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Ultimo aggiornamento:
26 luglio 2008 |
Le
ultime ore di Mussolini e della RSI
Maurizio Barozzi
Luglio 2008
Le ultime vicende
umane, militari e politiche che travolsero Mussolini, la RSI ed il
Fascismo, dal 25 al 27 aprile 1945, rappresentano uno spartiacque
storico tra quella che era stata la storia, la funzione e l'essenza
di questo movimento e quello che poi sarà il neofascismo del
dopoguerra.
Capire quel che
accadde in quel fazzoletto di ore, perché accadde e cosa esattamente
è successo è importante e decisivo non solo per la verità storica,
ma anche per avere un riferimento preciso nell'attualità.
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Milano 23 aprile
1945, Cortile della Prefettura
si notano, a sinistra
del Duce, Elena Curti ed a destra Alessandro Pavolini |
Introduzione
Le ultime vicende di Mussolini e della Repubblica Sociale Italiana, come ebbe
già a rilevare Bruno Spampanato nei primi anni '50, sono in buona parte
governate da una certa irrazionalità che derivava dall'impatto psicologico,
conseguente al disimpegno bellico dell'alleato germanico (già evidente dalla
presa di Bologna del 20 aprile '45, ma palesatosi nelle intenzioni di una resa
contrattata di nascosto, solo il 25 aprile), sugli uomini di una repubblica
immersa dentro una guerra che tutti avevano sempre intuito dovesse chiudersi con
una sconfitta, ma il cui epilogo veniva sempre rimosso e rimandato e nessuno
aveva mai progettato seriamente un preciso piano per far fronte all'apocalisse
che si sperava mai imminente.
Può sembrare incredibile, ma come vedremo l'unico che fino all'ultimo mantenne
un atteggiamento coerente e fermo, fu Mussolini, anche se dovette improvvisare
alcune iniziative a seconda delle situazioni che mutavano in continuazione e
mano a mano che passavano le ore, doveva spostarsi di località in località
perdendo molti dei suoi seguaci.
Non c'è dubbio che il fascismo cadde a Como il 26 aprile 1945, mentre Mussolini
rimasto pressoché solo non ebbe scampo, pochi chilometri più avanti, sulla
strada della Valtellina.
Quello che accadde quel giorno a Como è di una semplicità evidente e
sconcertante e ancora Bruno Spampanato, con il suo "Contromemoriale" pubblicato
sull'"Illustrato" negli anni '50, lo aveva percepito con perfetta lucidità
quando aveva contestato, una ad una, tutte le scusanti addotte da alcuni
comandanti superstiti della colonna fascista giunta in città, i quali cercavano
di spiegare, con giustificazioni inconsistenti, i motivi e le contingenze per
cui si era arrivati a sottoscrivere una resa con il CLN dalle nefaste
conseguenze.
L'unica cosa, infatti, che quella mattina, da parte dei dirigenti e comandanti
fascisti, era logico e doveroso attendersi, non appena la colonna dei fascisti
partita da Milano tra le 5 e le 6 del mattino arrivò dalle 8 in avanti a
scaglioni in Como e non trovò Mussolini all'appuntamento prefissato, era quello
di far superare l'inevitabile disorientamento che poteva diffondersi nelle fila
dei seguaci e proseguire immediatamente per Menaggio, dietro al Duce, forse
senza neppure spegnere i motori.
L'ordine preciso, categorico e immediato da dare ai fascisti doveva essere uno
solo: «dobbiamo proseguire perchè il Duce si è dovuto spostare a Menaggio dove
ci attende!», nient'altro che questo.
Come fino a quel momento si era fatta la strada Milano-Como, ora non restava
altro da fare che proseguire per quella verso Menaggio, al massimo attendendo
che, con gli arrivi a scaglioni dei fascisti, si formassero delle colonne
sufficientemente numerose ed armate da avviare mano a mano sulla strada del
Duce.
Fermarsi a riflettere, consultarsi, attendere tutti gli altri, discutere fu la
fine di tutto, perchè quello che era difficile fare a botta calda sarebbe
divenuto impossibile con il trascorrere delle ore.
Si finì quindi per disgregarsi, per impantanarsi in discussioni che portarono ad
una resa tanto incredibile quanto ingiusta e assurda perchè, non solo conseguita
all'insaputa e senza il consenso di Mussolini, ma addirittura trattata con un
avversario che in quel momento in Como e dintorni e per tutta la strada fino a
Dongo non aveva alcuna consistenza militare.
I delegati del CLN, apparsi come ectoplasmi in città, dietro le spalle dei
funzionari della RSI che da tempo cercavano il modo indolore per defilarsi da
quelle poltrone, ed altri che mano a mano con il passare delle ore spuntavano
con il loro bravo bracciale tricolore e transitavano negli uffici istituzionali,
rappresentavano in quel momento solo se stessi, non avevano divisioni
garibaldine e neppure grossi contingenti armati con i quali imporre le loro
condizioni.
Avevano soltanto la forza del tempo che inesorabilmente li avvicinava alla
vittoria finale, all'arrivo degli Alleati, al travolgente spuntare dei soliti
"partigiani dell'ultima ora". Tutto al più potevano contare sulla presenza di
vari e sparuti nuclei di partigiani che lungo la strada che partiva da Milano e
arrivava fin su alla Valtellina minacciavano seriamente le strade o potevano
occupare e isolare alcune località evacuate dai presidi fascisti.
Anche nelle zone dove il giorno dopo venne fermata la colonna, militarmente
inerme, di Mussolini, affiancata dai camion della colonna dei tedeschi che non
avevano alcuna intenzione di battersi, le forze partigiane rappresentate
soprattutto dal distaccamento della 52ª Brigata Garibaldi "Luigi Clerici",
assommavano in tutto a poche decine di elementi, per giunta male armati.
Sarebbe bastato, quel giorno in Como, agguantare un paio di questi melliflui neo
dirigenti partigiani, con o senza bracciale, e minacciare di passarli
immediatamente per le armi, perchè a tutti gli altri passasse la voglia di
trattare, proporre condizioni, consigliare una "resa onorevole" dietro il solito
pretesto di «risparmiare lutti alla cittadinanza». I lutti invece li causeranno
ai fascisti quando, arresisi, risulteranno oramai inermi!
Certo, per i fascisti, uscir fuori da quella situazione non era uno scherzo, non
bastava il solo coraggio che pur sicuramente avevano, ci voleva anche decisione,
polso fermo, audacia, visione militare del problema, tutte doti che in quel
momento vennero a mancare, ma soprattutto perchè, come vedremo, nei più mancava
la convinzione fanatica e rivoluzionaria, l'unanimità degli intenti politici ed
ideologici, che dovevano indicare, a istinto, la condotta da seguire per
chiudere la guerra e la pagina del fascismo repubblicano.
E si finì così per consegnare le armi di quei pochi che, in quel clima di
indecisione ed incertezza, ancora non le avevano gettate per conto loro.
Furono quindi i fattori emotivi, irrazionali e la mancanza di polso, che
impedirono ai comandanti fascisti di reagire e superare il momento di
sbandamento, i pericoli e le difficoltà incontrate.
Ma come accennato questa "emotività" che determinò l'inspiegabile sosta in
città, non fu solo frutto delle contingenze e del caos disorganizzativo di
quelle ore, essa ha anche una sua ragione, ha delle premesse di ordine
psicologico, ha dei contenuti latenti persino di carattere ideologico.
In quelle ore, infatti e sia pure anche come conseguenza di uno scollamento
logistico nei collegamenti, si era venuta a creare una latente diversificazione
tra le scelte e gli intendimenti di Mussolini che, seppur non chiari, avrebbero
dovuto essere compressi "ad intuito", se ci fosse stata una forte comunanza
ideologica e politica e quindi assecondati se non preceduti nelle intenzioni, e
quelli di alcuni capi del fascismo arrivati a Como.
Diamo quindi uno sguardo proprio alla componente fascista e repubblicana.
Le varie anime della RSI
Noi non dobbiamo immaginarci i fascisti ed i tanti partecipanti alla RSI come un
blocco unico e compatto animato da una ideologia ed una volontà sola. Certamente
una fede affettiva in Mussolini era presente tra tutti i suoi seguaci, ma la
composizione ideologica ed il patrimonio personale, storico, dei fascisti in
genere, era e lo sarà anche nel dopoguerra, alquanto difforme.
A parte, infatti, quelli che avevano aderito alla Repubblica essenzialmente
sulla base di un genuino impulso a voler riscattare l'onore della bandiera
macchiato dal tradimento badogliano, o per il forte richiamo emotivo che il nome
del Duce esercitava negli animi, ed a parte coloro che erano stati chiamati da
Mussolini per esigenze pratiche e tecniche ovvero per rimettere in piedi uno
straccio di Stato e di Esercito, dissolti dall'8 settembre, senza i quali ogni
sforzo e sacrificio ulteriore sarebbe stato vano, ai quali ultimi poi bisogna
anche aggiungere coloro che, "semplicemente", proseguirono le loro attività di
ufficio, burocratiche e di polizia solo perché si erano trovati dalla parte
centro nord delle penisola e quindi sotto la giurisdizione della neonata RSI, a
parte tutti costoro, bisogna anche considerare molte particolarità e ambiguità
soprattutto tra chi deteneva importanti cariche nella repubblica.
Non a caso ebbe a scrivere (generalizzando l'uso, in questo caso improprio, del
termine "fascisti") Franco Bandini nel 1985, che tra i membri della RSI c'erano
anche:
«... una quindicina di fascisti di alto ed altissimo rango (...) che erano stati
messi a quei posti da potenti forze che "non" erano fasciste. Uomini che
superarono indenni la tormenta e che nella nuova Italia post Liberazione,
ricoprirono gli stessi incarichi e gli stessi posti di comando che avevano avuto
prima. Questo ristretto gruppo di persone condusse un gioco che non è affatto
chiaro neppure a 40 anni di distanza e che potrebbe aver avuto, come elemento
centrale, proprio la soppressione del dittatore ed il trapasso indolore dei
documenti ...».
Considerando poi la parte più ideologizzata del fascismo repubblicano, ci
accorgiamo che siamo in presenza di difformi specificità politiche e stati
ideali diversi.
Non tutti i fascisti, infatti, ed in particolare stiamo parlando dei capi, dei
comandanti e dei dirigenti del fascismo repubblicano, erano profondamente
compenetrati dalla svolta socializzatrice e rivoluzionaria dell'ultimo fascismo
e neppure erano ideologicamente convinti di una lotta a tutto campo che
assurgeva ad uno scontro di Civiltà tra le tradizioni europee contro
l'Occidente, una lotta che doveva rappresentare il vero contenuto di quella
"guerra contro l'oro" che altrimenti sarebbe rimasta una vuota retorica: più che
altro conducevano una guerra di stampo "nazionalista". Come sempre accade nella
storia quelli che sentivano questi valori, l'elite del fascismo repubblicano e
rivoluzionario, erano certamente una minoranza.
Molti, nella massa dei fascisti, erano soprattutto dei nazionalisti, degli
anticomunisti storici e persino dei conservatori, magari "illuminati" dalle
scelte sociali di Mussolini, ma pur sempre intimamente dei conservatori. Era un
altra anima del fascismo, legittima anch'essa, diffusa in quanto figlia del
"ventennio", ma alquanto diversa dalla sostanza rivoluzionaria del fascismo
repubblicano.
