutto ciò che abbiamo detto sulle zone grigie dei contatti segreti e della diplomazia parallela tra nemici intercorse in quella primavera 1945 sulle rive del Garda (o di altri laghi dell'Italia del Nord), il contegno ed il rimprovero tedesco al Capo del Governo del fascismo repubblicano. Tutti pare stiano giocando la loro partita, tutto sembra compromesso per l'Asse, i servizi segreti di mezzo mondo ed i loro agenti speciali sono già al lavoro a Milano e dintorni: non si capisce perché Mussolini non debba quindi guardarsi attorno prima di una tragica resa dei conti che potrebbe -come gli costerà- costargli la vita. Quella di Rahn, anzi di Ribbentrop, ha l'aspetto di una excusatio non petita accusatio manifesta. Ciò sarà, del resto, confermato dalla ricerca unilaterale tedesca di trattative di pace col CLNAI ad insaputa di Mussolini e della RSI. Degna di nota è, poi, l'affermazione mussoliniana di aver acconsentito alla nascita dell'ala sinistra socialista all'interno del Partito Fascista Repubblicano (PFR), di correnti, insomma, legate a concezioni para-marxiste o di socialismo avanzato. Il Raggruppamento di Edmondo Cione, compatito dal Duce, ha però, nell'ottica machiavellica di quest'ultimo, l'utilità di fare concorrenza da sinistra al PCI ed al PSIUP del CLNAI. Per Mussolini il Raggruppamento Socialista Repubblicano di Cione & Co., che si situa sulla stessa linea ideologica degli articoli costituzionali del Manifesto di Verona di Nicola Bombacci, ha una sua indubbia funzione, e criticarla, come si fa da parte nazista, non ha senso: "Sono sorpreso -dice Mussolini a Rahn- che venga messa in discussione adesso la svolta a sinistra da me inaugurata a partire dal settembre 1943. Io di fatto ho solo seguito l'esempio della Germania e non ho, a proposito della socializzazione, fatto altro che decidere di iniziare un nuovo corso e di essere conseguente ai princìpi fascisti, che sono diventati chiari per l'Europa e probabilmente per il mondo intero". Parole che non hanno bisogno di alcun commento od esegesi interpretativa e che confermano una volta di più l'accelerazione mussoliniana verso il socialismo data al fascismo repubblicano e le resistenze a tale direttiva poste dai tedeschi. Pur tuttavia, lo stesso Mussolini tiene a precisare che la sua linea politico-ideologica "non ha nulla a che vedere con un avvicinamento alla Seconda Internazionale"».

Ancora lo storico A. De Felice riporta anche alcuni interessanti estratti di lettere e dialoghi di Mussolini con Carlo Silvestri, iniziando dalle parole contenute in una lettera del Silvestri a Mussolini del 26 gennaio 1945 [7] :
«"Comunque sia il domani, già è certo per me che la Repubblica sociale italiana, per Vostra iniziativa, sta gettando le fondamenta di quella che un giorno si avvererà una profonda sostanziale trasformazione dell'ordine politico sociale ed economico. Anche se per dannata ipotesi le attuali leggi non potessero attuarsi e consolidarsi nell'ambito della Repubblica da Voi fondata e presieduta, esse avranno sempre il valore di un'anticipazione fondamentale e di una polemica che sarà vittoriosa in sede storica".
Dirà in quei giorni Mussolini: "Quanto maggiore cammino si sarebbe potuto fare in quest'anno se un gruppo di socialisti seri e responsabili mi avessero dato la loro collaborazione?
No, mai e poi mai. Anche se dipendesse dal nostro apporto dare a Mussolini la possibilità di realizzare il programma (…) del socialismo. No, mai e poi mai? Perché? Perché è Mussolini".
"Vi dico che il più grande dolore che potrei provare sarebbe quello di rivedere nel territorio della Repubblica sociale i carabinieri, la monarchia e la Confindustria.
Sarebbe l'estrema delle mie umiliazioni. Dovrei considerare definitivamente chiuso il mio ciclo, finito".
"Del resto, la scelta a sinistra del duce è confermata anche dalla sua famosa dichiarazione finale: i valori della repubblica e del programma sociale affermati a Salò vanno in eredità all'antifascismo repubblicano e socialista"».

In base a questi documenti le cui frasi qui estratte pone tra virgolette, lo storico A. De Felice affermerà:
«Mussolini si proclama "decisamente fuori e contro il sistema capitalistico" e lascia in eredità ai componenti del Partito Socialista di Unità Proletaria di Pietro Nenni, Lelio Basso, Giuseppe Saragat, Rodolfo Morandi, Oreste Lizzadri e Sandro Pertini il socialismo del suo Partito Fascista Repubblicano e della sua Repubblica Sociale-(ista) Italiana. Ma, in realtà, in quel momento, a Milano e nel territorio in cui si è insediato il CLNAI spadroneggiano PCI, PdA (Partito d'Azione) e le frange più chiuse e violente dello stesso PSIUP facenti capo a Pertini. Mussolini offre ai socialisti un'alleanza col PFR e le migliaia dei suoi militanti "nettamente anticapitalisti". Che il "ponte" fascio-socialista -per dare dignità all'indipendenza nazionale italiana contro l'occupazione anglo-americana che strizza l'occhio ai Savoia ed ai "traditori" del fascismo di destra confindustriale del 25 luglio 1943- si costruisca e che le esecuzioni sommarie ai danni dei fascisti repubblicani finiscano dipende solo dai socialisti del CLNAI che però si sono già compromessi cogli inglesi: "Che tutto questo succeda -Mussolini dice- o non succeda dipende dall'atteggiamento dei socialisti, dei repubblicani (del PRI, N.d.R.), delle forze di sinistra del CLNAI. Se la soluzione sarà di destra, monarchica, conservatrice, la responsabilità spetterà ai dirigenti del Partito socialista di unità proletaria. Contro questa soluzione noi ci batteremo con tutte le nostre forze"» (vedi: A. De Felice, "Il gioco delle ombre" già citato).

Ci siamo volutamente soffermati sulla illustrazione di questa strategia "di sinistra" Mussoliniana per evidenziare la distanza che intercorre tra una resa incondizionata alla resistenza ed invece un passaggio indolore dei poteri con la consegna, oltretutto, del patrimonio sociale della RSI, mentre Mussolini e gli ultimi seguaci si ritireranno verso i confini del Nord per chiudere la guerra in qualche modo con gli Alleati.
Comunque sia, in base a questi intenti di Mussolini, si arrivò alla sera del 24 aprile quando il Duce ricevette Carlo Silvestri. Il Duce, in quella occasione, formalizzò una serie di appunti che consegnò al Silvestri stesso pregandolo di inoltrarli alle forze moderate e socialiste della Resistenza:
«Compagni socialisti. Benito Mussolini mi ha chiamato e mi ha dettato questa dichiarazione che mi ha autorizzato a ripetervi. Poichè la successione è aperta in conseguenza all'invasione anglo americana, Mussolini desidera consegnare la Repubblica Sociale Italiana ai repubblicani e non ai monarchici, la socializzazione e tutto il resto ai socialisti e non ai borghesi. Della sua persona non fa questione. Come contropartita chiede che l'esodo dei fascisti possa svolgersi tranquillamente. Nel proporre questa trasmissione dei poteri, egli si rivolge al partito Socialista, ma sarebbe lieto se l'idea fosse considerata ed accettata anche dal partito d'Azione nel quale, del resto, prevalgono le correnti socialiste. (...) A quanto sopra sono autorizzato ad aggiungere che come contropartita Mussolini chiede: a) garanzia per l'incolumità dei fascisti e dei fascisti isolati che resteranno nei luoghi di loro abituale domicilio con l'obbligo della consegna delle armi nei termini stabiliti; b) indisturbato esodo delle formazioni militari fasciste, così come di quelle germaniche, nell'intento di evitare conflitti e disordine tra italiani e distruzione di impianti da parte dei tedeschi e nuove rovine e lutti nelle città e nelle campagne».
Come sappiamo questo tentativo "politico" abortì subito per l'intransigenza di socialisti estremisti come Sandro Pertini e per la volontà e l'interesse di liquidare tutto il fascismo, comprese le sue conquiste sociali, dietro un bagno di sangue, ma questa è un altra storia, quello che qui preme sottolineare è l'intento di Mussolini che il 24 aprile, ancora ignaro dei propositi di resa dei tedeschi, parla espressamente di un "trapasso dei poteri" e di un ripiegamento delle formazioni militari fasciste.
Non di una "resa" vera e propria, quindi, della sua RSI alla Resistenza, lo si tenga presente perché gli stessi intenti, sia pure elisi della possibilità, oramai tramontata, di consegnare le conquiste sociali della RSI ai socialisti, si ripresenteranno il giorno successivo in Arcivescovado.
Come abbiamo accennato, infatti, la strategia di Mussolini, in quelle ultime ore, precipitata per l'improvvisa resa trattata di nascosto dai tedeschi, era quella del "ripiegamento", cercare cioè di spostarsi il più a Nord possibile con un simulacro di governo, almeno nominalmente e formalmente in auge ed un minimo di fascisti ancora, sia pure più che altro simbolicamente, in armi, in modo da affrontare con gli Alleati, anche forte delle sue preziosissime carte di enorme incidenza internazionale, gli eventi finali di una guerra inevitabilmente perduta.
La resa, seppure inevitabile, sarebbe stata l'ultima ratio ed in dipendenza sempre del comportamento dell'alleato germanico. Non solo una resa a discrezione alla Resistenza non era nelle sue intenzioni e sarebbe stata addirittura indefinita e problematica vista la inconsistenza delle forze a disposizione del CLNAI in Milano, ma oltretutto e svariati riscontri ce lo confermano, anche in questo caso egli avrebbe evitato a qualunque costo di intraprendere qualsivoglia trattative in questo senso, se non dopo o assieme ai tedeschi.
Quella che si doveva configurare come una trattativa per un passaggio indolore dei poteri, tra la RSI e la Resistenza, mediatrice la Curia dell'infido cardinale Schuster, che ne avrebbe fatto da garante, era un qualcosa di ben diverso da una trattativa di resa vera e propria e addirittura incondizionata come cercarono di imporre i delegati del CLNAI in quell'incontro.
Scrisse giustamente Pino Romualdi che Mussolini pensava di dover discutere, in quella sede, un calmo passaggio dei poteri, non di trattare i particolari, ammesso che potesse trattare almeno quelli, di una resa a discrezione. Di un ordinato passaggio dei poteri non si parlò neppure, ma solo di darsi, mani e piedi legati agli avversari.
In definitiva, arrivati al 25 aprile, sotto l'incalzare degli eventi, a Mussolini non rimaneva che il ripiegamento, ma affinché questo ripiegamento potesse realizzarsi nel massimo ordine e senza un oramai inutile spargimento di sangue, era opportuna una garanzia di una autorità, del prestigio e di una entità superiore a tutti, che fosse in grado di mediare tra le parti in lotta e convincerle ad un trapasso indolore dei poteri.
Fu per questo che, tra le varie trattative in atto, Mussolini alla fine preferì accettare quella che era stata la proposta dell'industriale Gian Riccardo Cella, il quale avvalendosi dell'ingegner Gaetano Bruni, intermediario con il CLN e la Curia, proponeva un incontro con il CLN, sotto la mediazione del cardinale Schuster.
Per comprendere bene le intenzioni di Mussolini, quindi, circa un ordinato trapasso dei poteri da contrattare in Curia, dobbiamo partire dal presupposto che egli aveva da tempo deciso il percorso di sganciamento del governo repubblicano verso le località più a Nord.
Già dal 19 aprile Mussolini in seduta con il prefetto Mario Bassi, il federale Vincenzo Costa e il comandante militare per la Lombardia Filippo Diamanti, ed altri uomini dell'amministrazione repubblicana, scartò l'ipotesi di una difesa armata dentro Milano, decidendo il trasferimento delle truppe in Valtellina. Ci conferma poi l'agenda del maresciallo Graziani che Mussolini il 21 aprile:
«A Milano, alle 10 precise, tenne il Consiglio dei Ministri, l'ultimo, ed aprì la discussione sulla ritirata in Valtellina la cui preparazione e organizzazione era da tempo stata affidata al segretario del Partito».
Con la prematura presa di Bologna, causata da un evidente disimpegno tedesco, tutti gli avvenimenti presero però una certa caotica accelerazione e lo stesso ripiegamento in Valtellina assumerà, con il passare delle ore, un aspetto diverso, perché era ovvio che, a prescindere dagli scarsi preparativi e apprestamenti militari e logistici sul posto, finalizzati ad una estrema difesa dirimpetto alle frontiere del Reich, la resa tedesca rendeva impraticabili questi progetti e configurerà il ripiegamento in Valtellina come una semplice e ulteriore fase transitoria verso l'epilogo.
Con questi fermi presupposti, comunque, di ripiegamento del governo e dei fascisti verso la Valtellina, Mussolini il pomeriggio del 25 aprile 1945, convinto dall'industriale Gian Riccardo Cella che si era dato da fare in proposito, si recò in Arcivescovado e ci andrà non di sotterfugio, ma con una evidente conoscenza da parte tedesca, fatto questo che esclude già a priori, qualsiasi intento di agire di nascosto da loro.
Il suo probabile stato d'animo in quei giorni ce lo descrive perfettamente Alberto Bertotto, nel suo saggio già citato, quando ci ricorda le parole che Mussolini aveva confidato a Madeleine Mollier, moglie dell'addetto stampa dell'ambasciata tedesca e volontaria della Croce Rossa che già lo aveva intervistato a Roma per una rivista tedesca nel 1938.
Gli disse Mussolini:
«Sette anni fa ero ancora un personaggio interessante. Adesso sono un defunto... Sì, signora. Sono finito. La mia stella è tramontata. Lavoro e faccio sforzi, pur sapendo che tutto non è che una farsa. Aspetto la fine della tragedia e, stranamente distaccato da tutto, non mi sento più attore; mi sento come l'ultimo spettatore».
Raccontò quindi di aver iniziato a morire nel gennaio del 1944, quando non aveva potuto ostacolare l'esecuzione di suo genero Galeazzo Ciano che lo aveva tradito il 25 luglio 1943). Questo tragico evento aveva portato alla rottura con Edda Mussolini Ciano, la sua figlia prediletta.
«L'agonia è atrocemente lunga. Sono il capitano della nave in tempesta. La mia nave si è spezzata. Mi trovo nell'Oceano furioso, su un rottame. Quest'impossibilità di agire, di rimediare! Nessuno sente la mia voce… Adesso mi rinchiudo nel silenzio. Ma un giorno il mondo mi ascolterà.... Se io promettessi a ogni italiano delle monete d'oro, nessuno mi crederebbe. Se le facessi versare nelle loro mani, le prenderebbero, ma intimamente sarebbero convinti della loro falsità. E quando un esperto garantisse loro che fossero di puro metallo prezioso, allora penserebbero che l'oro non vale più nulla. (…) Chi teme la morte non è mai vissuto, e io sono vissuto anche troppo. Io andrò dove il destino mi vorrà. Dopo la sconfitta io sarò coperto furiosamente di sputi, ma poi verranno a mondarmi con venerazione. Allora sorriderò, perché il mio popolo sarà in pace con se stesso. (…) Nulla da fare, signori. Cala il sipario... Ho provocato la fortuna, si è rivoltata. Ho evocato la violenza, mi si è gettata contro centuplicata. Ho sfidato il mondo, è stato più forte di me. Ho disprezzato gli uomini, si sono vendicati... Ho lottato sino all'estremo. Mi hanno vinto... Andiamo dove si deve andare. E vi andrò senza recriminazioni, senza odio, senza orgoglio. Addio» [8].
Con questa amarezza e rassegnazione, ma ben deciso e determinato a conseguire quel minimo di obiettivi che si era prefisso e abbiamo poc'anzi illustrato, Mussolini si recò all'appuntamento in Arcivescovado.