È significativo che al Direttorio del PFR di Maderno del 3 aprile 1945,
presieduto da Pavolini, quando si cercarono di buttare giù le basi operative per
una lotta da proseguire in Italia, una volta finita la guerra e determinatasi la
sconfitta militare, proprio Pino Romualdi, [1] il vice segretario del PFR,
quello che poi sarà tra i responsabili della resa di Como, non si trovò
d'accordo sulle linee programmatiche indicate da Pavolini, Zerbino, Solaro,
Porta ed altri che prospettavano per i fascisti nel dopoguerra, anche in
clandestinità, una lotta contro l'occupante e a difesa delle innovazioni sociali
della RSI contro ogni restaurazione monarchica e liberista.
Il fatto è che Romualdi ed altri come lui incarnavano l'anima e lo spirito di
quel fascismo nazionalista, di "destra" prevalentemente anticomunista e
sostanzialmente filo occidentale.
Non fu quindi un caso che nel dopoguerra uomini come Romualdi e Giorgio
Almirante (quest'ultimo neppure seguì il suo capo di gabinetto, al Ministero
della Cultura Popolare, Ferdinando Mezzasoma, nell'ultimo viaggio) operarono per
trasbordare sulla sponda conservatrice e ultra atlantica i reduci del fascismo
repubblicano.
Magari con la differenza che almeno Romualdi, oltre ad arrivare in armi a Como,
era sempre stato e sempre sarà fino alla fine, un uomo di "destra" e dunque ha
una sua coerenza ideale, mentre Almirante fece le stesse operazioni, ma
mascherandole sempre con una finta appartenenza alla componente "sociale" del
fascismo che poi puntualmente, come fece alla vigilia dei congressi del MSI del
1956 a Milano e del 1965 a Pescara, tradiva per accordarsi con la segreteria di
Michelini che aveva nelle sue mani le leve e la borsa della direzione del
partito.
Ma queste sono altre storie. [2]
Dunque, bisogna tenere conto che tra i fascisti che arrivano la mattina del 26
aprile a Como, ci sono tantissimi di loro che hanno questa impostazione
ideologica alquanto diversa da un fascismo repubblicano sostanzialmente
antioccidentale e dalle ultime scelte socializzanti di Mussolini.
Si potrebbe obiettare che anche Mussolini aveva cercato nel corso delle fasi
finali della guerra di inserirsi in un gioco diplomatico con gli inglesi, nella
illusione che questi potessero essere sensibili a porre un argine a quella che
si palesava sempre più come una estesa penetrazione sovietica in Europa e
magari, sollecitati dal timore delle documentazioni in suo possesso, potessero
accondiscendere ad un ribaltamento del fronte.
Sembra, infatti, a parte alcuni contatti o sondaggi, da diplomazia segreta, di
cui ci sono rimaste solo delle vacue testimonianze, che abbiamo una
registrazione di una telefonata con Hitler del 28 febbraio 1945, a conferenza di
Yalta ancora fresca, in cui Mussolini ed Hitler si interrogano sulla cecità
inglese a non rendersi conto del pericolo sovietico.
Mussolini quindi, illudendosi su presunti screzi tra alleati, che sembravano
emergere da quella conferenza, chiede ad Hitler il consenso ad intraprendere
passi verso gli inglesi per tentare, forte della sua documentazione, quella
strategia che verrà poi definita "tentativo per dividere gli Alleati". Ma
Hitler, sappiamo dal testo registrato, non era ancora d'accordo a giocare questa
carta.
Se tutto questo si era anche potuto cercare di verificare, la precedente
obiezione però non è pertinente, perchè bisogna considerare che un conto
potevano essere le eventuali manovre strategiche che il Duce, da capo dello
Stato e di un governo ancora in vita, poteva intraprendere nel disperato
tentativo di far uscire l'Italia dalle conseguenze di una inesorabile sconfitta
e quindi, tra queste, anche quella di giocare la carta dell'antisovietismo con
gli Alleati, ed un conto erano i desiderata di quanti, mentalmente ed
ideologicamente predisposti, avrebbero voluto trasformare il fascismo in una
forza essenzialmente anticomunista da mettere a disposizione dell'occidente, tra
l'altro a guerra conclusa, sconfitta subita e paese colonizzato.
In Appendice a questa ricostruzione storica, comunque, spenderemo qualche parola
su questo problema e oltretutto mostreremo chiaramente come, manovre e diversivi
per dividere gli anglo americani dai Sovietici erano completamente fuori dalla
realtà, essendo quelli di Yalta accordi di portata strategica.
PARTE PRIMA
La strategia finale del Duce e le riserve mentali di molti fascisti
Il problema delle intenzioni del Duce, il «che fare» e quel che effettivamente
fece o forse meglio quel che fu costretto a subire, in quelle drammatiche
giornate di fine aprile '45 potrebbe sembrare alquanto complesso, ma solo se lo
si cerca di interpretare da un punto di vista storiografico ovvero senza cercare
di capire le profonde motivazioni psicologiche, politiche e ideali che stavano
all'origine di certi atteggiamenti. Questo perchè, solo sulla base di quel poco
che conosciamo e possiamo documentare, è difficile stabilire con certezza
assoluta le intenzioni o il perchè dei suoi movimenti dal 25 al 27 aprile da
Milano a Como, a Menaggio, ecc.
Qualcosa in più l'avremmo potuta sapere dai suoi più stretti collaboratori,
Ferdinando Mezzasoma, Alessandro Pavolini, Francesco M. Barracu, Nicola
Bombacci, ecc., ma sono tutti morti. Gli altri superstiti dell'autoblindo di
Musso, per esempio Vincenzo Benedictis (guardia del corpo di Pavolini), Pietro
Carradori (brigadiere di PS addetto alla persona del Duce) e la Elena Curti
(figlia naturale di Mussolini già impiegata nella direzione del partito), hanno
dato più che altro testimonianze di cronaca, ma non potevano certo essere al
corrente di complesse situazioni politico militari.
In ogni caso, dai movimenti di Mussolini, dagli incontri e dalle iniziative che
si succedono da quando il 18 aprile è arrivato a Milano, lasciando per l'ultima
volta la residenza di Gargnano, appare evidente che egli sta cercando di trovare
una soluzione alla imminente sconfitta, una soluzione che in qualche modo
assolva contemporaneamente (e teniamo a mente questo particolare) a più di un
difficile compito: evitare ulteriori distruzioni, salvaguardare gli interessi
della Nazione, tutelare la vita di quanti avevano partecipato alla RSI, finire
in modo dignitoso e in coerenza con gli ideali e le scelte sociali del fascismo
repubblicano.
Mentre quindi Mussolini si muove istintivamente su questi presupposti e Pavolini
ed altri come lui, nella loro estrema generosità e poetica coerenza, pensano ad
una «bella morte» con la quale debba finire il fascismo, molti altri, quelli che
abbiamo pocanzi indicato come genericamente nazionalisti, tendenzialmente
conservatori ed altro, non sono mentalmente predisposti a seguire Mussolini in
tutte le sue ultime scelte politiche e di vita.
Questi fascisti lo seguono per fede, per amore, ma portandosi dietro la loro
riserva mentale.
Costoro hanno infatti una predisposizione istintiva a volersi arrendere agli
Alleati, ad attenderli e quindi chiudere in tal modo la pagina della storia del
fascismo, magari con la speranza poi (e qualcuno anche qualcosa di più di una
speranza, visti certi approcci, oggi emersi, con l'OSS americano) di potersi
riciclare nel dopoguerra in uno schieramento "anticomunista", sperando in una
rottura tra gli occidentali ed i sovietici. [3]
Altri ancora hanno come soluzione un logico, e umanamente forse anche
comprensibile, scantonamento nella vicina confederazione elvetica.
Anche Mussolini sa benissimo che prima o poi dovrà arrendersi agli Alleati, ma
cerca di prendere tempo, di mantenere in piedi un simulacro di Stato e
soprattutto una simbolica presenza di uomini ancora in armi al fine di giocarsi
qualche ultima carta. Da qui la scelta di spostarsi, man mano, verso la
Valtellina che pur oramai tutti comprendono non è poi quell'ultimo baluardo
militare atto a resistere ad oltranza che si era cercato di allestire.
Mussolini, che oltretutto in una resa agli Alleati vede il crollo definitivo
delle sue conquiste sociali che avrebbe voluto consegnare ai socialisti ed ai
repubblicani, ha bisogno di tempo per giocare le sue ultime carte.
Ermanno Amicucci, già direttore del "Corriere della Sera", ebbe a scrivere nel
suo "I 600 giorni di Mussolini", Ed. Faro Roma 1948:
«Mussolini voleva che gli anglo-americani e i monarchici trovassero il nord
Italia socializzato, avviato a mete sociali molto spinte; voleva che gli operai
decidessero nei confronti dei nuovi occupanti e degli antifascisti, le conquiste
sociali raggiunte con la RSI».
Ed ha bisogno di tempo anche per veder ufficializzata quella resa tedesca che
gli è stata preannunciata il 25 aprile pomeriggio in Arcivescovado. Un pre
annuncio di resa che lo ha spiazzato militarmente rendendogli difficile
l'agibilità militare in quelle ultime ore [4], ma che una volta dichiarata
pubblicamente gli consentirebbe, di colpo, di riscattare tutto il peso dell'8
settembre e riprendersi ogni autonomia decisionale nei confronti dei tedeschi.
Ed invece già a Milano, il 25 aprile in serata, Mussolini si era trovato in
presenza di forti richieste ed insistenze, da parte dei suoi uomini, per restare
in città, magari arroccandosi nel Castello sforzesco e qui attendere gli
Alleati. Una scelta questa finalizzata ad aumentare le possibilità di salvare la
vita, ma che non corrispondeva agli intendimenti di Mussolini.
Corrispondeva però perfettamente ai desiderata di quei fascisti genericamente
anticomunisti e filo occidentali che abbiamo prima descritto (e tra questi, ci
sono anche quelli come Valerio Borghese, uomini di coraggio e di polso, ma che
conducevano una guerra tutta loro, in coerenza con l'onore militare, ma
certamente non come fascisti repubblicani convinti e soprattutto non come
antioccidentali). Questi fascisti, che poi forse erano la maggioranza, non si
rendevano conto che la resa agli Alleati, seppur forse poteva costituire un
presupposto di orgoglio per non arrendersi giustamente ad una Resistenza che non
si riteneva degna di tale qualifica, costituiva però, con l'occupazione del
paese e la sua colonizzazione Occidentale, la fine definitiva di quanto il
fascismo rappresentava e delle strutture e riforme che pur aveva costruito in
Italia.
Sarà questa riserva mentale di molti dei loro capi, unita al crollo del fronte
ed al voltafaccia dei tedeschi, che contribuirà ad inchiodare tutte le
formazioni fasciste in Como non appena vi arrivano e non trovano il Duce. Li
inchioda e trascina tutti, compresi uomini come Franco Colombo che pur non sono
di quella pasta ideologica ed il coraggio certamente non gli manca, in una serie
di inconcludenti trattative, di cause e concause, che costituiranno il principio
della fine.
Di fronte ai pericoli ed alle difficoltà che incontrarono in Como, prevalsero
gli istinti di coloro che vogliono principalmente arrendersi agli Alleati, i
quali però sono ancora lontani, e quindi costoro entrarono subito nell'ordine di
idee di considerare, nell'attesa dell'evento, la possibilità di mediare una
tregua con gli uomini del CLN, che sempre più si manifestano in città alle
spalle delle Istituzioni repubblicane (in particolare nella Prefettura).
E così, mentre gli uomini delle morenti Istituzioni repubblicane sono già da
tempo impegnati a contrattare con la Resistenza un trapasso indolore dei poteri
che gli consenta di defilarsi dai loro ruoli senza drammi e conseguenze
personali, i capi fascisti troveranno più conveniente risolvere la loro
drammatica situazione attraverso un tregua con l'avversario, una tregua dagli
intenti, per così dire, transitori che consenta cioè di portare tutti i fascisti
in una zona neutra, magari sperando di farci arrivare anche Mussolini, e qui
arrendesi agli Alleati. Da qui ad una vera e propria resa il passo sarà breve.
Tutto assurdo e soprattutto in contrasto con gli ultimi intendimenti del Duce.
Benito Mussolini e il suo agire politico
Vediamo adesso di considerare meglio, almeno a grandi linee, il personaggio
Mussolini, al fine di avere un quadro introspettivo che ci indichi e ci faccia
capire le sue scelte ed i suoi atteggiamenti in quei drammatici momenti,
altrimenti inesplicabili.
A nostro avviso si possono individuare abbastanza chiaramente almeno due
certezze nella pur poliedrica personalità e attività politica del Duce sempre
caratterizzata da un forte pragmatismo, ma sempre riconducibile ad un filo
ideale ben preciso anche se spesso nascosto.
Prima certezza: Mussolini era un rivoluzionario di ordine prevalentemente
politico, dove la politica è l'arte del possibile, tanto è vero che mai mise
mano ai plotoni d'esecuzione nel mantenimento del potere. Non era nella sua
indole la risoluzione cruenta e definitiva dei contrasti politici. Per esempio,
alla notizia che in Germania c'era stata la sanguinosa "notte dei lunghi
coltelli" (giugno 1934), ne restò inorridito affermando: «È come se io facessi
uccidere Balbo, Grandi, Farinacci, ecc.». [5]
Nel '40 era entrato in guerra per estrema esigenza nazionale, ma quella guerra
l'aborriva, non per principio ovviamente, ma perchè era conscio che l'Italia non
era in grado di sostenerla ed inoltre il paese abbisognava di alcuni anni di
pace per consolidare le recenti conquiste africane.
La sua visione geopolitica, alla quale tra alti e bassi si era sempre attenuto,
nonostante e in conseguenza dei freni e il peso di una nazione con un substrato
franco-anglofilo (retaggio di un certo risorgimento massonico) e la deleteria
presenza della monarchia Sabauda, lo portava a prospettare una dimensione
ideologica, politica e sociale dell'Italia, sostanzialmente difforme dal
contesto occidentale iperliberista, e strategicamente anti inglese.
La sua base ideologica, infatti, poggiava su una visione dello Stato che vedeva
preminenti l'etica e la politica sui fattori economici e finanziari: "crimine"
questo che l'Alta Finanza massonica non gli avrebbe mai perdonato. La
geopolitica mussoliniana, inoltre, imperniata sui nostri interessi balcanici,
mediterranei ed africani, si scontrava con quelli inglesi, ma partiva dal
presupposto che in Europa potesse permanere un certo equilibrio delle forze.
Data, infatti, la nostra cronica debolezza militare ed economica era per lui
auspicabile che né tedeschi, né inglesi potessero prevalere in modo definitivo
(da qui le sue proposte e i suoi interventi a Locarno, Stresa, e i tentativi di
pace del 1938/39 e le sue esternazioni durante la guerra contro i responsabili
del conflitto: gli occidentali, ma a suo parere anche i tedeschi).
Se si prendono in esame tutti gli anni del potere mussoliniano e li si
considerano estraendone quelli che furono i compromessi e le tattiche e
necessità contingenti, si ritrovano sempre tutti gli aspetti ideologici e
geopolitici sopra richiamati e questo nonostante si possa essere sviati,
nell'analisi, dal forte pragmatismo di Mussolini, il quale però non è mai fine a
se stesso, ma segue sempre lo scopo di adattare certi obiettivi alle necessità e
difficoltà del momento, magari procrastinandoli nel tempo. A chi gli
rimproverava che questo atteggiamento, alla lunga sarebbe risultato deleterio e
che invece necessitava un repulisti da seconda rivoluzione, Mussolini
riferendosi all'elemento umano che il nostro paese purtroppo metteva a
disposizione, ebbe a dire che con il fango non si fanno le rivoluzioni, ma non
usò la parola "fango".
La stessa socializzazione delle imprese, per fare un esempio, vero evento
rivoluzionario della RSI, in definitiva era già in embrione in tutta la politica
sociale del ventennio, nonostante che quella politica fosse subordinata alle
esigenze dello sviluppo e potenziamento della nazione e quindi abbia avuto
connotati per così dire di "destra", dove lo stesso corporativismo fu piegato
più che altro alle esigenze padronali.
Egli, che da buon pragmatico e da uomo di Stato, aveva sempre considerato il
Fascismo come una forza ideologica e politica al servizio della Nazione con la
quale, per la portata storica delle nuove idee, per l'etica che rappresentava e
per il processo rivoluzionario che aveva messo in moto, finiva per identificarsi
con la Patria stessa, [6] non aveva però di quella guerra la visione ideologica
e apocalittica del Fűhrer (vittoria o distruzione totale) e questo ne
rappresentò una sua debolezza perchè, a parte tutto, "quella guerra", governata
da logiche trasversali e da inconfessabili poteri occulti, non era assimilabile
a tutte quelle precedenti.
Il carteggio con Churchill
Mussolini era inoltre in possesso di alcune lettere di Churchill che, accluse a
tutto un precedente carteggio, dimostravano che il britannico aveva, negli
ultimissimi giorni della nostra neutralità, espressamente chiesto l'intervento
italiano in guerra.
Dopo aver, infatti, dapprima cercato di evitare il nostro intervento bellico, ma
ritenendolo alfine inevitabile, il Churchill pensò di accelerarlo, mediandolo
attraverso una "intesa" a «non farsi troppo male» nella fase iniziale e
prospettando un imminente tavolo della pace con i tedeschi.
Per lo stato in cui si trovava l'Italia e nella drammatica situazione
internazionale che la costringeva ad entrare comunque in guerra, era quella una
offerta veramente allettante.
L'Italia, infatti, se fosse rimasta neutrale, data la sua conformazione
geografica e la possibilità di un estendersi del conflitto, alla lunga, correva
seri pericoli di essere occupata, per esigenze belliche da uno dei contendenti.
Ma c'era anche il pericolo che la guerra si concludesse con un accordo globale
tra inglesi e tedeschi (ostinatamente cercato dalla Germania che offriva
condizioni molto vantaggiose) e l'Italia, oltre ad essere ridimensionata dal suo
ruolo nel mediterraneo e nei Balcani, avrebbe sicuramente perso tutte le
posizioni faticosamente acquisite nella lontana e scollegata africa orientale.
La menzogna del britannico, la sua "esca", consisteva, come detto, nel far
credere che si fosse alle porte di una pace imminente e offriva, per di più, un
ricco bottino territoriale a spese della Francia.
Invece il vero scopo strategico di Churchill e delle lobby che lo manovravano
era quello di allargare il teatro bellico, mossa propedeutica al non ancora
prossimo intervento americano e con l'intento, anche per problemi interni alla
Gran Bretagna (dove non tutti erano disposti a rifiutare le offerte di pace di
Hitler e rischiare di mettere in crisi l'Impero per via dell'approssimarsi di
potenze planetarie quali gli USA e l'URSS) di rendere irreversibile la guerra.
Quel Carteggio, insomma, attestava chi erano i veri responsabili della guerra,
poneva Churchill in gravi difficoltà morali e politiche e smascherava tutta la
propaganda di guerra alleata!
Di tutte le intercettazioni telefoniche ed epistolari carpite di nascosto dai
tedeschi e che mostrano senza ombra di dubbio l'importanza del Carteggio e
l'intenzione del Duce di utilizzarlo nell'interesse nazionale, vale per tutti
questa frase detta da Mussolini a Claretta Petacci, parlando di Pavolini:
«... lui non può capire la situazione, non può collaborare. Perciò io devo
rispettare il suo punto di vista di parte. Lui non conosce gli avvenimenti
accaduti pochi giorni prima della nostra entrata in guerra. Non ne ho parlato
con nessuno. E Churchill ancora meno. Bisognerà raccontare una buona volta
questa storia. Chi dovrebbe parlarne oggi? In tutto la conoscono cinque
persone!».
Questa bomba di documentazione il Duce la tenne sempre con sé in una piccola
borsa di pelle di cm. 25 x 18 non fidandosi di cederla ad alcuno. Di tutto il
copioso carteggio complessivo aveva poi fatto fare almeno tre copie
fotografiche, nascoste in giro (anche all'estero) e con la speranza che si
salvassero e fossero utili alla nazione (invece ...).
Era questo, come dimostrano anche le intercettazioni telefoniche ed epistolari
fatte dai tedeschi, un atteggiamento finalizzato non ad uno sfruttamento privato
del carteggio, ma ad un suo uso per gli interessi nazionali e per giustificare
il suo operato di governo nel 1940.
Quando il Duce fu catturato a Dongo si disse poi che erano state sequestrate
almeno tre borse di documenti: una trovata con Mussolini sul camion, una
affidata a Casalinuovo ed una trovata a Marcello Petacci. Del loro contenuto si
hanno solo vaghe indicazioni soprattutto perchè ebbe ad essere saccheggiato e
fatto sparire nei giorni successivi. C'era sicuramente parte del carteggio con
Churchill con i famosi 62 fogli delle lettere che finirono poi in mano al PCI ed
a quel Carissimi Priori posto a capo dell'ufficio politico della questura di
Como.
Ma della piccola borsa con le lettere più compromettenti di questo Carteggio,
quelle con «gli avvenimenti accaduti pochi giorni prima della nostra entrata in
guerra», sicuramente sequestrata a Dongo addosso a Mussolini dal Bellini delle
Stelle "Pedro" e/o Urbano Lazzaro "Bill", del comando della 52ª Brigata
Garibaldi che lo aveva fermato, non se ne è mai saputo nulla (o quasi).
Seconda certezza: Mussolini nel 1945 riteneva inevitabilmente persa la guerra ed
era conscio che il fascismo sarebbe finito con essa.
Cosciente di questo, e coerente con la sua visione della guerra, aveva ferma
intenzione, a prescindere della sua persona, di conseguire un minimo di
risultati:
1. evitare sangue e distruzioni al paese, firmando oltretutto ogni domanda di
grazia sottopostagli. In quest'ottica sperava di mediare un trapasso dei poteri
con il CLNAI che evitasse i lutti e gli consentisse uno sganciamento indolore
dalle grandi città del nord, ma non fu possibile per l'evidente volontà nemica,
soprattutto comunista e massonica, di spazzare via il fascismo anche attraverso
un bagno di sangue;
2. con la fine del fascismo, esperire almeno un tentativo politico, finalizzato
a lasciare in eredità alle forze moderate di sinistra le riforme rivoluzionarie
della Socializzazione e della Repubblica, ma anche questo non fu possibile
perchè i vincitori della guerra avevano distrutto il fascismo proprio perché,
nonostante la retorica del ventennio e i freni borghesi e savoiardi, ne
avvertivano tutta la portata distruttiva per l'occidente capitalista. Le forze
di sinistra moderate, come i socialisti, poco contavano e in quei giorni erano
impegnate, assieme agli azionisti, a difendere le case e i beni dei grossi
magnati, figuriamoci se potevano difendere la socializzazione. Non per niente,
finita la guerra, furono tutti d'accordo nell'abrogare immediatamente le riforme
della socializzazione e quelle sul monopolio azionario, riconsegnando la
gestione delle Aziende al grande capitale!;
3. sfruttare l'importanza del Carteggio con Churchill e ottenere, per la
nazione, un alleggerimento delle conseguenze della sconfitta militare e,
ovviamente la salvezza per chi aveva partecipato alla RSI, ma non fu possibile
per il precipitare degli eventi che impedirono a Mussolini una trattativa con le
armi ancora in pugno e per l'ignobile comportamento di coloro che poi lo
razziarono e lo svendettero agli inglesi;
4. consentire a tutti i fascisti che lo volessero, di mettersi in salvo in
qualche modo, contando unicamente sugli irriducibili rimasti fedeli.