25 aprile 1945: l'incontro in Arcivescovado
In una intervista a Mussolini, rilasciata al giornalista di Alessandria, Gian Gaetano Cabella (22 aprile del 1945), ed uscita poi dopo la morte del Duce, si legge:
«"Duce, non sarebbe bello formare un quadrato attorno a voi e al gagliardetto dei Fasci e aspettare, con le armi in pugno, i nemici? Siamo in tanti, fedeli, armati...".
"Certo, sarebbe la fine più desiderabile... ma non è possibile fare sempre ciò che si vuole. Ho in corso delle trattative. Il cardinale Schuster fa da intermediario. Ho l'assicurazione che non sarà versata una goccia di sangue... Un trapasso di poteri. Per il Governo, il passaggio fino in Valtellina, dove Onori sta preparando gli alloggiamenti. Andremo anche noi in montagna per un po' di tempo".
Osai interromperlo: "Vi fidate, Duce, del cardinale?".
Mussolini alzò gli occhi e fece un gesto vago con le mani. "È viscido. Ma non posso dubitare della parola di un Ministro di Dio. È la sola strada che debbo prendere. Per me è, comunque, finita. Non ho più il diritto di esigere sacrifici dagli italiani"».
In base ai ricordi di Vincenzo Costa ultimo commissario della federazione fascista di Milano, si può ricostruire che al mattino nell'ufficio del prefetto Nicola Gatti, segretario particolare di Mussolini, si tenne una riunione alla quale parteciparono Costa, Franco Colombo comandante della "Muti", i membri del governo Barracu, Zerbino, Mezzasoma, Pavolini segretario del PFR e il capo della provincia Bassi, il questore Larice, il colonnello Casalinovo, il colonnello Gilormini della GNR ed altri ufficiali.
Pavolini riassunse così la situazione:
«Che cosa stia accadendo sul Po non lo sappiamo. Di conseguenza, piaccia o non piaccia al Maresciallo Graziani, le nostre formazioni debbono subito essere indirizzate verso la Valtellina.».
Verso il termine di questa riunione, sembra che apparve il generale Diamanti che da una settimana aveva assunto il comando militare regionale. Disse:
«Signori, noi militari abbiamo concluso un accordo con il comanda delle forze partigiane. Attueremo il passaggio dei poteri e l'ordine pubblico sarà garantito da pattuglie miste di partigiani di nostri soldati. E tu (rivolgendosi a Pavolini) se vuoi che le brigate nere si salvino fai togliere subito ai fascisti le camicie nere, fagli indossare quelle grigioverdi con le stellette e mettile ai nostri ordini».
Al che Pavolini saltò su e inveendo disse:
«Gli ordini li deve dare solo il Duce, solo Lui, lo avete dimenticato?... Che schifo!» E uscì per andare a informare Mussolini.
Racconta ancora Costa, che nel primo pomeriggio, dai giardini della villa di Via Mozart, che comunicava con il retro della Prefettura, udirono passare Mussolini, proveniente dal Palazzo del Governo. Si avvicinarono Costa, Pavolini e il federale di Mantova Motta e il Duce gli disse:
«Il cardinale Schuster mi ha invitato in Arcivescovado. Avete ragione non sembra che i tedeschi abbiano intenzione di schierarsi a difesa della sponda lombarda del Po. Tra qualche ora la decisione definitiva».