Personalmente pensò di mettere in salvo la moglie e i figli in Svizzera e la
Petacci in Spagna. Neppure questo fu possibile: per i fascisti per i motivi che
vedremo e per i familiari a causa del rifiuto svizzero di accogliere donna
Rachele e infine per il colpo di testa di Claretta che volle rimanere in Italia,
coinvolgendo anche il fratello;
5. per se stesso, infine, rimase fermamente irremovibile nella decisione di
restare comunque in Italia, sia per un dignitoso attestato morale della sua
vita, ma anche per poter esperire fino all'ultimo minuto qualsiasi possibilità
si presentasse avendo un governo, sia pure allo sbando e ridotto ai minimi
termini, ma formalmente legittimato e militarmente ancora in grado di muoversi.
Fermo rimase anche nell'impegno di non trattare alcuna resa militare con gli
Alleati, se non -con o dopo- che lo avessero fatto i tedeschi, e questo per non
ripetere l'onta dell'8 settembre;
In virtù di una attuazione di quanto sopra Mussolini, fin dalla sua venuta a
Milano da Gargnano del 18 aprile, ha già previsto uno spostamento progressivo,
in base agli sviluppi della situazione militare, da Milano a Como e quindi in
Valtellina.
Situazione che però precipiterà in modo repentino e imprevedibile.
Se il Duce avesse voluto salvarsi
Dopo il 20 aprile '45, occupata Bologna dagli Alleati, era oramai evidente che i
tedeschi praticamente non combattevano più e iniziavano a ritirarsi nei loro
acquartieramenti, mettendo in crisi la RSI. A questo punto Mussolini, volendo,
avrebbe potuto mettersi in salvo e questo tanto più quando, il pomeriggio del 25
aprile all'Arcivescovado venne ufficialmente a conoscenza che i tedeschi avevano
praticamente raggiunto una intesa, all'insaputa degli italiani, per una
imminente resa con gli Alleati. Diveniva quindi evidente che l'unica possibilità
di salvezza consisteva nell'arroccarsi in Milano per condividere, attendendo gli
Alleati, la resa con i tedeschi, oppure prendere personalmente il volo verso
l'estero lanciando il si salvi chi può.
Il Duce invece preferì procedere nella sua condotta già decisa da tempo e che
gli consentiva ancora un minimo di autonomia, trattativa e dignità, evitando una
sua diretta consegna al nemico. Non immaginava però che a Como già ci si stava
defilando.
Come non ricordare tutte le invenzioni che sono state prodotte circa l'intento
di Mussolini di fuggire in Svizzera. Invenzioni, queste, determinate dalla
volontà politica di distruggerne in ogni modo il mito, agevolate dalla vicinanza
geografica della Svizzera dai luoghi di quegli ultimi avvenimenti e propiziate
dalle fandonie, profuse a piene mani dai quotidiani in quei giorni di fine
aprile. A parte le notizie di un Mussolini dato presente nei posti più
impensabili, infatti, vale per tutti quanto ebbe il coraggio di scrivere
"l'Avanti!" di sabato 28 aprile, in una sua seconda edizione romana, laddove si
informava dell'arresto dei gerarchi, come al solito asseriti in procinto di
fuggire in Svizzera e per Mussolini si diceva:
«... mentre il Duce stava maciullando con la sua quadrata mascella una bistecca
arrosto, un gruppo di guardie di finanza riconosceva l'uomo più fotografato del
mondo …».
Ma che Mussolini fosse stato fermato mentre faceva colazione (particolare di un
certo impatto emotivo in quei giorni di fame nera) venne in quelle ore ripreso
da molti giornali.
Da qualche anno però gli storici hanno definitivamente abbandonato questa
calunnia ed in particolare un documentato lavoro del bravo ricercatore storico
Marino Viganò ha spazzato definitivamente via tutte queste illazioni. [Si veda:
"Mussolini, i gerarchi e la "fuga" in Svizzera 1944-'45", Nuova Storia
Contemporanea", n. 3-2001]. Una ricerca storica che risulta tanto più importante
ed assume una certa valenza, in quanto trattasi del lavoro di uno storico che
certamente non può definirsi di parte neofascista.
Ma, oltretutto, gli storici conoscono bene tutti gli svariati piani di
salvataggio del Duce, ideati da autorità della RSI, da settori del partito
fascista e da personaggi vari del suo entourage e sanno altrettanto bene del
totale rifiuto di Mussolini di aderire ad uno qualsiasi di questi progetti che,
mano a mano gli veniva proposto sempre più insistentemente, tanto che c'era
persino chi pensava di condurlo all'ultimo momento in salvo, con la forza o
narcotizzato, contro la sua volontà.
In sintesi e pur con qualche variante di dettaglio tra una versione pervenutaci
e l'altra:
Al figlio Vittorio, che proprio negli ultimissimi giorni gli propose di
nascondersi in una garçoniere, Mussolini rispose ironicamente: «Non ti pare che
le garçoniere servono per altri scopi?!»
Noto è poi l'avanzato progetto del generale Ruggero Bonomi, sottosegretario
dell'aviazione RSI, che aveva predisposto sul campo di Ghedi (Brescia), dei
trimotori "Savoia Marchetti 79" (rimasti a disposizione fino agli ultimi giorni
di Milano) adatti a raggiungere località come la Spagna dove risiedeva la moglie
di Luigi Gatti disposta ad accoglierlo. Al ché, saputolo, Mussolini, più o meno,
osservò con ironia: «È questa di Bonomi la soluzione migliore per risolvere la
nostra situazione? E tutti gli altri fascisti, poi, dove li metteremmo in
quell'aereo?».
Racconta un sia pur fantasioso e non sempre attendibile Virgilio Pallottelli,
tenente pilota, che ebbe modo di vedere Mussolini il 25 aprile a sera in
Prefettura dopo il ritorno dall'Arcivescovado: «... di corsa salgo dal Duce, è
pallido e nervoso. Imploro di andare subito a Linate e volare verso la Spagna.
Rifiuta gridandomi che lui non scappa: "Virgilio, andremo anche noi sulle
montagne, come i partigiani. No, Virgilio non scappo in volo. Andiamo in
Valtellina ad aspettare gli Alleati"».
Altri, per esempio Tullio Tamburini, già direttore di Polizia, avevano avuto in
mente un sommergibile atlantico.
Renato Ricci, già comandante della GNR, pensava invece ad un piccolo aereo o un
MAS, non è chiaro se per consegnarlo agli Alleati o per nasconderlo in Sicilia o
in Spagna.
E tanti altri piani di salvataggio ancora di cui ci darà ampia informazione
Marino Viganò anche con un altro articolo ("Quell'aereo per la Spagna") in
appendice alla sua ricerca principale, già citata.
In ogni caso non facile, ma certamente praticabile, sarebbe stata la possibilità
di porre in salvo il Duce sia in Spagna che in Sud America o forse in Svizzera o
anche nasconderlo in qualche località segreta in Italia, anche se poi alquanto
problematico sarebbe stato il "dopo" ovvero il "come" affrontare il dopoguerra,
ma oltre 20 anni di segreti di Stato ed un compromettente carteggio con
Churchill, gli avrebbero forse concesso la possibilità di salvare la pelle.
Ed invece, sul piano personale, si preoccupò unicamente di porre in salvo i suoi
familiari mentre egli, con tutte le restanti autorità del governo repubblicano
al seguito (alcuni familiari compresi), andò incontro al suo destino.
Il Duce non ebbe scampo
Si intuisce quindi, dati questi presupposti, che il Duce non ebbe scampo, anche
perchè, seppur da politico di razza, su tutto era capace di trattare e di
mediare e su ogni situazione riusciva sempre a barcamenarsi, mai però avrebbe
leso gli interessi nazionali. E proprio nell'ottica degli interessi nazionali
che muoveva i suoi ultimi passi.
Egli venne praticamente a trovarsi su un crocevia di morte, non tanto e non solo
perché in possesso di un prezioso Carteggio, quanto perché schiacciato dagli
interessi anglo americani che hanno progetti post bellici di colonizzazione di
tutta l'Europa e su questi progetti hanno coinvolto anche i sovietici (Yalta);
quindi è spiazzato dal tradimento dell'ala filo occidentale della Germania,
incarnata da Himmler e rappresentata in Italia dal generale delle SS Wolff e
dall'ambasciatore Rahn, che contrattano una resa segreta con gli Alleati nelle
cui trattative non poteva non essere "considerata" anche la persona del Duce
(ovviamente senza una consegna diretta, per non apparire Wolff & Co. dei
traditori).
Ed infine è travolto anche dall'interesse sovietico a tacitarlo per sempre
affinché non possa attestare le intese che dagli anni '20 e fino al '41,
intercorsero tra Roma e Mosca o le mediazioni in cui si impegnò il Duce nel 1943
per far uscire la Russia dalla guerra (è noto che il PCI non prendeva alcuna
seria iniziativa senza ordini o senza un beneplacito da Stalin).
[7]
E tutto questo dramma si svolse sul suolo italiano, dove un Re fellone è
nell'incubo che, vivo Mussolini, possa esser chiamato a dar conto delle sue
responsabilità nella guerra. La massoneria internazionale, al tempo
trasversalmente presente tra tutte le fazioni in lotta, compresa la RSI, e
influente persino nella condotta bellica alleata, fece il resto (si spiega così
l'ambiguo comportamento delle missioni americane, puntualmente in ritardo e
apparentemente tese a recuperare Mussolini, di cui la più importante di queste,
venne posta da Allen Dulles nella mani del capitano Emilio Daddario, ritenuto
uno dei suoi elementi più inefficienti, come a dire che si "lasciò " mano libera
agli inglesi, che da parte loro erano impegnati a «suggerire l'eliminazione
sbrigativa del Duce»).
Ma è il tener fermo di Mussolini nel voler a tutti i costi rimanere sul suolo
italiano, nel non volersi trincerare in Milano o in Como, perdendo mano a mano i
pezzi di coloro che gli stavano attorno, desiderosi di mettersi in salvo senza
che, al contempo, arrivino consistenti contingenti armati da Como, che lo porta
diritto a Piazzale Loreto.
Comunque sia il Duce resterà irremovibile anche nella sua decisione di non
espatriare, di temporeggiare fino all'ultimo, ma con le ore che passano non può
prospettare alternative, programmi concreti, evidenti vie di uscita ai suoi
uomini: il disorientamento e lo sconcerto, in quelle ore sarà destinato ad
aumentare.
E si può immaginare lo strazio che dovette subire il Duce (indirettamente ben
documentato da Marino Viganò nella sua citata ricerca, quando parla delle ore
passate tra Menaggio e Grandola), di fronte all'angoscia di vedere tanti
fedelissimi che vorrebbero espatriare in qualunque modo e lui che vuol rimanere
sul suolo italiano per non diventare, come dirà in quei drammatici momenti (con
un tipico modo di dire romagnolo), lo "zimbello del mondo".
PARTE SECONDA
Inattendibilità di alcune fonti storiche e punti fermi nella ricerca
La soluzione per comprendere le vere intenzioni di Mussolini e ricostruire
obiettivamente quegli avvenimenti, in particolare la "resa di Como", non può
essere cercata solo nelle contraddittorie testimonianze rilasciate da coloro che
tra il 25 e il 27 aprile gli furono attorno: personalità e uomini delle
Istituzioni repubblicane, comandi fascisti, militi, giornalisti, uomini della
resistenza, ecc.
A parte il fatto che quelli probabilmente più informati e a lui più vicini,
trovarono la morte e quindi rimasero nell'impossibilità di testimoniare, gli
altri hanno di sovente manipolato, perfino inconsciamente, i loro ricordi e le
loro testimonianze per giustificare atti e iniziative in effetti alquanto
discutibili.
Da una parte, infatti, gli uomini delle Istituzioni e delle organizzazioni
militari e di polizia repubblicane (a Como per esempio, il prefetto Renato Celio
capo della Provincia, il questore Lorenzo Pozzoli, il colonnello Ferdinando
Vanini, ecc.), erano necessariamente inclini ad attenuare il loro prematuro
defilarsi, il loro aver da tempo trattato sotto banco con le nuove autorità
cielleniste un trapasso indolore delle cariche oppure, al contrario, ad
esagerarlo per difendersi nei processi contro di loro intentati e acquisire
meriti agli occhi della nuova Italia democratica e antifascista.
Dall'altra, i reduci, responsabili dei comandi fascisti, non potendo raccontare
le gesta di un ultimo eroico ed epico evento in quel di Como, ma unicamente i
particolari di un generale sbandamento e di una ingloriosa resa, per di più
causa di successive stragi e comunque responsabile del mortale isolamento in cui
si venne a trovare Mussolini a Menaggio, dovevano ovviamente accampare
(soprattutto quelli che dal dopoguerra in avanti ebbero interessi di natura
politica ed elettorale), ogni genere di giustificazione per il loro operato.
In questo senso appare alquanto singolare che lo stesso bravo ricercatore
storico Marino Viganò abbia basato la ricostruzione della "Resa di Como",
prevalentemente con i ricordi di Pino Romualdi del quale sembra abbia anche
curato le memorie per conto della famiglia. Vedi: "La resa di Como 26-27 aprile
'45", in "Storia del XX Secolo" numeri di aprile e maggio 1997.
Gli antifascisti infine, i partecipanti agli eventi della resistenza, come in
tanti altri casi analoghi, avevano spesso l'inclinazione ad esagerare
particolari insignificanti, a colorare di gesta epiche quello che epico non era
mai stato, ad incensarsi nell'agiografia resistenziale.
Il quadro che esce fuori da tutte queste testimonianze, quindi, non può non
risentire di questi condizionamenti e non è un caso che le testimonianze più
attendibili si ritrovano in gregari, come per esempio Elena Curti, che non
avevano niente da nascondere o di cui vergognarsi.
L'unica strada per arrivare ad un minimo di verità, quindi, è quella di
attenersi strettamente allo svolgersi dei fatti, quelli oggettivamente
accertati, incrociando testimonianze selezionate e trarre da questi fatti le
dovute conclusioni.
Questi avvenimenti li riassumiamo qui di seguito e poi li vedremo meglio nei
singoli dettagli.
Primo: Mussolini va in Arcivescovado a trattare, non una resa o addirittura una
sua consegna al nemico, ma un trapasso indolore dei poteri con il quale
sganciarsi e mettere in atto gli ultimi suoi intendimenti per concludere
decorosamente la guerra evitando il più possibile lutti e distruzioni.
Secondo, non accetta di barricarsi in Milano in attesa degli Alleati anche se
questo forse gli salverebbe la vita, per non coinvolgere la città in una
possibile carneficina, ma anche perchè questo pregiudicherebbe ogni sua
possibilità di trattativa e manovra.
Terzo, Mussolini lascia anche Como all'alba del 26 aprile (verso le 5 del
mattino), non solo per gli stessi motivi che lo hanno indotto a lasciare Milano,
ma anche per la situazione di insicurezza e scollamento che trova nelle
Istituzioni della repubblica a Como oltre per i ragionevoli motivi che
indicheremo, e lo fa proprio in quell'ora prematura, anche per avere una
maggiore sicurezza di trasferimento.
Quarto: non fugge in Svizzera, ma si ferma pochi chilometri più avanti, a
Menaggio. Perchè non abbia seguito la strada lariana orientale (Erba, Lecco,
Colico), invece che la via Regina (Menaggio, Sorico) può avere molte risposte di
ordine tattico e di opportunità militari del momento (sembra che nella scelta vi
influì il federale Paolo Porta e l'impressione di un mutato quadro di sicurezza
che fino a poco prima attestava invece più sicura la lariana orientale) che non
è poi così importante cercare. In questo senso, possibili appuntamenti con
fantomatici emissari inglesi non sono del tutto da escludere, ma non sono
neppure provati, quindi è inutile congetturare ulteriormente.
Quinto: da Menaggio il Duce, ovviamente, non si può più muovere senza una
adeguata scorta militare che non ha. Tante sono le cause di tutte quelle
inconcludenti ore di attesa, ma bisogna soprattutto considerare questa semplice
realtà oggettiva, così come è evidente che egli attende il sopraggiungere di
Pavolini con la colonna dei fascisti. Tornare indietro non avrebbe senso.
Sesto: nonostante con il passare delle ore si vadano vanificando le sue sia pur
minime intenzioni strategiche e si renda evidente che ci sono grossi problemi al
sopraggiungere di forze fasciste da Como, mentre oltretutto la situazione delle
agibilità stradali peggiora, Mussolini ostinatamente rifiuta ogni proposta o
consiglio di tentare comunque un espatrio in Svizzera. E questo fino all'ultimo
anche se oramai ogni suo intendimento strategico si è perso per strada.
Settimo: i fascisti che arrivano a Como, non trovandolo, hanno un forte
sbandamento morale, ma il fatto che non si sia dato l'ordine di proseguire
immediatamente dietro al Duce, che non si sia potuto recuperare questo
abbattimento e non si sia riusciti a organizzare l'inquadramento di almeno un
minimo di forze da portare a Menaggio, ha soprattutto altre cause, tra le quali
la poca adeguatezza militare dei sopraggiunti comandanti fascisti, assurdamente
convinti che Mussolini debba tornare indietro e intimamente inclini a trovare
sul posto soluzioni attraverso trattative.
Tutto questo, unito alle defezioni e il defilarsi degli uomini delle Istituzioni
repubblicane, che pur avrebbero dovuto ancora essere ancora al loro posto per la
RSI, contribuisce al disastro finale.
Le topiche di Franco Bandini
Con molta malevolenza il pur abile scrittore e giornalista storico Franco
Bandini, che spesso si innamorava di ipotesi scaturite da sillogismi
superficiali, da testimonianze dubbie prese per vere, da particolari tutto
sommati marginali, ebbe a scrivere, sbagliando in pieno:
«Nessuno potrà mai fare un calcolo esatto delle forze che la morente repubblica
riuscì, nel nome di Mussolini, a coalizzare intorno a sé: ma furono, se vogliamo
vedere la realtà quale veramente fu, realmente imponenti, quando le consideriamo
con lo stato d'animo che ognuno dei militi in marcia su Como dovette superare,
per mettere un piedi davanti all'altro. Tra il 25 e il 26 (aprile 1945),
giunsero nella capitale comasca migliaia di militari, tanto persuasi che si
doveva morir bene, in un certo modo un poco eroico, un poco letterario, da
portarsi dietro, la maggioranza, mogli e bambini. Arrivarono intere Brigate
Nere, formazioni speciali, nuclei isolati, forze di polizia, con armi, munizioni
e una notevole voglia di combattere: senza quella non sarebbero mai giunti.
Arrivarono, anzi erano presenti sin dall'inizio, tutti i capi: non meno di una
dozzina di prefetti, una ventina di generali, centinaia di ufficiali, tutti i
ministri, meno quello della Giustizia, rimasto a Milano. I capi di Stato
Maggiore delle varie armi, e poi giornalisti, questori, uomini di pensiero e di
cultura, federali, segretari del fascio di sperdute province: insomma tutti
coloro ai quali si era dato l'ordine di venire. Naturalmente defezioni ve ne
furono, e sarebbe stato strano che non ce ne fossero: ma i fascisti, nella loro
massa, risposero all'appello del misterioso fascino che il nome di Mussolini
esercitava ancora fortemente su di loro. Ebbe intorno immensamente più di quanto
gli sarebbe potuto occorrere per quella bella morte di cui aveva parlato così
spesso. Ma non volle, come non aveva voluto il 25 luglio (1943), quando la
Milizia, e la sua guardia personale, i Moschettieri del Duce, erano rimasti
inerti nei loro alloggiamenti. Sperperò quest'ultimo e sincero nocciolo di
affetto, di ammirazione e di slancio, consegnando ognuno alla sua sorte
individuale e meschina. Deliberatamente rifiutò, per sè e per essi, quelle
possibilità che la sorte, ed il suo stesso nome gli offrivano. Preferì essere
solo, considerare chi lo seguiva come un noioso importuno: come uno sciocco
ancora immerso in una situazione che egli, nel suo profondo, aveva già superato
e dimenticato… Se costoro, e tutti gli altri, avessero avuto un ordine,
l'avrebbero eseguito, si sarebbero difesi, certo con accanimento, e forse con
valore, a Como come a Menaggio, come a Dongo, come in Valtellina. Non c'era
ragione che non lo facessero. Uomini come Pavolini, come Vezzalini, come Gatti,
come Utimpergher, Casalinuovo e centinaia di altri, non avrebbero trovato
normale o inaccettabile l'ordine di morire sul posto: qualunque cosa di loro
possiamo pensare sul piano politico, o morale, in nessun modo possiamo
figurarceli come dei vigliacchi… Se morirono così, ammucchiati davanti a un
muretto, e non in combattimento, questo risale unicamente alla volontà di
Mussolini: possiamo chiederci perché volle così e non altrimenti, ma non
dubitare della sua inerzia in quei momenti. Abbandonò i suoi fedeli a Como, li
respinse a Menaggio: da lui essi non ebbero che frasi prive di significato,
vuote di un qualsiasi programma».
Questa personale interpretazione del Bandini, di un giornalista che oltretutto
non si sa fino a che punto può capire la profondità di certe scelte ideali e
convinzioni ideologiche, a parte varie inesattezze, come il fatto che Mussolini
respinse a Menaggio i suoi fedeli di Como, quando invece li stava aspettando
come il pane, è comunque una diretta conseguenza di chi, a tavolino, pretende di
ricostruire l'esatto andamento e il motivo di certi avvenimenti, sulla base di
quanto ha raccattato nell'immondezzaio di racconti resi più che altro da chi
volle rendere una propria giustificazione.
Cervellotico anche il paragone con il 25 luglio '43, laddove era evidente, ed
uno storico serio come R. De Felice ebbe a capirlo perfettamente, che Mussolini
in quella delicata situazione, con la guerra in corso ed un rapporto di forza
rispetto alla monarchia nettamente sfavorevole, non poteva assolutamente evitare
un pur imminente e probabile pericolo, mettendola sul piano della forza, ma
unicamente contando (e purtroppo sbagliò) sulla razionalità del Re, a cui faceva
affidamento, per il quale non avrebbe dovuto essere opportuno e conveniente
defenestrarlo.
Non è un caso che nei suoi famosi scoop giornalistici, il Bandini abbia preso
spesso svariate cantonate proprio per andare dietro a qualche suo sillogismo
basato su precarie informazioni ricevute. In questo caso poi, il Bandini, per
tenere in piedi questa sua cervellotica "intuizione" sulle intenzioni finali del
Duce, dovette necessariamente completarla puntando sull'altra cantonata,
storicamente inconsistenze, di una successiva intenzione di Mussolini di
squagliarsela in Svizzera.
Non vale neppure la pena di commentare oltre.