Come Dio volle poco dopo le 16 del 25 aprile, Mussolini salito a bordo della sua Alfa Romeo (e non di una fantomatica "Limousine" della Curia), guidata dall'autista Giuseppe Cesarotti, fece le poche centinaia di metri che separano la Prefettura dal palazzo Arcivescovile per recarsi all'incontro con i capi della Resistenza, sotto la mediazione del cardinale Schuster.
Sono in macchina con lui Cesare Maria Barracu colonnello sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e il prefetto Mario Bassi Capo della Provincia di Milano, oltre all'attendente del Duce Pietro Carradori. Alcune fonti affermano che entrò in macchina anche il tenente Fritz Birzer capo della scorta tedesca del Duce, ma la cosa non è certa, e comunque questa figura la ritroveremo più tardi nel cortile della Prefettura al ritorno del Duce.
Su un altra macchina, partita poco dopo, c'erano invece Paolo Zerbino ministro degli interni, e l'industriale Gian Riccardo Cella, ma anche qui qualcuno afferma che Zerbino era già anche lui nella macchina con il Duce. Sottigliezze.
Sono comunque tutti in borghese tranne il Duce che porta la sua solita divisa.
Il maresciallo Rodolfo Graziani, ministro delle Forze Armate arrivò per conto suo ancora un poco più tardi a bordo di una macchina scoperta, scortata da quattro tedeschi che poi sembra rimasero nei pressi dell'ingresso del palazzo ubicato in piazza Fontana, ma anche questa è una notizia non accertata.
Riportare la cronaca esatta di quell'incontro è pressoché impossibile visto che le testimonianze in proposito divergono non solo su aspetti importanti, ma anche su particolari insignificanti.
Un "Rapporto Settimanale" Riservato del 12 maggio 1945 in lingua americana, redatto da una Unità della Sezione della Guerra Psicologica del 15° Gruppo del Quartier Generale dell'Esercito statunitense, riporta una ricostruzione di quella riunione dedotta all'epoca da varie fonti italiane. Vi si precisa che non rappresenta i punti di vista degli estensori americani.
Sono comunque una raccolta di informazioni raffazzonate, rese sull'onda emotiva e propagandistica di quei tempi, oltretutto anche imprecise, ma più o meno sono i cardini su cui poi poggiarono le ricostruzioni di quella riunione che fecero da base per varie pubblicazioni negli anni seguenti.
È di un certo interesse leggerle, eccone un estratto:
«Si deve dire che il Cardinale Schuster, l'Arcivescovo di Milano, aveva scritto a Mussolini numerose volte per cercare di convincerlo a fare aperture agli Alleati per la resa, così che la distruzione e lo spargimento di sangue della lotta, alla fine, potessero essere evitati. Nessuna risposta diretta fu ricevuta a questi suggerimenti fino a quando il 25 aprile il Cardinale Schuster ricevette una nota dal dittatore che gli chiedeva di organizzare un incontro al Palazzo della Curia dell'Arcivescovo tra egli stesso (Mussolini, N.d.R.) ed il Generale Cadorna e l'Avv. Marazza come rappresentanti del CLNAI». (Come vedesi si conferma che Mussolini non presentò mai concrete aperture per una resa agli alleati, tranne come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, quel "sondaggio", nel mese di marzo e tramite il figlio Vittorio, con dei preamboli per una futura "proposta" di resa, il quale però poteva concretizzarsi solo dopo la ritirata dei tedeschi dal territorio italiano, N.d.R.).
«Circa alle 3.30 post meridiem l'Avv. Marazza, seguendo le istruzioni del CLNAI di contattare la Curia Arcivescovile (in modo da seguire il più attentamente possibile le mosse che avrebbero poi preso i tedeschi per negoziare una resa tramite la mediazione dell'Arcivescovo), entrò alla Curia ed egli era appena arrivato quando il Cardinale uscì fuori dalla sua sala di udienza con una nota in cui si diceva che Mussolini era ansioso di parlare col Generale Cadorna e Marazza. Il rappresentante del CLNAI si congedò immediatamente per consultarsi coi suoi colleghi ed andare a prendere il Generale Cadorna, ma ci fu qualche ritardo prima che potesse trovarlo. Nel contempo Mussolini arrivò alla Curia e per oltre un'ora conversò con il Cardinale che cercava di convincerlo ad arrendersi. Durante questa conversazione, stando alla versione del Cardinale Schuster, Mussolini espresse le sue intenzioni di lasciare Milano con 3000 Camicie Nere e di ritirarsi in Val Tellina per fare un'ultima resistenza prima di arrendersi. Quando i rappresentanti del CLNAI giunsero (in aggiunta a Cadorna e Marazza venne anche l'ing. Lombardi, ora Prefetto di Milano), essi trovarono delle guardie delle SS all'ingresso del palazzo dell'Arcivescovo e dei militi fascisti allineati lungo la scalinata. Essi entrarono nella Curia e Mussolini chiese che Graziani dovesse essere presente. Il Ministro dell'Interno (della RSI, N.d.R.), Zerbino, ed il Sotto-Segretario Barracu, vennero pure. Mussolini apparve a Marazza come un relitto umano. Egli disse "Cosa avete da dire". Marazza replicò che egli era stato invitato per conferire ed egli pensava che Mussolini avesse qualcosa da proporre. Il Generale Cadorna indicò che tutti loro erano venuti per ricevere la resa incondizionata di Mussolini. Mussolini sembrò infastidito da ciò e rispose che si era aspettato una discussione amichevole e sembrò aspettarsi alcune concessioni nelle formalità di resa. Marazza replicò che queste erano questioni di trascurabile importanza e potevano essere organizzate e Mussolini allora si calmò e sembrò disposto ad accettare la resa incondizionata. A questo punto, comunque, Graziani intervenne e ricordò al suo capo gli obblighi della loro alleanza con la Germania. Per lui era una questione di onore agire solamente in comune accordo con gli alleati tedeschi. Ci fu qualche discussione ed uno degli astanti (può darsi si trattasse di Zerbino) indicò che egli aveva di recente avuto informazioni del fatto che i Tedeschi erano occupati da qualche tempo nel cercare di negoziare una resa propria ed avevano proposto come uno dei termini di questa resa il disarmo della milizia Fascista da parte delle truppe tedesche. Questa affermazione prese Mussolini completamente di sorpresa e lo fece cadere in una violenta collera sbraitando fortemente contro i Tedeschi. Egli protestò vigorosamente (secondo il Cardinale) "essi ci hanno trattato come schiavi ed adesso essi ci tradiscono". Egli dichiarò di dover andare dai Tedeschi e dire loro ciò che egli pensava di essi chiedendo ai membri del CLNAI se essi sarebbero stati contenti di accompagnarlo. Questi ultimi declinarono (l'invito, N.d.R.). Il Cardinale convinse Mussolini a non dire ai Tedeschi che egli conosceva i loro segreti negoziati poiché vi era il pericolo che essi volessero negare ciò che aveva avuto luogo e volessero quindi continuare a combattere. Mussolini allora partì, dopo aver detto che sarebbe stato di ritorno entro un'ora per definire le trattative. Egli non tornò ma, mentre Marazza aspettava con Cadorna e Lombardi, il console tedesco Wolff (da non confondere con il generale Wolff in quel momento fuori dall'Italia, N.d.R.) venne per dire che il ritardo era probabilmente dovuto alle difficili comunicazioni e chiese ai rappresentanti del CLNAI di pazientare specialmente in virtù del fatto che il Generale Von Vietinghoff stava emanando un proclama alle sue truppe per dire che avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per mitigare il loro destino. Dopo aver aspettato ancora, Marazza telefonò in Prefettura e gli fu detto che Mussolini era già partito per il suo sfortunato tragitto».
(Vedi: A. De Felice: "Il gioco delle ombre" www.alessandrodefelice.it).

Da come si riscontra, questa raccolta di notizie, in parte imprecisa, fatta all'epoca dagli americani, ruota sull'equivoco dell'intenzione di trattare una resa da parte di Mussolini, del resto già parzialmente smentito nel testo stesso, dove il Duce afferma di volersi ritirarsi verso la Valtellina con 3.000 Camice Nere e poi si racconta della sua veemente reazione per aver appreso delle trattative di resa dei tedeschi, una irritazione che in parte potrebbe essere stata esagerata al fine di riappropriarvi verso i tedeschi di ogni libertà di azione, ma sarebbe fuori luogo e assurda se anche lui si fosse recato in Curia con le stesse intenzioni, ma sostanzialmente la cronaca di quegli avvenimenti è più o meno quella.
Noi, epurandola da ogni faziosità propagandista possiamo anche riassumerla partendo dai momenti seguenti all'arrivo dei rappresentanti della RSI. i quali visto che erano arrivati prima, si intrattennero nel frattempo in anticamera in colloqui di varia natura con l'ambiente della Curia tra cui monsignor Giuseppe Bicchierai (incaricato dei rapporti tra la Curia e il CLNAI e i tedeschi), monsignor Eclesio Terraneo, segretario dell'Arcivescovo, ecc., mentre il Duce si apparterrà con il cardinale Idelfonso Schuster il quale lascerà poi ai posteri alcuni melliflui ricordi di quel colloquio per i quali non c'è da fidarsi troppo circa la loro attendibilità.
Certo è che l'infido Cardinale, pur conoscendo le trattative per la resa intessute con i tedeschi, pregava Mussolini affinchè accettasse una capitolazione, magari anche una sua consegna in Curia. Si dice, ma non è accertato, che gli aveva già fatto preparare una cameretta per accogliere il prezioso "prigioniero", quel che sembra certo è invece il fatto che nei pressi dell'Arcivescovado stava attendendo la consegna del Duce, l'ufficiale italo inglese Max Salvadori, ufficiale inglese di collegamento tra il Comando Alleato ed il CLNAI, dicesi per prendere in consegna il Duce per conto degli Alleati.
È una notizia questa che sconcerta perchè proprio quella mattina, nella decisiva riunione del CLNAI (tenutasi nella biblioteca del Collegio dei Salesiani di via Copernico 9) il Salvadori aveva sollecitato i capi della Resistenza ad agire autonomamente nei confronti di Mussolini visto che ne avevano l'autorità per farlo, fino all'arrivo delle truppe Alleate. In pratica era un sottile invito a farlo fuori alla svelta.
È significativo che il Duce, in questa specie di colloquio, considerasse finita la RSI ed esprimesse il desiderio di ritirarsi in Valtellina con i fascisti che avessero voluto seguirlo.
Disse Mussolini, parlando evidentemente in termini generici, intenzionali e comunque subordinati dagli eventuali futuri avvenimenti:
«Il mio programma comprende due parti e due tempi diversi. In un primo tempo, domani [26 aprile] l'esercito e la GNR saranno sciolti. In quanto a me, ho deciso di ritirarmi in Valtellina con una schiera di tremila Camice Nere».
Schuster avrebbe replicato:
«Non illudetevi, duce. io so che le Camice nere che vi seguiranno non sono che trecento e non tremila come vi si fa credere» [9].
Sorridendo mestamente Mussolini replicò:
«Forse saranno un po' di più, ma non di molto. Non mi faccio illusioni"».
Storica rimase anche un ultima battuta di Mussolini, in risposta al Cardinale che gli parlava della Storia e del suo giudizio:
«Ella mi parla della Storia. Io credo solo alla storia antica, quella cioè che viene redatta senza passione e tanto tempo dopo».
Finite queste "confidenze" tra il Duce e il Cardinale, Mussolini restò con il regalo avuto dall'alto prelato: un suo libro su la "Storia di San Benedetto" che mise in una busta e che non leggerà mai.
Nel frattempo il maresciallo Graziani, dall'Arcivescovado, aveva scritto un biglietto alla moglie, la marchesa Ines, ospite delle "Suorine di Maria Bambina" che accudiscono il Cardinale:
«Scrivo qui dall'Arcivescovado, dove mi trovo con il Duce presso il Cardinale. Si stanno trattando questioni di eccezionale importanza, alle quali non è estranea l'azione decisa da me svolta su Mussolini in questi giorni. ...Forse è vicino il momento che un raggio di sole possa risplendere finalmente sulle tenebre che ci hanno avvolto in questo tremendo periodo».
Ma ancor più, durante quell'attesa dei delegati ciellenisti, sembra che don Bicchierai si lasciò scappare la notizia che stavano attendendo in Curia l'arrivo del generale Wolff per firmare la resa, al che un allarmatissimo prefetto Bassi avvertì immediatamente il maresciallo Graziani il quale confermerà il particolare nel suo libro di memorie. Stranamente però la faccenda non venne subito riportata alle orecchie di Mussolini che la verrà a conoscere in modo dramatico poco dopo in piena riunione.
Giunsero alfine, da una entrata secondaria del palazzo, i delegati della Resistenza Raffaele Cadorna, comandante del CVL (Corpo Volontari della libertà, praticamente la struttura armata della resistenza), l'avvocato Achille Marazza esponente della Democrazia Cristiana nel CLNAI, Riccardo Lombardi del partito d'Azione e già prefigurato Prefetto di Milano. Mancano i socialisti e i comunisti. Giustino Arpesani (liberale nel CLNAI) arriverà invece successivamente a riunione in corso.