Per concludere occorrerebbe aggiungere che una storiografia esaustiva di quegli
eventi, dovrebbe anche considerare ed indagare sulle interferenze causate dalla
presenza e dal lavorio, non indifferente, di svariati servizi segreti, come ebbe
a far notare Renzo De Felice:
«C'erano persino gli svizzeri, oltre agli inglesi, ai tedeschi, agli americani»
("Rosso & Nero", Baldini & Castoldi editori 1995), ma è inutile addentrarsi in
queste spy-story se non ci sono documentazioni attendibili e precise, si
finirebbe soltanto per fantasticare e complicare le cose, come in effetti si è
fatto fino ad oggi aumentando la confusione.
PARTE TERZA
La genesi degli avvenimenti
Ricostruiamo adesso tutto il calvario di Mussolini e della RSI, dall'incontro
all'Arcivescovado del 25 aprile 1945, fino alla sua cattura avvenuta sulla
piazza di Dongo.
Avvertiamo il lettore che molti orari e intervalli di tempo che saranno appresso
riportati e indicati, estrapolati dalle varie testimonianze di chi ha
partecipato a quegli eventi, in particolare per la caotica mattinata dal 26
aprile in avanti, sono da prendere con una certa cautela, perchè sono spesso
troppo approssimati e li si ritrovano difformi da una testimonianza all'altra.
Per un più completo e particolareggiato panorama delle testimonianze e dei
singoli avvenimenti, rimandiamo ai testi più completi ed attendibili che si
trovano in circolazione che sono l'opera di Alessandro Zanella: "L'ora di
Dongo", Rusconi 1993, e la già citata ricerca storica di Marino Viganò:
"Mussolini, i gerarchi e la 'fuga' in Svizzera 1944-'45", in "Nuova Storia
Contemporanea" n. 3-2001, visibile anche on line nel sito:
http://www.italia-rsi.org/miscellanea/nuovastoriacontemporaneafugacosiddetta.htm.
Interessante e documentato, ma non efficace come ricostruzione storica
particolarmente approfondita, l'altro articolo del Viganò: "La resa di Como
26-27 aprile '45", in "Storia del XX Secolo", numeri di aprile e maggio 1997.
Datato, ma ancora valido ed estremamente intelligente nelle sue deduzioni, il
"Contromemoriale" di Bruno Spampanato, pubblicato sul "Meridiano Illustrato" nei
primi anni '50 e riproposto per i tipi delle edizioni CEN di Roma nel 1974.
Importanti le testimonianze di Elena Curti pubblicate nel suo libro "Il chiodo a
tre punte" Iuculano editore 2003, e quelle di Pietro Carradori pubblicate nel
libro di Luciano Garibaldi "Vita col Duce - Pietro Carradori racconta"
Effedieffe edizioni 2001.
Sono questi i testi dai quali abbiamo tratto molte delle testimonianze e
citazioni presentate in questo lavoro.
In ogni caso, prima di addentrarci nella ricostruzione degli avvenimenti
succedutisi in poco più di due giorni, dal 25 aprile 1945 alle prime ore del
mattino del 27 aprile (in particolare sulle vicende inerenti la "resa di Como",
episodio chiave nella fine del fascismo e per le sorti del Duce) ed al fine di
sgombrare il campo da equivoci o malintesi, dobbiamo fare una precisazione
doverosa.
A nostro avviso, le tragiche ed assurde vicissitudini che portarono alla
incredibile resa di Como ed alla cattura di Mussolini a Dongo, non sono dipese
da una mancanza di coraggio (salvo evidenti imboscamenti che pur furono
numerosi) e neppure (anche se qui, in alcuni casi, possiamo avere qualche
dubbio) da malafede (qualcuno ha anche insinuato rapporti, non ben precisati, di
alcuni fascisti con l'OSS americano, ma prove precise di una preordinata
malafede non ce ne sono, per cui non possiamo andare più oltre di un doveroso
dubbio).
Quella capitolazione, a nostro avviso, derivò essenzialmente da una mancanza di
polso e di estrema audacia, dalla scarsità di una visione strategica di natura
militare atta a valutare esattamente le decisioni da prendere in quelle
contingenze e da una forma mentis, anche ideologica, predisposta ad intavolare
trattative e a conseguire una resa con gli Alleati. In pratica mentre Mussolini,
per guadagnare tempo e giocarsi le sue carte nel modo migliore, si allontana dai
luoghi dove stanno per arrivare gli Alleati, gli altri ritengono invece che sia
più opportuno e conveniente attenderli e risolvere la situazione, una riserva
mentale questa umanamente comprensibile in quei drammatici frangenti, ma
deprecabile sotto l'aspetto politico e ideologico.
Furono queste, chiamiamole così, riserve mentali, che impantanarono i comandanti
fascisti in Como dove poi vennero travolti da tutta una serie di avvenimenti,
cause e concause negative.
Resa o "trapasso dei poteri"?
Molti storici e soprattutto giornalisti storici fanno, spesso in malafede, una
certa confusione circa supposti intenti del Duce per una resa della sua RSI,
evidentemente sia agli Alleati che al CLN ed eventuali sondaggi per un trapasso,
desiderato indolore, dei poteri tra una Repubblica che deve, sotto la forza
delle armi, cedere all'occupazione alleata e lasciare il posto ai nuovi poteri
che saranno conferiti al CLN.
Intanto sgombriamo subito il campo da ogni illazione circa un segreto intento
del Duce di trattare una resa con gli Alleati alle spalle dei tedeschi (cosa
che, invece, fecero proprio i tedeschi negli ultimi due mesi di guerra). È ovvio
che sotto l'incalzare della inarrestabile avanzata alleata, prima o poi, si
sarebbe arrivati ad una resa, ma il Duce e lo stesso Graziani, non ci sono dubbi
in proposito, non avrebbero mai trattato una resa alle spalle dell'alleato,
semmai lo avrebbero fatto in sintonia con i tedeschi o dopo che questi si
fossero arresi o avessero lasciato il territorio italiano.
Il tradimento dell'8 settembre, con il pesante fardello morale, materiale e
storico che aveva marchiato e devastato per sempre il popolo italiano, non
sarebbe mai stato ripetuto da coloro che avevano messo in piedi la RSI proprio
per riscattare l'onore della nazione vilipeso da Badoglio.
Certamente, come avviene in queste circostanze belliche, c'erano sicuramente
sempre stati attivi vari canali, diplomatici o meno, intenti ad acquisire
notizie, intraprendere sondaggi ed ascoltare eventuali proposte che potessero
dare una indicazione sugli intenti del nemico su come voler chiudere la guerra.
Ma questi, chiamiamoli "sondaggi", che sarebbe stato strano ed innaturale se non
ci fossero stati, non hanno nulla a che vedere rispetto a delle trattative per
una resa al nemico della RSI e delle sue forze armate.
Proprio di un "sondaggio" per una "proposta" di resa si ha notizia dal figlio
del Duce, Vittorio, il quale racconta che ai primi di marzo del 1945, con il
precipitare della situazione e di fronte alla inevitabilità ed imminenza della
sconfitta militare, Mussolini gli consegnò un abbozzo di testo per una eventuale
trattativa di resa verso gli Alleati che doveva passare attraverso la Curia di
Milano e finalizzata alla salvaguardia di uomini, beni e strutture del paese (in
questo senso sollecitato nel mese precedente proprio dalla Curia, ovvero dal
cardinale Ildefonso Schuster).
Se andiamo a leggere il testo di questa "proposta"¸ ci accorgiamo che essa
prevedeva una ripresa della piena autonomia d'azione della RSI, sganciata dai
tedeschi, quando si determinerà la fase finale della guerra e solo nel caso che
questi si ritirino entro i propri confini.
Dice infatti il preambolo del testo:
«Nel caso che gli avvenimenti bellici e politici costringano le armate di
Kesserling a ripiegare entro i propri confini, in quel momento le forze armate
della repubblica Sociale, di ogni specialità si raduneranno in località
prescelte anticipatamente onde opporre la più strenua resistenza contro il
nemico e le forze del disordine e del governo regio, consci che l'odio
antifascista non conceda altra via d'uscita se non il combattimento».
Segue quindi la proposta, al fine di evitare nuovi lutti, stragi e la
distruzione del patrimonio industriale del paese, di firmare degli accordi
preliminari con il Comando supremo Alleato che garantiscano, anche per il
dopoguerra, un minimo di sicurezza e continuità di vita civile a quanti,
fascisti, soldati o civili hanno prestato giuramento alla RSI. Segue anche una
preoccupazione verso i membri di governo ed i loro familiari e quanti hanno
avuto funzioni di comando nella RSI, per i quali si richiede di conoscere le
intenzioni Alleate (arresti, campi di concentramento, esilio, ecc.).
Questo è tutto quello che di documentato abbiamo sulle intenzioni di Mussolini e
su quanto egli voleva e poteva fare nell'imminenza della sconfitta. Tutto il
resto sono invenzioni, stravolgimenti della realtà di quegli avvenimenti.
Consideriamo adesso invece un mai esistito intento di resa della RSI alla
Resistenza.
Come noto, tutta la letteratura resistenziale, ma non solo, riferendosi al
famoso incontro all'Arcivescovado nel pomeriggio del 25 aprile '45, tende a
profferire affermazioni apodittiche, in riferimento ad una presunta volontà di
Mussolini di essersi recato a quell'incontro per offrire o trattare una resa con
il CLN. È questo però un falso storico.
In realtà Mussolini era da tempo che, su più versanti, aveva incaricato uomini
del suo entourage (Tarchi, Bassi, Zerbino, il figlio Vittorio, ecc.) di sondare
le varie possibilità che potevano offrirsi affinchè ci fosse, in particolare a
Milano, un «passaggio indolore dei poteri» tra la RSI, che con le sue forze
armate e milizie si sarebbe ritirata più a nord, nel caso fin verso la
Valtellina, e le nuove autorità subentranti del CLNAI. Il tutto ovviamente
nell'ottica di evitare ulteriori rovine e lutti da ambo le parti e magari
salvare possibilmente i fascisti e i loro famigliari dalle inevitabili
ritorsioni e vendette.
In queste eventuali ed auspicabili trattative, che con la caduta di Bologna del
20 aprile si cercò di approcciare in tutte le direzioni, Mussolini sarebbe stato
ben disposto anche a lasciare a disposizione forze militari della repubblica per
il mantenimento dell'ordine pubblico. È chiaro infine che la RSI, lasciato il
suo ruolo e i suoi poteri a Milano, sarebbe poi stata costretta a chiudere la
sua pagina di storia qualche giorno più tardi in relazione all'invasione
Alleata.
Il Duce aveva anche coltivato l'illusione che fosse possibile tramandare in
qualche modo (il socialista Carlo Silvestri mediatore) le conquiste
socializzatrici e repubblicane alle forze moderate della sinistra ciellenista,
affinché gli occupanti anglo-americani avessero trovato un fatto compiuto e
qualcosa di quelle conquiste e innovazioni sociali si fosse potuto mantenere in
futuro. Ma questa è un altra storia e del resto tutto questo si era ben presto
vanificato di fronte all'ostracismo ed alla volontà distruttiva degli
antifascisti, rispetto alla repubblica di Mussolini.
Come abbiamo accennato la strategia di Mussolini, in quelle ultime ore,
precipitata per l'improvvisa resa trattata di nascosto dai tedeschi, era quella
del "ripiegamento", cercare cioè di spostarsi il più a Nord possibile con un
simulacro di governo, almeno nominalmente e formalmente in funzione ed un minimo
di fascisti ancora, sia pure più che altro simbolicamente, in armi, in modo da
affrontare con gli Alleati, anche forte delle sue preziosissime carte di enorme
incidenza internazionale, gli eventi finali di una guerra inevitabilmente
perduta. La resa sarebbe stata l'ultima ratio ed in dipendenza sempre del
comportamento dell'alleato germanico.
Non solo una resa a discrezione alla Resistenza non era nelle sue intenzioni, ma
oltretutto e svariati riscontri ce lo confermano, anche in questo caso egli
avrebbe evitato a qualunque costo di intraprendere qualsivoglia trattative in
questo senso, se non dopo o assieme ai tedeschi.
Quella che si doveva configurare come una trattativa per un passaggio indolore
dei poteri, tra la RSI e la Resistenza, mediatrice la curia dell'infido
cardinale Schuster, che ne avrebbe fatto da garante, era un qualcosa di ben
diverso da una trattativa di resa vera e propria come vollero imporre i delegati
del CLNAI in quell'incontro.
Scrisse giustamente Pino Romualdi che Mussolini pensava di dover discutere, in
quella sede, un calmo passaggio dei poteri, non di trattare i particolari,
ammesso che potesse trattare almeno quelli, di una resa a discrezione. Di un
ordinato passaggio dei poteri non si parlò neppure, ma solo di darsi, mani e
piedi legati agli avversari.
In definitiva, arrivati al 25 aprile, sotto l'incalzare degli eventi, a
Mussolini non rimaneva che il ripiegamento, ma affinché questo ripiegamento
potesse realizzarsi nel massimo ordine e senza un oramai inutile spargimento di
sangue, era opportuna una garanzia di una autorità, del prestigio di una entità
superiore a tutti che fosse in grado di mediare tra le parti in lotta e
convincerle ad un trapasso indolore dei poteri. Fu per questo che, tra le varie
trattative in atto, Mussolini alla fine preferì accettare quella che era stata
la proposta dell'industriale Gian Riccardo Cella, il quale avvalendosi
dell'ingegner Gaetano Bruni, intermediario con il CLN e la Curia, proponeva un
incontro con il CLN, sotto la mediazione del cardinale Schuster
E veniamo allora a vedere cosa accadde in quella riunione all'Arcivescovado.
25 aprile 1945:
l'incontro in Arcivescovado
Verso le ore 17, salito a bordo della sua Alfa Romeo (e non di una fantomatica
"Limousine" della curia), guidata dall'autista Giuseppe Cesarotti, Mussolini si
recò allo storico incontro con i capi della resistenza, sotto la mediazione del
cardinale Schuster.
Sono in macchina con lui Cesare Maria Barracu colonnello sottosegretario alla
Presidenza del Consiglio e il prefetto Mario Bassi Capo della Provincia di
Milano, oltre all'attendente del Duce Pietro Carradori. Alcune fonti affermano
che entrò in macchina anche il tenente Fritz Birzer capo della scorta tedesca
del Duce, ma la cosa è improbabile, tanto che questa figura la ritroveremo poi
nel cortile della Prefettura al ritorno del Duce.
Su un altra macchina, partita pochi minuti dopo, c'erano invece Paolo Zerbino
ministro degli interni, e l'industriale Gian Riccardo Cella, ma anche qui
qualcuno afferma che Zerbino era già anche lui nella macchina con il Duce.
Sottigliezze.
Sono comunque tutti in borghese tranne il Duce che porta la sua solita divisa.
Il maresciallo Rodolfo Graziani, ministro delle Forze Armate arrivò per conto
suo ancora un poco più tardi a bordo di una macchina scoperta, scortata da
quattro tedeschi che poi non è certo se rimasero nei pressi dell'ingresso del
palazzo ubicato in piazza Fontana.
Visto che i fascisti sono arrivati prima, si intrattengono nel frattempo in
anticamera colloqui di varia natura con l'ambiente della Curia tra cui monsignor
Giuseppe Bicchierai, monsignor Eclesio Terraneo, ecc., mentre il Duce si apparta
con il cardinale Idelfonso Schuster il quale lascerà poi alcuni melliflui
ricordi di quel colloquio di cui non c'è da fidarsi troppo circa la loro
attendibilità.
Certo è che il Cardinale pregava Mussolini affinchè accettasse una
capitolazione, magari anche una sua consegna ed è significativo che il Duce
considerasse finita la RSI ed esprimesse il desiderio di ritirarsi in Valtellina
con i fascisti che avessero voluto seguirlo.
Storica rimase anche un ultima battuta di Mussolini, in risposta al Cardinale
che gli parlava della Storia e del suo giudizio:
«Ella mi parla della Storia. Io credo solo alla storia antica, quella cioè che
viene redatta senza passione e tanto tempo dopo».
Queste, chiamiamole confidenze, tra il Duce e il Cardinale, si chiusero con il
regalo del Cardinale che consegnò al Duce un suo libro su la "Storia di San
Benedetto".
Giunsero alfine, da una entrata secondaria del palazzo, i delegati della
Resistenza Raffaele Cadorna, comandante del CVL, l'avvocato Achille Marazza
esponente della Democrazia Cristiana nel CLNAI, Riccardo Lombardi del partito
d'Azione e già prefigurato Prefetto di Milano.
Riportare la cronaca esatta di quell'incontro è pressoché impossibile visto che
le testimonianze in proposito divergono non solo su aspetti di una certa
importanza, ma anche su particolari insignificanti.
Certo è che, cambiando le carte in tavola rispetto alle premesse che avevano
portato all'incontro, i delegati del CLN, consenziente il Cardinale, chiedevano
di fatto la resa dei fascisti determinando immediatamente l'impasse per
eventuali trattative.
È utile comunque sottolineare che, ad un dato momento, don Bicchierai si lasciò
sfuggire, forse con il nascosto fine di ammorbidire le posizioni dei fascisti,
che i tedeschi stavano già trattando per conto loro con la Curia una loro resa.
L'effetto di quella rivelazione però fu contrario, perchè una volta che il
Cardinale fu invitato a leggere alcuni particolari di quelle trattative, i
fascisti e soprattutto Mussolini ebbero una reazione indignata ed istintiva che
pose fine ad ogni ulteriore discussione.
Invitato quindi il 25 aprile pomeriggio in Arcivescovado per trattare quello che
gli hanno fatto credere un possibile ed incruento passaggio dei poteri Mussolini
si era trovato invece di fronte ad una richiesta di resa con tanto di sua
consegna al nemico, questo infatti era il mandato con il quale i tre
rappresentanti della resistenza erano venuti all'incontro.
I rappresentanti della RSI restano tutti spiazzati e sorpresi, compreso il
maresciallo Graziani, che pur era suo intendimento chiudere al più presto quella
pagina di storia, ma non con una resa unilaterale e oltretutto non all'insaputa
dei tedeschi.
Graziani, infatti, poco prima dall'Arcivescovado aveva scritto un biglietto alla
moglie Ines, con queste parole:
«Scrivo qui dall'Arcivescovado, dove mi trovo con il Duce presso il Cardinale.
Si stanno trattando questioni di eccezionale importanza, alle quali non è
estranea l'azione decisa da me svolta su Mussolini in questi giorni. (...) Forse
è vicino il momento che un raggio di sole possa risplendere finalmente sulle
tenebre che ci hanno avvolto in questo tremendo periodo».
Ed è proprio la presenza di Graziani, non solo ministro militare del Governo
repubblicano, ma anche Comandante dell'Armata "Liguria", a sua volta dipendente
dal Comando Superiore Germanico, che smentisce ogni intenzione di resa da parte
di Mussolini. Nel caso di una resa tedesca infatti, si doveva arrendere anche
Graziani, ma una resa di Graziani, di nascosto dei tedeschi, sarebbe stata non
solo infamante, ma anche impossibile.
Ed anche il fatto che in Curia sia stata resa nota una segreta trattativa di
resa dei tedeschi, non cambia le cose e non autorizzava i fascisti a procedere
per conto loro.
In sostanza, non solo la strategia mussoliniana prima accennata, esclude
assolutamente una sua qualsiasi intenzione di resa al CLN, ma è ulteriormente
ridicolo pensare che Mussolini avrebbe potuto arrendersi a questi cosiddetti
capi della Resistenza che, nonostante una certa agiografia resistenziale, a
posteriori, abbia voluto ingigantire nelle loro reali consistenze, erano ben
poca cosa (in Arcivescovado, a Cadorna che minacciava di avere 50.000 uomini
armati, Graziani battendo il pugno sul tavolo rispose: «tu hai 50.000 c...!»).
Mussolini quindi sapeva perfettamente che questi "capi" (tra l'altro tutti
individuati nei giorni precedenti dalla polizia fascista nei loro nascondigli,
ma da lui lasciati indisturbati sotto le tonache dei preti), poco o nulla
contavano ed il loro seguito in quel momento era ancora militarmente scarso
(alcune discrete divisioni partigiane erano ancora lontane) e comunque inferiore
al sia pur esiguo potenziale militare dei fascisti ancora in armi.
Mussolini e gli altri capi della RSI non erano degli ingenui o dei pazzi, e
certamente non avrebbero mai contrattato una resa con questo effimero CLN che,
oltretutto, visto che la sua sola e reale consistenza militare clandestina era
quella comunista, neppure poteva garantire l'esecuzione degli accordi e la
sicurezza di chi si sarebbe arreso.
È normale quindi che Mussolini, di fronte ad una richiesta unilaterale di resa,
ne esce infuriato e spiazzato dalla informativa, appresa in quella sede, sugli
accordi segreti per una imminente resa tedesca che renderebbe problematico lo
sganciamento finale dei fascisti.
In Curia lascia detto che farà sapere le sue decisioni e se ne va tornado in
prefettura a Corso Monforte. Scriverà Graziani:
«Egli dominò la riunione dal primo all'ultimo momento, quando si alzò di scatto
per uscire, come se fosse stato in una delle tante riunioni di Palazzo Venezia».
Famose resteranno le parole del Duce, riferite ai tedeschi:
«Ci hanno sempre trattato da servi, ora ci pugnalano alle spalle».
Testimonierà Pietro Carradori, il suo attendente, che si trovava in quei
frangenti nei pressi del Duce:
«(Venuto a conoscenza della imminente resa tedesca) ... Mussolini si mostrò non
soltanto sorpreso, ma palesemente indignato, e dopo momenti di pesante tensione
e di un silenzio che si poteva tagliare a fette, annunciò al Cardinale la sua
decisione: "Alle otto di stasera lasceremo Milano. Non voglio che per causa mia
sia sparso altro sangue"».
Una indiretta ed ulteriore conferma, di come stanno esattamente le cose,
oltretutto, l'abbiamo dal successivo ed immediato comportamento del Duce, venuto
via dall'Arcivescovado, quando si scagliò violentemente contro l'industriale e
factotum Gian Riccardo Cella che aveva svolto la prassi mediatrice proprio per
realizzare l'incontro dal cardinale Schuster.
Lo accusò e con lui la Curia e i cosiddetti capi della resistenza, di volerlo
fare arrendere ed ingabbiare quella sera stessa in città. Ma in quelle ore si
scagliò anche contro i tedeschi rei di aver intrapreso trattative di resa
all'insaputa degli italiani, mettendo in crisi tutte le strategie militari della
repubblica.
Non mancò neppure di accennare ad un imminente e peggior 25 luglio, riferendosi
evidentemente a quanto aveva ben percepito in quelle ore, ovvero che le
Istituzioni e varie strutture della repubblica stavano oramai defilandosi per
passare armi e bagagli dalla parte dei vincitori (Guardia di Finanza in testa).
Un atteggiamento, quindi, quello di Mussolini, che indica chiaramente che lo
stesso si era recato a quella riunione con ben altri intenti di quelli di voler
trattare una resa.