La "trattativa" in Arcivescovado
Iniziata la riunione, con Mussolini che chiede quali novità e condizioni gli si vuol far conoscere, occorre sottolineare che, cambiando le carte in tavola rispetto alle premesse che avevano portato all'incontro, i delegati del CLN, consenziente il Cardinale, per bocca di Marazza, chiedono subito la resa incondizionata dei fascisti, determinando immediatamente l'impasse per eventuali trattative.
Già qui c'è da rilevare il non indifferente particolare che i rappresentanti della resistenza erano privi dei delegati socialisti e comunisti (oltre che di importanti esponenti come Longo, Mattei, Parri, ecc.) e se guardiamo bene, questi rappresentanti "moderati" della Resistenza rappresentavano più che altro se stessi e avevano avuto fino allora un loro ruolo solo in virtù delle coperture concessegli dagli Alleati.
Mussolini non poteva non rilevare e soppesare questa carenza di rappresentatività nei suoi interlocutori, ma addirittura se, ipoteticamente, Mussolini avesse anche accettato una resa incondizionata, non si capisce come le autorità cielleniste avrebbero potuto, in quel momento totalmente prive di qualsiasi consistenza militare in città, prendere possesso dei palazzi governativi (la Prefettura la si dovette far occupare, alle 6 del mattino successivo, mentre le formazioni fasciste sgombravano Milano, dalla Guardia di Finanza) e delle migliaia di fascisti e militi della RSI che si sarebbero dovuti consegnare, senza patteggiare "condizioni" per e richieste a Mussolini per l'utilizzo delle forze armate della RSI.
Come si vede quindi, tutto il contesto di quella vicenda lo si è voluto propagandisticamente manipolare per dipingere la riunione all'Arcivescovado sotto una luce che non è proprio quella che si ebbe nella realtà.
Mussolini che era arrivato a quella riunione senza alcuna preclusione ideologica, del resto assurda data la situazione, e con l'intento di lasciare completamente il campo ed il potere al CLN a patto che consenta un deflusso incruento delle forze fasciste verso la Valtellina, ed in questo disponibile anche a lasciare forze militari della Repubblica e della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) in funzione di ordine pubblico (tutti intenti questi che, giocando sull'equivoco delle parole, faranno poi sostenere una sua presunta, ma inesistente volontà di arrendersi alla Resistenza), di fronte ad una richiesta di resa incondizionata si mostra meravigliato e ribadisce che lui non è lì per concedere tanto.
Egli chiede comunque di conoscere i termini precisi dell'accordo. Racconta Ezio Bacino, in una delle prime ricostruzioni dell'incontro, che il Duce così dicendo, si raddrizza sul busto, gonfia il petto e con mano ad artiglio avvinghia il bracciolo del divano:
«Mi era stato detto che avrei ottenuto la salvaguardia dei fascisti e delle loro famiglie e la resa onorevole per le truppe» dice Mussolini. [10]
Gli si risponde che, comunque, tale configurazione di resa offrirebbe garanzie personali agli sconfitti ed in particolare alle loro famiglie.
In pratica il progetto che il cardinale Schuster sperava, beato lui, di far approvare verteva più o meno su tre punti:
1. l'esercito e le formazioni fasciste, compresa la Decima Mas e la Legione Muti, deposte le armi, si sarebbero consegnati prigionieri, ottenendo gli onori militari a norma della convenzione dell'Aja e gli ufficiali il mantenimento dell'arma;
2. ai familiari dei fascisti sarebbe stata garantita l'incolumità fisica e la protezione degli averi;
3. il Duce sarebbe stato considerato prigioniero di guerra e consegnato agli Alleati.
Lombardi, che assume la veste del più ostico, aggiunge che le modalità di una eventuale intesa saranno concordate, ma prima bisogna firmare. È un prendere o lasciare. Di fatto la fine di una trattativa mai iniziata.
In ogni caso preciserà subito Graziani, a scanso di equivoci:
«Duce non si può trattare una resa in questo modo, dobbiamo avvertire i camerati tedeschi. La fedeltà verso di loro è la causa e la giustificazione della mia linea di condotta».
È forse a questo punto che qualcuno, probabilmente con il nascosto fine di ammorbidire le posizioni dei fascisti. accennò alle trattative di resa intraprese in segreto dai tedeschi con la Curia, particolare, come abbiamo già detto, che sembra già don Bicchierai si era lasciato sfuggire prima in anticamera,. Di fronte allo sconcerto che subentra tra i fascisti il ministro Zerbino, altri dicono Graziani, interverrà per segnalare quanto già conosceva:
«Duce, Bassi conosce fatti nuovi ed eccezionali, che noi non sappiamo».
Viene quindi ascoltato Bassi che rivela quanto precedentemente appreso circa le trattative segrete per una resa svolte dai tedeschi all'insaputa degli italiani.
Altra versione narra invece che fu il maresciallo Graziani ad avvisare Mussolini il quale, sorpreso, guardò interrogativamente il cardinale Schuster che gli confermò la notizia, aggiungendo che però i tedeschi non avevano ancora firmato, ma avevano promesso di farlo entro 24 ore (come sappiamo, invece, i tedeschi avevano finalizzato le loro trattative direttamente con gli Alleati in Svizzera).
Comunque sia il cardinale Schuster, dichiarandosi dispiaciuto che certe informazioni siano trapelate, decide di andare a prendere i suoi appunti in merito che poi leggerà agli astanti.
Si vengono quindi a conoscere i vari passi fatti dai tedeschi, tra i quali anche la loro proposta di disarmare le Brigate Nere.
L'effetto di quella rivelazione, se finalizzato a disorientare ed ammorbidire i fascisti, fu però diverso, perché i fascisti e soprattutto Mussolini ebbero una reazione indignata ed istintiva che pose fine ad ogni ulteriore discussione del resto già impossibile.
Per la precisione bisogna anche sottolineare, tanto per cambiare, che non è assolutamente certo "il come" questa faccenda della resa tedesca uscì fuori nel corso della riunione e venne esplicitata durante l'incontro. Le memoria di Cadorna, Lombardi, Graziani, ecc., e le varie ricostruzioni storiche, ne danno tutti una diversa sequenza e mettono in bocca, ora a questo, ora a quest'altro personaggio, e con parole diverse, il fatto di aver reso note le trattative in atto dei tedeschi.
Ma anche in questo caso l'aspetto non riveste un grande interesse visto che, oltretutto, precedentemente in anticamera, alcuni esponenti fascisti ne erano già venuti a conoscenza.
Si immagini comunque la vacuità e impraticabilità dei tre punti precedentemente accennati, sui quali verteva la discussione e a cui, per la mancanza dei rappresentanti socialisti e comunisti, non si poteva fare alcun affidamento.
Proprio quel mattino, oltretutto, il CLNAI, dietro l'operato del Comitato Insurrezionale antifascista aveva emesso il suo famoso Secondo Decreto, quello sull'Amministrazione della giustizia, che all'art. 5 affermava:
«I membri del Governo fascista e i gerarchi del fascismo, colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, di aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromessa e tradita la sorte del paese, e d'averlo condotto all'attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte!».
Non è certo se la discussione o meglio il parapiglia si interruppe a quel punto.
In ogni caso la discussione era andata comunque avanti anche dopo la richiesta di una resa incondizionata e questa "appendice" di riunione la si è voluta far passare come una intento di Mussolini di trattare "ugualmente" una sua resa, ma il particolare non vuol dire nulla, se non forse per il fatto che Mussolini, conscio di aver comunque, deciso di abbandonare Milano a sera, evidentemente sperava di strappare qualche accordo transitorio che garantisse il deflusso in modo incruento del governo e dei fascisti e qualche garanzia per eventuali familiari che restavano in città.
Ma, di fatto, ogni ipotesi di trattativa era irrimediabilmente tramontata sia dopo la richiesta di una resa a discrezione e tanto più dopo l'annuncio della resa tedesca.

Per riassumere, quindi, Mussolini, invitato il 25 aprile pomeriggio in Arcivescovado per trattare quello che gli hanno fatto credere un possibile ed incruento passaggio dei poteri o comunque una "resa" tra virgolette, condizionata, che lo lasci libero di ritirarsi verso la Valtellina, si era trovato invece di fronte ad una richiesta di resa incondizionata, magari con tanto di sua consegna al nemico, questo infatti era il mandato con il quale i tre esponenti della resistenza erano venuti all'incontro.
E ovvio che i rappresentanti della RSI restarono tutti spiazzati e sorpresi, compreso il maresciallo Graziani, che pur era suo intendimento chiudere al più presto quella pagina di storia, ma non con una resa incondizionata, unilaterale e oltretutto non all'insaputa dei tedeschi.
Ed è proprio la presenza di Graziani, non solo ministro militare del Governo repubblicano, ma anche Comandante dell'Armata "Liguria", a sua volta dipendente dal Comando Superiore Germanico, che smentisce ogni intenzione di resa da parte di Mussolini. Nel caso di una resa tedesca infatti, si doveva arrendere anche Graziani, ma una resa di Graziani, di nascosto dei tedeschi, sarebbe stata non solo infamante, ma anche impossibile.
Ed anche il fatto che in Curia sia stata resa nota una segreta trattativa di resa dei tedeschi, non cambia le cose e non autorizzava i fascisti a procedere per conto loro.
In sostanza, non solo la strategia mussoliniana prima accennata, esclude assolutamente una sua qualsiasi intenzione di resa al CLN, intesa come fine di ogni suo agire politico e militare e magari una sua consegna al nemico, ma è ulteriormente ridicolo pensare che Mussolini avrebbe potuto arrendersi a questi cosiddetti capi della Resistenza che, nonostante una certa agiografia resistenziale, a posteriori, abbia voluto ingigantire nelle loro reali consistenze, erano ben poca cosa (in Arcivescovado, a Cadorna che minacciava di avere 50.000 uomini armati, Graziani battendo il pugno sul tavolo rispose: «tu hai 50.000 c...!»).
Mussolini quindi sapeva perfettamente che questi "capi" (tra l'altro tutti individuati nei giorni precedenti dalla polizia fascista nei loro nascondigli, ma da lui lasciati indisturbati sotto le tonache dei preti), poco o nulla contavano ed il loro seguito in quel momento era ancora militarmente scarso (alcune discrete divisioni partigiane erano ancora lontane) e comunque inferiore al sia pur esiguo potenziale militare dei fascisti ancora in armi.
Mussolini e gli altri esponenti della RSI potevano essere disperati per la loro situazione senza vie di uscita, ma non erano degli ingenui o dei pazzi, e certamente non avrebbero mai contrattato una resa con questo effimero CLN che, oltretutto, visto che la sua sola e reale consistenza militare clandestina era quella comunista, neppure poteva garantire l'esecuzione degli accordi e la sicurezza di chi si sarebbe arreso.
Arrendersi a questa Resistenza sarebbe stato assurdo, ma ovviamente oggi questo non lo si fa rilevare per non inficiare l'immagine coreografica di una mai avvenuta "insurrezione" del 25 aprile.
Se Mussolini avesse voluto arrendersi in quel momento e salvarsi in qualche modo, in definitiva consegnandosi agli Alleati, non aveva senso cercare di farlo tramite il CLNAI, per giunta orbo delle frange comuniste, ma lo avrebbe fatto direttamente, trincerandosi in città e attendendo il loro l'imminente arrivo, più o meno quello che fecero i tedeschi dopo aver contrattato in Svizzera la resa relativa alle loro forze armate stanziate in Italia.
Mussolini sapeva perfettamente che stava andando verso la sconfitta e quindi verso una resa che gli Alleati gli avevano ben fatto capire doveva essere incondizionata.
Era solo questione di giorni, se non di ore, ma quelle ore il Duce voleva utilizzarle per giocarsi qualche carta in virtù delle sue documentazioni e nella speranza di un qualsiasi spiraglio che potesse aprirsi all'ultimo minuto.
Era anche sensibile ad evitare ulteriori distruzioni e un probabile bagno di sangue, sapendo bene che a rimorchio delle armate Alleate e in conseguenza del rifluire delle formazioni fasciste le strade e le piazze si sarebbero riempite di "partigiani dell'ultim'ora" e di elementi incontrollabili e assetati di vendette.
Ed è per questo che aveva cercato il "contatto" con le componenti della Resistenza ed alla fine aveva privilegiato la mediazione della Curia, per trattare il trapasso dei poteri e spuntare qualche garanzia che questo trapasso fosse "indolore".
Per lui le trattative di resa con il CLNAI, come abbiamo precedentemente illustrato, se proprio vogliamo usare questa parola, riguardavano il territorio, nella fattispecie la Lombardia che veniva evacuata dal governo e dai fascisti (ma del resto quasi tutta l'Italia era oramai andata), lasciando il posto alle nuove autorità cielleniste.
È normale quindi che in Arcivescovado Mussolini, di fronte ad una richiesta unilaterale di resa, ne esce infuriato e spiazzato dalla informativa, appresa in quella sede, sugli accordi segreti per una imminente resa tedesca che rendeva ora veramente problematico lo sganciamento finale dei fascisti.
In Curia quindi, prima minaccia di denunciare la scorrettezza tedesca alla radio, cosa che getta preoccupazione per gli eventuali contraccolpi di un annuncio del genere (sembra che poi Graziani si incaricò di farlo desistere da questa iniziativa), poi lascia detto "diplomaticamente" che farà sapere le sue decisioni, in realtà già prese e se ne viene via tornando in Prefettura a Corso Monforte.
Scriverà Graziani:
«Egli dominò la riunione dal primo all'ultimo momento, quando si alzò di scatto per uscire, come se fosse stato in una delle tante riunioni di Palazzo Venezia».
Famose resteranno le parole del Duce, riferite ai tedeschi:
«Ci hanno sempre trattato da servi, ora ci pugnalano alle spalle.. Mi hanno tradito. Sin da questo momento dichiaro di riprendere nei confronti della Germania la mia libertà d'azione».
Testimonierà Pietro Carradori, il suo attendente, che si trovava in quei frangenti nei pressi del Duce che questi, venuto a conoscenza della imminente resa tedesca :
«... Mussolini si mostrò non soltanto sorpreso, ma palesemente indignato, e dopo momenti di pesante tensione e di un silenzio che si poteva tagliare a fette, annunciò al Cardinale la sua decisione: "Alle otto di stasera lasceremo Milano. Non voglio che per causa mia sia sparso altro sangue"».

Una indiretta ed ulteriore conferma, di come stanno esattamente le cose, oltretutto, l'abbiamo dal successivo ed immediato comportamento del Duce, venuto via dall'Arcivescovado, quando si scagliò violentemente contro l'industriale e factotum Gian Riccardo Cella che aveva svolto la prassi mediatrice proprio per realizzare l'incontro dal cardinale Schuster.
Lo accusò e con lui la Curia e i cosiddetti capi della resistenza, di volerlo fare arrendere ed ingabbiare quella sera stessa in città. Ma in quelle ore si scagliò anche contro i tedeschi rei di aver intrapreso trattative di resa all'insaputa degli italiani, mettendo in crisi tutte le strategie militari della repubblica.
In ogni caso, se vogliamo dirla tutto, possiamo anche considerare il fatto che il Duce non poteva non sapere che i tedeschi stavano tramando qualcosa e che probabilmente sarebbero arrivati ad una resa e quindi, in buona parte, la sua reazione contro di essi fu anche calcolata, nell'ottica di potersi riappropriare, sull'onda emotiva di una denuncia del loro grave inadempimento, di ogni sua liberta di azione, ma è altrettanto plausibile che il venirlo a sapere all'improvviso il quel frangente ed in quella riunione, gli scombinò anche tutti i programmi che si era prefissato nelle prossime ore.
Il Duce poi, non mancò neppure di accennare ad un imminente e peggior 25 luglio, riferendosi evidentemente a quanto aveva ben percepito in quelle ore, ovvero che le Istituzioni e le varie strutture della repubblica stavano oramai defilandosi per passare armi e bagagli dalla parte dei vincitori (Guardia di Finanza in testa). Un atteggiamento, quindi, quello di Mussolini, che indica chiaramente che lo stesso si era recato a quella riunione con ben altri intenti di quelli di voler trattare una capitolazione.
Sono poi tutte leggende quelle che, per esempio, narrano che fu Sandro Pertini, oltretutto giunto in Arcivescovado quando Mussolini se ne stava andando, che fece saltare le presunte "intenzioni di arrendersi di Mussolini". È questo un equivoco, malevolo e voluto, che si gioca tutto su la differenza, che sembra piccola, ma è profonda, tra un "trapasso dei poteri" ed una "resa incondizionata al nemico" e che farà millantare al Pertini meriti che non ha mai avuto.
Era accaduto, infatti, che uscito Mussolini, arrivò in Arcivescovado un irascibile Pertini, alquanto infuriato, seguito poi dal comunista Emilio Sereni:
«Dove sono andati? Dov'è Mussolini? Perché lo avete lasciato andar via? Bisognava trattenerlo, prenderlo». E giù una filippica di Pertini contro il Cardinale e contro i delegati ciellenisti rei a suo dire di aver voluto "trattare" con Mussolini [11].
Tutta una sceneggiata che però da il senso di quanto si vorrebbe fare con il Duce.
In curia sopraggiunse anche il console tedesco Wolff (da non confondere con il generale Wolff che in quel momento si trovava fuori dell'Italia) per giustificare i ritardi delle notificazioni dei tedeschi circa le trattative di resa (in realtà i tedeschi avevano oramai tagliato fuori la mediazione della Curia).
Sarà l'ex prefetto Carlo Tiengo, un ex ministro legato alla massoneria, che poco dopo avvertirà Mussolini delle intenzioni omicide nei suoi confronti.
La presenza del Tiengo, comunque, pone grossi interrogativi sul ruolo giocato dalla massoneria in quei frangenti ed in ogni caso occorre dire subito che non fu certamente questo avvertimento di Tiengo che spinse Mussolini a non tornare in Arcivescovado, perchè tutto il suo comportamento, nei minuti successivi alla sua uscita dalla Curia, dimostrano chiaramente che il Duce aveva immediatamente già deciso di troncare ogni trattativa del resto impossibile.
Altrettanto grossi interrogativi li sollevano la presenza in Arcivescovado di "agenti dell'Oss" quali quel Giuseppe Cancarini Ghisetti, definito il "partigiano combattente dei servizi segreti", entrato a far parte della "formazione spionistica Nemo" e già artefice, fin dall'ottobre del 1944 della collusione con gli Alleati del colonnello delle SS Eugen Dollmann e in seguito impegnato nelle trattative di resa tra il generale delle SS Karl Wolff e il cardinale Ildefonso Schuster.
È anche interessante sapere che dopo la caduta di Roma, Ghisetti, dietro disposizioni dell'Oss seguì il suo superiore Temistocle Testa (prefetto e poi Governatore della città durante la RSI) a Milano. Qui dirigerà l'Ufficio intendenza del Ministero dell'Interno preposta alla sovra intendenza di tutto il traffico dei trasporti, compresi i convogli automobilistici vaticani.
A questo proposito il valente ricercatore storico di Parma Franco Morini scrisse in un suo articolo questa osservazione:
«È interessante notare che anche Nadotti (l'ingegnere Giovanni Nadotti, tenente segretario e braccio destro di Romualdi che da Parma lo seguirà a Milano quando Romualdi diverrà vice segretario del PFR, N.d.R.), quando fu trasferito a Milano al seguito di Romualdi nell'autunno-inverno del 1944, fu anch'egli incaricato di dirigere e controllare l'autoparco della Brigata Nera. Proprio questo incarico permetterà a Nadotti e Ghisetti di avere fra loro assidue relazioni, senza con ciò destare alcun sospetto, dati i loro stretti rapporti d'ufficio; per una rete spionistica, ciò significava essere continuamente al corrente dei vari spostamenti dei principali mezzi di locomozione civili e militari, nonché poter fruire dei mezzi stessi con la massima copertura anche in eventuali operazioni segrete».
Questo, tanto per dare il senso del quel "nido di serpi", di quella equivocità di ambienti e situazioni con cui dovette confrontarsi il Duce nelle sue ultime ore di vita.
Come già accennato, giornalisti che non hanno il senso del limite, sono anche arrivati a sostenere tesi che davano per scontato il fatto che Mussolini e Wolff, ciascuno per conto suo, stavano cercando di trattare una resa all'insaputa dell'altro. Quando, non solo è evidente e comprovato, che Mussolini non avrebbe mai ripetuto un "8 settembre", ma altresì, pur volendolo fare, non avrebbe avuto alcuna possibilità di agire in questo senso, di nascosto dai tedeschi ed oltretutto si recò in Arcivescovado dietro la loro attenta osservazione.

Affermerà il maresciallo Graziani (nel suo "Una vita per l'Italia", Mursia 1986):
«Così si chiuse la riunione presso l'Arcivescovado poggiata sull'equivoco di voler occultare fino all'ultimo momento un fatto così importante come la resa tedesca e considerare quella fascista indipendente da essa. Sia precisato che non poteva trattarsi se non delle formazioni del partito (tra l'altro quelle che avrebbero voluto arrendersi, perché le altre avrebbero seguito il Duce in ripiegamento, N.d.R.); non già delle Divisioni le quali inserite com'erano nello schieramento avanzato, avrebbero dovuto seguire la sorte delle truppe tedesche. Mussolini ritenne e lo disse al ritorno al palazzo del governo che "si trattava di un espediente inscenato per incapsularlo quella notte in Milano con tutto il governo».
Tra le tante interpretazioni di quell'incontro e le tante sue ricostruzioni, tutte difformi una dall'altra, colui che forse colse in pieno la realtà delle cose è stato l'avvocato Alessandro Zanella che nel suo "L'ora di Dongo", Rusconi 1993, ebbe a scrivere:
«(Mussolini) ... non vuole salvarsi sotto le sottane di Schuster, così come teme di finire rinchiuso nella torre di Londra o al Madison Square Garden, zimbello dei nuovi potenti del mondo. Evita anche una edizione italiana del processo di Norimberga, come dirà anche Churchill,... perché vuole ad ogni costo che la sua vicenda politica ed umana vada a concludersi con il rispetto che merita e non in un circo con la folla vociante e impazzita dall'odio».

Mussolini lascia Milano
Spendiamo adesso qualche parola per illustrare anche il resto di quella maledetta giornata del 25 aprile, i cui avvenimenti e testimonianze renderanno ancora più comprensibile la nostra precedente ricostruzione dell'incontro in Arcivescovado.
A Milano, nel corso della giornata, si stavano manifestando, un po' dappertutto, i soliti sintomi di squagliamento tipici di queste situazioni. Ci sono militi e addetti a funzioni di natura militare o di polizia che non tornano nei reparti di appartenenza, vari funzionari e impiegati negli uffici governativi che preferiscono non presentarsi al lavoro, scioperi e così via.
Del resto era noto che il capo della Polizia Renzo Montagna, interpretando a modo suo le disposizioni del Duce circa l'uso dell'applicazione di una certa clemenza, era venuto a mettere l'uniforme della polizia repubblicana a individui di ogni provenienza e perfino a partigiani.
Il generale Filippo Diamanti, comandante militare regionale per la Lombardia, come abbiamo visto fu sentito affermare che "era tempo di togliersi i gladi e di rimettersi le regie stellette" palesando con la sua mentalità da "militare" quello che si sarebbe verificato con l'Esercito repubblicano.
Ricorda il federale di Milano Vincenzo Costa:
«... appena Mussolini si diresse verso l'Arcivescovado, io tornai in piazza San Sepolcro. Notai che la circolazione tranviaria era completamente arrestata. Una calma apparente gravava sul centro cittadino. In Galleria, padre Eusebio stava parlando a qualche centinaia di fascisti, che lo ascoltavano silenziosi con le armi al fianco... Alle 16, improvvisamente, incominciarono a suonare le sirene di tutti gli stabilimenti e del dispositivo antiaereo. Intuimmo subito che quel segnale annunciava l'insurrezione antifascista. Ma i partigiani non apparivano».
Insomma si stava creando in città un clima surreale, ma esclusa qualche revolverata in periferia o nei pressi di qualche stabilimento industriale, questa storica insurrezione del 25 aprile, nessuno l'ha vista. Le sorti della Repubblica in ogni caso erano, di fatto, legate a quelle della guerra e, come disse Bruno Spampanato nel suo "Contromemoriale", improvvisamente non si ebbero più notizie proprio della guerra, mentre nessun piano era stato predisposto per queste emergenze.
Racconta il questore Secondo Larice:
«Poco prima di mezzogiorno si era cominciato a parlare di una probabile partenza, ma nulla sembrava deciso non essendo pervenute le notizie che si attendevano dalla Valtellina, dal generale Onori».
Per inquadrare bene le intenzioni di Mussolini di lasciare Milano, prima ancora dell'incontro pomeridiano in Arcivescovado, è anche utile leggere quanto riportato da M. Viganò nel suo "Mussolini, i gerarchi e la fuga in Svizzera" già citato:
«In effetti, ancora in un colloquio a Milano il 25 aprire mattina con Garobbio, il funzionario originario del Canton Ticino, [12] il Duce esclude la scappatoia della Svizzera e annuncia il ripiegamento su Como: "Fra qualche giorno andremo a Como. In prefettura vi diranno dove mi potrete trovare. Poi proseguiremo per la Valtellina. Perché non venite anche voi?". "Potrei ben venire", gli dico un'altra volta traducendo dal dialetto. "Gli svizzeri mi hanno offerto questa volta l'ospitalità". Una pausa: "Ho risposto che non vado in Svizzera (…) cosa avete intenzione di fare?". "Non ho ancora deciso ma, dovendo lasciare Milano, pensavo di rientrare a casa mia...". "Dove?". "A Moltrasio". "Sulla sponda occidentale del lago", precisa e, dopo una pausa: "Rientrate in seno alla vostra famiglia e, dopo due o tre giorni, venite da me a Como. Ho dato disposizioni che i fascisti si concentrino nel triangolo Milano-Lecco-Como. Poi proseguiremo per la Valtellina. In Valtellina potreste essere utile, conoscete la terra, la gente. Perché non venite con noi?", ripete, e stavolta non traduco al dialetto: "Verrò senz'altro, duce". Scambiamo ancora qualche frase, torno ad esprimere la mia preoccupazione per un colpo di testa tedesco che si risolverebbe ai nostri danni, il colloquio finisce: mi presenterò al duce a Como, fra qualche giorno» (Vedi Garobbio, "A colloquio con il Duce").
Fernando Feliciani, già vice comandante della GIL, ora alla Divisione Italia, come capitano dei bersaglieri, amicissimo del ministro Mezzasoma, racconterà:
«Mi incontrai con Mezzasoma alle 12 circa, dopo che alla sede del partito (in via Mozart) avevo riscontrato confusione e disorientamento... Mezzasoma (che era sereno, pur non nascondendo la drammaticità del momento) mi comunicò che nel pomeriggio tutti i membri del governo si sarebbero ritrovati in Prefettura per poi trasferirsi a Como».
Mussolini che come si vede dalla testimonianza di Feliciani aveva deciso di lasciare Milano prima ancora di recarsi da Schuster, tornato in Prefettura a Corso Monforte, dopo l'incontro all'Arcivescovado, decide quindi di lasciare Milano a sera intorno alle 20, in coerenza con la sua intenzione di decruentizzare la fase finale della guerra e per avere ancora mano libera nel da farsi visto che ora, i tedeschi con la loro intenzione di firmare una resa, trattata unilateralmente e di nascosto, lo dovranno giocoforza liberare moralmente.
Giustamente osserva il Viganò, nel suo saggio "Mussolini, i gerarchi e la fuga in Svizzera":
«Chi scrive ha maturato, dopo anni di indagini, una convinzione induttiva: se Mussolini si trasferisce da Gargnano a Milano per seguire in modo diretto le varie trattative in corso per una resa a condizioni, che salvaguardi le vite dei suoi subordinati; se si rende conto che tali trattative sono state piegate da questo o quel collaboratore a fini assai più personali di autoconservazione; se realizza il 25 aprile nel colloquio in arcivescovado di esser stato attratto in una "trappola", un "nuovo 25 luglio"; se dopo avere assistito al fallimento di tale trattativa, spacciatagli per seria, viene bersagliato di minacce di morte da esponenti del "Comitato insurrezionale" -leggasi Pertini-; se è al corrente che ormai le forze tedesche in Italia sono in stato prearmistiziale e non è più caso di collegare la difesa fascista -la Valtellina- a quella nazista -la Baviera-; se conosce l'ordine d'insurrezione nazionale diffuso dal CLNAI; ebbene non gli resta che un atto politico: "neutralizzare" l'insurrezione togliendogli un obiettivo primario, cioè il "nemico"».
E più oltre il Viganò, nel suo stesso saggio, afferma anche:
«La sera del 25 aprile 1945 Mussolini lascia Milano, dove si era trasferito il 18 convinto con tutta probabilità di poter trattare con la controparte un accordo di resa a condizione. Fallite tutte le mediazioni -peraltro confuse, e spesso interessate- a causa del crollo del fronte italiano e germanico in Italia, come pure nel Reich, abbandona il capoluogo ambrosiano e raggiunge Como dove da mesi ha stabilito di ripiegare quale località più favorevole per difendersi, trattare con emissari inglesi o raggiungere il debole ridotto della Valtellina, in attesa degli Alleati cui consegnarsi. "Depotenziata" in una certa misura l'insurrezione nazionale con la mancata difesa di Milano, sfuggito infine al soffocante controllo nazista sulla sua persona e sui suoi atti poiché i tedeschi stessi stanno firmando la resa delle forze in Italia, il duce non sembra avere altro scopo che attendere gli sviluppi della situazione per arrendersi: subito dopo, però, la cessazione delle ostilità da parte germanica non tollerando un secondo "Badoglio-Waffenstillstand"».

In ogni caso Mussolini, che tra l'altro lo aveva già previsto, ora ancor più vuole uscire da Milano ed in questa ottica diventa applicabile il piano di ritirata che ruota nel triangolo Milano-Como-Lecco.
Ancora Viganò ricorderà nel suo saggio "Mussolini i gerarchi e la "fuga in Svizzera":
«Lo stesso Mussolini, secondo una memoria di Mario Bassi, capo della provincia di Milano, avrebbe subito chiarito la destinazione di Como prima della riunione con i gerarchi al sottocapo di stato maggiore della Guardia nazionale repubblicana, Asvero Gravelli; e l'avrebbe ribadita a ogni interlocutore nell'ora seguente».
E tutto questo in contrasto con coloro, Graziani e Borghese in testa, che preferirebbero arroccarsi, magari nel Castello Sforzesco che considerano difendibile fino all'arrivo degli Alleati.
È una soluzione che probabilmente consentirebbe di salvare la pelle e qualcuno forse spera anche, almeno in parte, le proprie posizioni personali in base alle condizioni di resa.
Mussolini, conformemente alle sue ultime decisioni si indirizza comunque verso il ripiegamento su Como, pre tappa verso la Valtellina, a prescindere da quello che poi, sul posto, si potrà militarmente mettere in atto ed in questo senso da a tutti appuntamento a Como.
L'uscita di Mussolini da Milano, quindi, con i rischi e le incertezze che comporta, contro il parere di molti seguaci e personalità ivi presenti, smonta totalmente qualsiasi ipotesi che egli in quel momento già voleva arrendersi agli Alleati, come invece era nei desiderata di molti.
Per Mussolini, se resa ci dovrà essere, essa dovrà avvenire a certe condizioni, a tempo debito e facendo anche pesare le importanti documentazioni in suo possesso.
Al rientro in Prefettura, reduci dall'incontro in Arcivescovado, l'industriale Cella gli domanda se devono rientrare da via Mozart, e il Duce quasi gli urla: «Si entri dalla porta grande!».
Poco dopo, racconterà Graziani, che intanto aveva persuaso Mussolini a non parlare alla radio, come questi aveva minacciato in Arcivescovado, per denunciare il comportamento dei tedeschi, il Duce ebbe un altro scatto d'ira con il comandante tedesco di piazza, H. Wening.
Con una ricostruzione frutto del vaglio di decine di testimonianze e pubblicazioni in proposito, scriverà A. Zanella ("L'ora di Dongo", Rusconi 1993):

 


«Mussolini scende, pallido come la morte, il viso contratto, le labbra affilate, stringe in una mano la busta con il libro di Schuster. Tutti scattano sull'attenti, applaudono, non risponde. Sosta, chiama forte due ufficiali tedeschi della scorta. Parla con loro concitato, scandendo le parole in tedesco. È il momento fissato forse nella foto più famosa di quel giorno, nella quale si vede il tenente Birzer (della sua scorta tedesca, N.d.R.) preoccupato a fianco del Duce che lo sta investendo con una serie di accuse.
Ai piedi della scala incontra Asvero Gravelli (sotto capo di Stato maggiore della Guardia, N.d.R) e gli dice impetuosamente:
"Sapete cosa mi ha detto il Cardinale? Pentitevi dei vostri peccati! E sapete perché? Perché non l'ho aiutato a diventare Papa!" È amaro, Gravelli chiede ordini.
"Voi mi raggiungerete dopodomani a Como. La Guardia deve fare servizio di sicurezza in unione ai reparti del CLN. Mettetevi subito in contatto con l'Arcivescovado" gli dice e ponendo una mano sulla spalla di quel gregario che lo ha seguito per tanti anni: "Dopodomani a Como" aggiunge guardandolo ben fisso e con irruenza rabbiosa si avvia per le scale..."
Gli va incontro il guardasigilli: "Pisenti, siamo stati traditi dai tedeschi e dagli italiani", lo apostrofa. È eccitatissimo, il disgusto gli si legge in viso. "Era fuori di sè" dirà il figlio Vittorio.
Renzo Montagna (generale, capo della Polizia, N.d.R.) lo vede arrivare come un turbine...
"Gli andai incontro e mi accorsi che era incredibilmente eccitato, addirittura sconvolto, Più che parlare gridava: "Sono dei criminali, degli assassini! Non è possibile trattare con loro"...
Mussolini grida anche: "Siamo stati traditi da tutti. Non c'è da fidarsi di quella gente. Sospendete anche le vostre trattative". Tutti i ministri e i gerarchi gli si fanno incontro. Tutti vogliono dire qualcosa. Ci sono Pisenti, Montagna, Tarchi, Mezzasoma, Liverani, Zerbino, Barracu, Bassi e Cella. Chiamati espressamente arrivano anche Graziani e Pavolini. La porta viene chiusa.
"Intanto" scrive Secondo Larice (questore, tenente colonnello della Forestale, N.d.R.) "si diramano ordini urgentissimi tra cui quello di far venire subito un reparto della " Muti" con carri armati al comando del tenente Rovetta e lo stesso comandante Colombo, per scortare la colonna.
Si telefona a Como al prefetto Celio, al federale Porta, al questore. Tutti i ministri, il seguito e molti altri si preparano a partire. L'unica persona tranquilla che avevo notato in anticamera era stato Nicola Bombacci ...".
Nel grande studio di Mussolini si è sui carboni ardenti. La frase di Mussolini rompe il silenzio: "Bisogna agire, qui vogliono fare un altro 25 luglio. Mi vogliono arrestare. Siamo caduti in un tranello. Ma questa volta non mi avranno"...
Quando si accorge che Cella lo ha seguito fin nel suo studio diviene furioso e lo aggredisce:
"Mi avete ingannato, mi avete condotto dove mi è stata richiesta la resa senza condizioni. Ora Cella me ne risponderete con la vostra vita"».
Interrompiamo un momento la ricostruzione degli avvenimenti di quelle ore fatta da A. Zanella per riportare un passo di un rapporto americano, che si rifà anche ad un articolo (probabilmente scritto dall'industriale Cella) su "Il Popolo" del 2 Maggio 1945, vi si leggono queste frasi di Mussolini che più o meno trovano riscontri in altri testi:
«Se io fossi stato armato io avrei colpito molti di loro. Noi non possiamo subire un altro 25 Luglio. Siamo caduti in una trappola". Poi seguì, stando al resoconto di Cella, una scena di grande confusione, con Mussolini che urlava ordini da un balcone a quelli che erano sotto in cortile per tenersi pronti a partire, e (con Mussolini, N.d.R.) che sbraitava contro gli Ebrei, la Massoneria e la Chiesa; Graziani che appare con la notizia che gli Alleati (anglo-americani, N.d.R.) avevano attraversato l'Adige e che i Tedeschi erano irrimediabilmente sconfitti e Pavolini che annuncia "Duce attendo i vostri ordini. La Guardia Repubblicana è pronta così come la Decima Mas e le SS"».

Riprendiamo dal libro di A. Zanella:
«La confusione, riferisce Montagna, si fa "indescrivibile, tutti gridano hanno progetti da proporre e suggerimenti da dare. E quando Mussolini all'improvviso annuncia che vuole partire, ricorrono ad ogni possibile argomento per convincerlo a restare a Milano".
Graziani è contrario allo spostamento del governo. Sono d'accordo con lui i generali che non intendono muoversi da Milano. Buffarini e Tarchi sono decisi a passare in Svizzera.
Pavolini propone di finirla con una bella morte in Valtellina e con quest'ultimo altri.
La discussione dura parecchio con un Graziani sempre più inferocito. Ma il Duce non cambia minimamente parere. Mussolini a Milano non vuole restare. Prevede delle stragi e dice: "Non voglio che per causa mia sia sparso del sangue".
Dopo qualche minuto ricompare Graziani che dice:
"Gli americani hanno passato l'Adige. I tedeschi sono irrimediabilmente sconfitti e le avanguardie nemiche possono arrivare a Milano da un ora all'altra".
"Bisogna andare, bisogna andare a Como. La notte la passo a Como" dice il Duce a Mario Bassi (capo della Provincia di Milano, N.d.R.)...».

Abbastanza simile la ricostruzione di quelle ore fatta dal ricercatore storico Marino Viganò:
«Nel suo studio, Mussolini prendeva le ultime decisioni. C'erano Graziani, Pavolini, Romano, Liverani, Mezzasoma, Barracu, Pisenti, Bassi, Silvestri e qualche altro.
Cella era scomparso, vista la pessima luce che i suoi uffici avevan gettato nello spirito del duce. A un certo momento, ascoltati i più vari pareri, disse: "È necessario partire per la Valtellina. Comunque, cerchiamo di andare a Como". Graziani ribatté: "Duce, non vi garantisco la libertà delle strade, di notte". Mussolini, determinatissimo, insisté: "Bisogna andare a Como". Anche Borghese fu tra coloro che lo sconsigliarono.
Narrò d'aver proposto, non si sa se a questo punto, che si restasse in città e che ci si consegnasse da militari a militari. Poiché il maresciallo Graziani insisteva, il duce si ritirò con lui e col prefetto di Milano nel vano di una finestra. Il maresciallo ribadì che, a suo avviso, era un errore lasciare in quel momento la città;
Bassi assicurò che non erano ancora svanite le speranze di trattative onorevoli e che, in ogni modo, il tempo non stringeva. Stanco di quell'inutile schermaglia il duce aprì senz'altro la finestra e, rivolto agli uomini della sua scorta che sostavano nel cortile lì sotto, con voce sonora gridò di prepararsi alla partenza. Fra questi c'erano i soldati del battaglione contraereo tedesco che l'avevano seguito da Gargnano e che attendevano in un loro autocarro. Fu questione di una mezz'ora: il tempo di raccogliere i bagagli di Mussolini. Tra le 18 e le 18 e 30 al massimo, scese nel cortile. Aveva una borsa e la portava personalmente. Indossava il cappotto... Una volta di più il "colloquio in arcivescovado" si rivelerebbe per ciò che è stato nella realtà: intermezzo del tutto casuale -significativo se si fossero in effetti raggiunti accordi; ininfluente se non avesse prodotto nulla, come non fosse avvenuto- entro una strategia già delineata da mesi e resa esecutiva in pochi minuti, constatato che, nelle trattative con la controparte ciellenistica, possibilità di conseguire l'approvazione unanime del CLNAI non esistono. "Mussolini aveva deciso di raggiungere Como in serata", annoterà l'allora vicesegretario del PFR, Pino Romualdi: "Tutti -disse-, tutti dovete venire a Como". E credeva che a Como potesse essere rimesso in piedi, anche per un giorno soltanto, ciò che stava in quel momento crollando a Milano (...) Mi guardò con un affettuoso sorriso: "Romualdi, a domattina a Como"».
E ancora Viganò riporterà una testimonianza del giornalista Pino Rolandino:
«Borghese gli si avvicinò (al maresciallo Graziani, N.d.R.) domandandogli: "Maresciallo, quali sono gli ordini?". "Raggiungi Como in serata con tutte le tue forze". Pochi istanti dopo Mussolini appariva nel cortile della Prefettura. Il progetto Pavolini aveva prevalso. Il Governo abbandonava Milano. "Tutti a Como", disse il Duce, con un'aria sconvolta e con un fare duro e nervoso». Ma come sappiamo Valerio Borghese restò a Milano al comando della sua X Mas e venne poi prelevato dagli americani che lo misero in salvo.

L'attendente del Duce Carradori, racconterà questo significativo aneddoto:
«Rientrai in Prefettura, ci fu la nota sfuriata di Mussolini al tenente Birzer, che gli scodinzolava attorno. Quindi si chiusero tutti nel suo ufficio. Graziani non voleva saperne di lasciare Milano e insisteva sulla necessità di trincerarsi tutti all'interno del Castello Sforzesco, che egli riteneva facilmente difendibile, e qui attendere gli anglo americani. Ma Mussolini al solo nominare gli inglesi, andò su tutte le furie, facendo capire che mai e poi mai si sarebbe consegnato nelle loro mani. Ben presto la decisione di lasciare Milano alle ore 20 fu ufficializzata e comunicata a tutti gli uffici competenti».

Il federale di Milano Vincenzo Costa racconterà che Mussolini prima di partire disse chiaramente che scioglieva i fascisti dal giuramento, e la notizia creò un grosso disorientamento.
Questa informazione però, così come riferita dal Costa, lascia alquanto interdetti perché è in contrasto con gli ordini che poi ebbe Pavolini per radunare tutti i fascisti e portarli l'indomani mattina a Como e nasce forse, come vedremo, da analoga informazione, in tutt'altra situazione, pervenuta il pomeriggio del giorno dopo al ritorno di Pavolini da Menaggio, non la sera del 25 aprile come dice Costa.
Probabilmente tutta la faccenda si gioca sull'equivoco di uno "scioglimento dal giuramento" non inteso come un separarsi delle posizioni tra i fascisti, Mussolini e la RSI, ma come un invito di Mussolini a contare solo sui fascisti fedeli, disposti a seguirlo, senza alcuna imposizione a ottemperare ad un giuramento.

Ancora Feliciani ricorderà:
«Mezzasoma alla fine mi raggiunse dicendo: "Partiamo, il Duce si è deciso, cercavano di farlo restare, ma si è convinto che trasferirsi a Como è la cosa migliore, del resto rimaniamo in territorio italiano».
Anche Larice ricorda:
«Bombacci con una valigetta di levatrice, mi saluta: "Dove va lui, vado io". Approfitto di un attimo che ha meno gente attorno e prendendo il coraggio a due mani, gli dico: "Duce, partite?! Non lasciate Milano ...". Si volta di scatto, mi risponde: "Anche tu raggiungerai Como, pre campo".

Mentre nel cortile della Prefettura sono già pronte le autovetture per la partenza, si moltiplicano le invocazioni di restare in città, alcuni piangono, altri come Carlo Borsani, l'eroico cieco di guerra, lo implorano, qualcuno vorrebbe trattenerlo con la forza.
Il Duce è però irremovibile, si congeda ripetendo a Bassi:
«Dovete tutti venire a Como, resta solo Pisenti (ministro di Grazia e Giustizia, N.d.R), ci potrebbe essere qualcosa da fare». E l'altro:
"per il generale della Polizia, per il generale Montagna quali ordini?" "Ditegli che lo aspetto domani mattina a Como".
Sale in macchina con Nicola Bombacci e parte, davanti l'autista Salvati e dietro Carradori di scorta.
Intorno alle 20,30 in Curia, don Bicchierai (non si sa se ci fa, o c'è...), deluso dal precedente incontro in Arcivescovado, telefona in Prefettura per avere una risposta alle intenzioni di Mussolini. È il prefetto Mario Bassi che risponde e comunica che Mussolini è partito.
Sarà solo verso le 6 del mattino, mentre i fascisti stanno lasciando Milano, che la Guardia di Finanza, finalmente passata armi e bagagli al CLNAI, dopo aver passato mesi con i piedi in due staffe, penetrerà nei cortili della Prefettura e ne prenderà possesso.
La ricostruzione delle giornate di Milano attesta chiaramente che Mussolini ha da tempo previsto il progressivo ripiegamento del governo verso le zone della guerra che solo più tardi saranno raggiunte dalle forze Alleate. Una meta finale dovrebbe essere la Valtellina in cui da tempo si cercava di predisporre misure ed accorgimenti militari per farne un ridotto ad estrema difesa, ma che invece, come detto, in pratica ben poco si era fatto in questo senso. Ed anche di questo ci si rese conto solo all'ultimo momento.
Il precipitare della situazione, con gli americani arrivati a Bologna, i sensibili sintomi di sfaldamento e l'inizio del defilarsi degli uomini delle Istituzioni in Milano, il fallimento di una trattativa con la Resistenza per realizzare un trapasso indolore dei poteri e quindi un ripiegamento ordinato ed incruento, a cui si aggiunge la notizia ricevuta di una imminente resa tedesca trattata di nascosto, inducono Mussolini a predisporre decisioni, anche se da tempo previste, in modo affrettato, sul momento e sotto l'agitazione per le vicende dell'incontro in Arcivescovado.
È evidente che il ripiegamento di Mussolini, oltre a voler evitare fatti di sangue in Milano, è finalizzato soprattutto a gestire le possibilità di una futura ed imminente resa con gli Alleati solo a tempo debito e a certe condizioni: l'arma che il Duce ha nelle borse è il compromettente Carteggio con Churchill ed altri delicati incartamenti. Il governo al seguito e i fascisti ancora in armi dietro a lui gli sono necessari per l'attuazione della sua strategia minimale che non deve comunque contemplare, per una questione d'onore, una eventuale sua fuga all'estero.
Quel che si potrà fare, evidentemente, pensa di risolverlo sul momento, di ora in ora.

È in questo senso indicativa un lettera che era stata indirizzata dal Duce al maresciallo Rodolfo Graziani il 9 gennaio 1945, diceva in essa Mussolini:
«Le vicende della guerra non mi illudono più. Io non faccio questione della mia persona, ma quello che mi preoccupa è il pensiero di vedere in un prossimo futuro l'Italia interamente occupata dagli anglo-americani.
Al momento ritengo di grande importanza portare in salvo questi incartamenti, in primo luogo lo scambio delle lettere e gli accordi con Churchill. Questi saranno i testimoni della malafede inglese. Questi documenti valgono più di una guerra vinta, perché spiegheranno al mondo le vere, le sole ragioni del nostro intervento a fianco della Germania. Ho bisogno di vedervi. Vi attendo per stasera"».

Questa linea di condotta di Mussolini, che può far capire le sue decisioni in quelle ultime ore della repubblica, è altresì confermata da una registrazione telefonica, fatta dai tedeschi, di una conversazione tra Mussolini e Pavolini avvenuta il 25 marzo 1945:
«Mussolini: "Ho parlato appena adesso con Zerbino. Viene subito qui con tutti gli atti (le fotocopie del Carteggio che Zerbino aveva provveduto a far eseguire, N.d.R.).
Aspetto anche voi".
Pavolini: "Arrivo subito Duce. Duce, ma non avete proprio nessuna buona notizia?"
Mussolini: "No, proprio nessuna. Il modo di comportarsi dei tedeschi mi piace sempre meno. Ne sono seriamente preoccupato..L'esito della guerra non mi illude più. Non faccio questione della mia persona, ma ciò che mi preoccupa è il destino dell'intera Italia...
Al momento ritengo che il più importante e il più utile sia mettere al sicuro le nostre carte, soprattutto lo scambio di lettere e gli accordi con Churchill.
Questi documenti saranno l'esempio ineluttabile della malafede degli inglesi. Questi documenti valgono per l'Italia più di una guerra vinta, perché essi spiegheranno al mondo le vere, ripeto, le vere ragioni del nostro intervento al fianco della Germania. Dunque vi aspetto subito"».
 

Maurizio Barozzi


Note:


[1] Vedi: "L'incontro in Arcivescovado" (reperibile anche telematicamente in:
http://www.effedieffe.com/content/view/6804/182/ )

[2] Per i testi di queste intercettazioni vedere: Ricciotti Lazzero "Il sacco d'Italia", Mondatori 1994.

[3] Sembra che, già dal 1944, ci furono alcuni segreti incontri di Mussolini, ora dicesi accompagnato da Bombacci, ora da Barracu, ecc., (altre volte dicesi anche con delegati tedeschi) con misteriosi emissari Alleati, probabilmente inglesi, in alcune ville ubicate verso i confini del Nord Italia. Nella ricerca di una via di uscita alla disastrosa situazione bellica è molto probabile che ci siano stati incontri del genere di cui i tedeschi erano informati entro certi limiti. Comunque, da come sappiamo da alcune intercettazioni epistolari e telefoniche tra Mussolini e Hitler, quest'ultimo gli impedì sempre di portare a conclusione simili approcci. Quello che però lascia dubbiosi è il fatto inspiegabile di come poteva fidarsi il Duce ad andare a questi incontri in ville isolate, con la sua sola guardia del corpo (Carradori) e l'autista, senza temere di essere proditoriamente ucciso, quando poi, come sappiamo, ben temeva tentativi inglesi in questo senso. Sembra che fosse il questore del bresciano Manlio Candrilli a predisporre le misure di sicurezza del Duce ed infatti, si afferma anche, che proprio a causa della sua conoscenza di questi segreti, gli inglesi vollero caparbiamente la fucilazione del Candrilli nel 1945. Ma nulla è accertato in proposito.

[4] Lo storico si riferisce all'incredibile e misterioso viaggio solitario di Rudolf Hess in Inghilterra il 10 maggio 1941. Quell'avvenimento sollevò in tutto il mondo vari interrogativi rispetto alle strategie politico militari dei belligeranti. È ovvio che anche Mussolini si chiese con apprensione cosa si poteva nascondere dietro quel viaggio e la risposta più immediata che poteva darsi era quella che i tedeschi intendevano forzare una pace ed un accordo globale con gli inglesi. In questo caso è evidente che l'Italia avrebbe corso seri rischi facendo le spese di un tal genere di accordo segreto, visti i suoi interessi geopolitici in collisione con quelli britannici. Erano gli stessi motivi che lo inducevano, prima della sua entrata in guerra, a sperare che nè gli inglesi, nè i tedeschi prevalessero militarmente e nettamente sul continente e che, all'apposto, non si mettessero d'accordo tra loro.

[5] Vedere: Marino Viganò: <<Mussolini, i gerarchi e la "fuga" in Svizzera (1944-'45)>>, Nuova Storia Contemporanea" N. 3 -2001.

[6] Carlo Silvestri era un vecchio socialista, già importante giornalista del Corriere della Sera, che al tempo del delitto Matteotti era stato tra i più accesi oppositori del Duce. Durante la RSI era entrato in contatto con Mussolini ed aveva ripreso una certa amicizia, collaborando e organizzando opere di pacificazione e salvataggio per esponenti antifascisti. Mussolini gli fece anche prendere visione di un dossier che mostrava chiaramente la sua estraneità al delitto del deputato socialista. Dossier ovviamente fatto sparire dalle nuove autorità cielleniste che ne erano venute in possesso la notte del 25 aprile 1945 in zona Garbagnate.

[7] Documenti estratti dall'autore, da: Carlo Silvestri a Mussolini, 26 gennaio 1945, in ACS, RSI, Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 7, cit. da Gloria Gabrielli, Carlo Silvestri socialista, antifascista, mussoliniano.

[8] M. Mollier, «Pensieri e previsioni di Mussolini al tramonto», Tipografia Colombi, 1948; O. Dinale, «Quarant'anni di colloqui con lui»,

[9] Questa uscita del Cardinale, potrebbe sembrare un passaggio dialettico del discorso, ma è invece altamente indicativa di tutti i tradimenti e le defezioni di cui Schuster, per l'autorità e il ruolo giocato fino ad allora, era perfettamente a conoscenza e che infatti, già da quella sera in Milano, si cominciarono a manifestare nella fila della Repubblica e sia pure in modo più contenuto in quelle del fascismo.

[10] Vedere: Alberto Maria Fortuna "Incontro all'Arcivescovado" Ed. Sansoni 1971.

[11] Sono decisamente da relegarsi nel campo delle barzellette gli aneddoti che vogliono il Pertini sopraggiunto in Curia mentre Mussolini sta uscendo, che sale le scale con la pistola in pugno e poi dichiarerà che se lo avesse riconosciuto gli avrebbe sparato. Storielle queste, facenti parte dell'agiografia resistenziale, ma del resto, ridimensionate in seguito dalla stesso Pertini. In ogni caso bisogna rimarcare che Pertini non aveva fatto "saltare" alcuna trattativa, per il semplice fatto che i rappresentanti del CLNAI avevano comunque impostato il confronto su la richiesta di una resa incondizionata e quindi Mussolini non aveva potuto proseguire su quella strada e la trattativa era già fallita prima ancora di cominciare.
Gli strali di Pertini potevano tutto al più essere rivolti al fatto che si era comunque andati ad una trattativa e che Mussolini lo si era lasciato andar via, ma del resto non si vede come lo si sarebbe potuto fermare. In definitiva si millanta un potenziale bellico che in quel momento la Resistenza in Milano assolutamente non aveva.
La data del 25 aprile quale giorno dell'insurrezione è un falso storico, perchè non ci fu nessuna insurrezione e solo il giorno dopo verso le 6 del mattino, quando i fascisti, inquadrati da Pavolini, presero a lasciare Milano per andare a Como, la Guardia di Finanza, passata dalla parte della resistenza, prese possesso della Prefettura. I primi, timidi, gruppetti e auto di partigiani si cominciarono a vedere alcune ore dopo, senza bisogno che ci fosse alcuna insurrezione perchè Mussolini e i fascisti se ne erano andati via.
Non è neppure ipotizzabile per scherzo, che quel pomeriggio, in una città presidiata da fascisti e dai tedeschi, senza alcuna presenza militare partigiana, Pertini e gli altri membri del Comitato Insurrezionale, arrivati in Curia, potessero armi in pugno tentare qualcosa contro Mussolini. Solo degli storici faziosi e superficiali, possono continuare a diffondere queste barzellette.

[12] Aurelio Garobbio, era un irredentista ticinese nativo di Mendrisio (Canton Ticino), durante la RSI venne spesso incaricato del Duce per le questioni elvetiche.