Sono poi tutte leggende quelle che, per esempio, dicono che fu Sandro Pertini,
oltretutto giunto in Arcivescovado quando Mussolini se ne stava andando, che
fece saltare le presunte «intenzioni di arrendersi di Mussolini»; è questo un
equivoco, malevolo e voluto, che si gioca tutto su la differenza, che sembra
piccola, ma è profonda, tra un "trapasso dei poteri" ed una "resa al nemico".
Era accaduto, infatti, che uscito Mussolini, arrivò in Arcivescovado un
irascibile Pertini, alquanto infuriato:
«Dove sono andati? Dov'è Mussolini? Perchè lo avete lasciato andar via?
Bisognava trattenerlo, prenderlo». Tutta una sceneggiata che però da il senso di
quanto si vorrebbe fare con il Duce. Sarà il prefetto Carlo Tiengo, un ex
ministro legato alla massoneria, che poco dopo avvertirà Mussolini delle
intenzioni omicide nei suoi confronti. La presenza del Tiengo, comunque, pone
grossi interrogativi sul ruolo giocato dalla massoneria in quei frangenti.
Giornalisti che non hanno il senso del limite sono anche arrivati a sostenere
tesi che davano per scontato il fatto che Mussolini e Wolff, ciascuno per conto
suo, stavano cercando di trattare una resa all'insaputa dell'altro. Quando, non
solo è evidente e comprovato, che Mussolini non avrebbe mai ripetuto un "8
settembre", ma altresì, pur volendolo fare, non avrebbe avuto alcuna possibilità
di agire, in questo senso, di nascosto dai tedeschi ed oltretutto si recò in
Arcivescovado dietro la loro attenta presenza e osservazione.
Tra le tante interpretazioni di quell'incontro e le tante sue ricostruzioni,
tutte difformi una dall'altra, colui che forse colse in pieno la realtà delle
cose è stato l'avvocato Alessandro Zanella che nel suo "L'ora di Dongo", Rusconi
1993, ebbe a scrivere:
«[Mussolini] ... non vuole salvarsi sotto le sottane di Schuster, così come teme
di finire rinchiuso nella torre di Londra o al Madison Square Garden, zimbello
dei nuovi potenti del mondo. Evita anche una edizione italiana del processo di
Norimberga, come dirà anche Churchill,... perchè vuole ad ogni costo che la sua
vicenda politica ed umana vada a concludersi con il rispetto che merita e non in
un circo con la folla vociante e impazzita dall'odio».
La partenza di Mussolini da Milano
A Milano nel frattempo si stavano manifestando, un po' dappertutto, i soliti
sintomi di squagliamento tipici di queste situazioni. Ci sono militi e addetti a
funzioni di natura militare o di polizia che non tornano nei reparti di
appartenenza, vari funzionari e impiegati negli uffici governativi che
preferiscono non presentarsi al lavoro, e così via.
Del resto era noto che il capo della Polizia Renzo Montagna, interpretando a
modo suo le disposizioni del Duce circa l'uso dell'applicazione di una certa
clemenza, era venuto a mettere l'uniforme della polizia repubblicana a individui
di ogni provenienza e perfino a partigiani.
Il generale Filippo Diamanti, comandante militare regionale per la Lombardia, fu
sentito affermare che «era tempo di togliersi i gladi e di rimettersi le regie
stellette».
Ricorda il federale di Milano Vincenzo Costa:
«... appena Mussolini si diresse verso l'Arcivescovado, io tornai in piazza San
Sepolcro. Notai che la circolazione tranviaria era completamente arrestata. Una
calma apparente gravava sul centro cittadino. In Galleria, padre Eusebio stava
parlando a qualche centinaia di fascisti, che lo ascoltavano silenziosi con le
armi al fianco... Alle 16, improvvisamente, incominciarono a suonare le sirene
di tutti gli stabilimenti e del dispositivo antiaereo. Intuimmo subito che quel
segnale annunciava l'insurrezione antifascista. Ma i partigiani non apparivano».
Insomma si stava creando in città un clima surreale, ma esclusa qualche
revolverata in periferia o nei pressi di qualche stabilimento industriale,
questa storica insurrezione del 25 aprile, nessuno l'ha vista. Le sorti della
Repubblica in ogni caso erano, di fatto, legate a quelle della guerra e, come
disse, Spampanato, improvvisamente non si ebbero più notizie proprio della
guerra, mentre nessun piano era stato predisposto per queste emergenze.
Racconta il questore Secondo Larice:
«Poco prima di mezzogiorno si era cominciato a parlare di una probabile
partenza, ma nulla sembrava deciso non essendo pervenute le notizie che si
attendevano dalla Valtellina, dal generale Onori».
Fernando Feliciani, già vice comandante della GIL, ora alla Divisione Italia,
come capitano dei bersaglieri, amicissimo del ministro Mezzasoma, racconterà:
«Mi incontrai con Mezzasoma alle 12 circa, dopo che alla sede del partito (in
via Mozart) avevo riscontrato confusione e disorientamento (...) Mezzasoma (che
era sereno, pur non nascondendo la drammaticità del momento) mi comunicò che nel
pomeriggio tutti i membri del governo si sarebbero ritrovati in Prefettura per
poi trasferirsi a Como».
Mussolini che come si vede dalla testimonianza di Feliciani aveva deciso di
lasciare Milano prima ancora di recarsi d Schuster, tornato in Prefettura a
Corso Monforte, dopo l'incontro all'Arcivescovado, decide quindi di lasciare
Milano a sera intorno alle 20, in coerenza con la sua intenzione di
decruentizzare la fase finale della guerra e per avere ancora mano libera nel da
farsi visto che ora, i tedeschi con la loro intenzione di firmare una resa,
trattata unilaterale e di nascosto, lo dovranno giocoforza liberare moralmente.
Giustamente osserva il Viganò, a Mussolini l'unica cosa che restasse da fare era
quella di togliere alla Resistenza il "nemico", uscendo da Milano. E questo in
contrasto con coloro, Graziani e Borghese in testa, che preferirebbero
arroccarsi, magari nel castello Sforzesco, per attendere gli Alleati e salvare
la pelle e qualcuno forse spera, almeno in parte, le proprie posizioni
personali.
L'uscita di Mussolini da Milano, quindi, con i rischi e le incertezze che
comporta, contro il parere di molti seguaci e personalità ivi presenti, smonta
totalmente qualsiasi ipotesi che egli in quel momento già voleva arrendersi agli
Alleati, come invece era nei desiderata di molti.
Per Mussolini, se resa ci dovrà essere, essa dovrà avvenire a certe condizioni,
a tempo debito e facendo anche pesare le importanti documentazioni in suo
possesso.
Ricostruire quindi attentamente quei concitati momenti, in modo da rendere
l'idea di quanto effettivamente accadde e smentire tutti quegli ex fascisti che
con evidente intento di alleggerire le loro responsabilità circa una successiva
mancata protezione del Duce, rilasciarono racconti per i quali veniva quanto
mento resa incomprensibile e ambigua la condotta di Mussolini.
Intanto al rientro in Prefettura, reduci dall'incontro in Arcivescovado,
l'industriale Cella gli domanda se devono rientrare da via Mozart, e il Duce
quasi gli urla: «Si entri dalla porta grande!».
Poco dopo, racconterà Graziani, che intanto aveva persuaso Mussolini a non
parlare alla radio, come questi aveva minacciato in Arcivescovado, per
denunciare il comportamento dei tedeschi, il Duce ebbe un altro scatto d'ira con
il comandante tedesco di piazza, Wening.
Con una ricostruzione frutto del vaglio di decine di testimonianze e
pubblicazioni in proposito, Scriverà A. Zanella ("L'ora di Dongo", Rusconi
1993):
«Mussolini scende, pallido come la morte, il viso contratto, le labbra affilate,
stringe in una mano la busta con il libro di Schuster. Tutti scattano
sull'attenti, applaudono, non risponde. Sosta, chiama forte due ufficiali
tedeschi della scorta. Parla con loro concitato, scandendo le parole in tedesco.
È il momento fissato forse nella foto più famosa di quel giorno (qui sotto,
l'ultima con Mussolini in vita - N.d.R.), nella quale si vede Birzer preoccupato
a fianco del Duce che lo sta investendo con una serie di accuse.
Ai piedi della scala incontra Asvero Gravelli (sotto capo di Stato maggiore
della Guardia, N.D.) e gli dice impetuosamente: "Sapete cosa mi ha detto il
Cardinale? Pentitevi dei vostri peccati! E sapete perchè? Perchè non l'ho
aiutato a diventare Papa!" È amaro, Gravelli chiede ordini. "Voi mi
raggiungerete dopodomani a Como. La Guardia deve fare servizio di sicurezza in
unione ai reparti del CLN. Mettetevi subito in contatto con l'Arcivescovado" gli
dice e ponendo una mano sulla spalla di quel gregario che lo ha seguito per
tanti anni: "Dopodomani a Como" aggiunge guardandolo ben fisso e con irruenza
rabbiosa si avvia per le scale ..."
Gli va incontro il guardasigilli: "Pisenti, siamo stati traditi dai tedeschi e
dagli italiani", lo apostrofa. È eccitatissimo, il disgusto gli si legge in
viso. "Era fuori di sè" dirà il figlio Vittorio.
Renzo Montagna (generale, capo della Polizia - N.d.R.) lo vede arrivare come un
turbine...
"Gli andai incontro e mi accorsi che era incredibilmente eccitato, addirittura
sconvolto, Più che parlare gridava: "Sono dei criminali, degli assassini! Non è
possibile trattare con loro"...
Mussolini grida anche: "Siamo stati traditi da tutti. Non c'è da fidarsi di
quella gente. Sospendete anche le vostre trattative". Tutti i ministri e i
gerarchi gli si fanno incontro. Tutti vogliono dire qualcosa. Ci sono Pisenti,
Montagna, Tarchi, Mezzasoma, Liverani, Zerbino, Barracu, Bassi e Cella. Chiamati
espressamente arrivano anche Graziani e Pavolini. La porta viene chiusa.
"Intanto" scrive Secondo Larice (questore, tenente colonnello della Forestale -
N.d.R.) "si diramano ordini urgentissimi tra cui quello di far venire subito un
reparto della "Muti" con carri armati al comando del tenente Rovetta e lo stesso
comandante Colombo, per scortare la colonna.
Si telefona a Como al prefetto Celio, al federale Porta, al questore. Tutti i
ministri, il seguito e molti altri si preparano a partire. L'unica persona
tranquilla che avevo notato in anticamera era stato Nicola Bombacci ...".
Nel grande studio di Mussolini si è sui carboni ardenti. La frase di Mussolini
rompe il silenzio: "Bisogna agire, qui vogliono fare un altro 25 luglio. Mi
vogliono arrestare. Siamo caduti in un tranello. Ma questa volta non mi
avranno"...
Quando si accorge che Cella lo ha seguito fin nel suo studio diviene furioso e
lo aggredisce: "Mi avete ingannato, mi avete condotto dove mi è stata richiesta
la resa senza condizioni. Ora Cella me ne risponderete con la vostra vita".
La confusione, riferisce Montagna, si fa "indescrivibile, tutti gridano hanno
progetti da proporre e suggerimenti da dare. E quando Mussolini all'improvviso
annuncia che vuole partire, ricorrono ad ogni possibile argomento per
convincerlo a restare a Milano".
Graziani è contrario allo spostamento del governo. Sono d'accordo con lui i
generali che non intendono muoversi da Milano. Buffarini e Tarchi sono decisi a
passare in Svizzera.
Pavolini propone di finirla con una bella morte in Valtellina e con quest'ultimo
altri.
La discussione dura parecchio con un Graziani sempre più inferocito. Ma il Duce
non cambia minimamente parere. Mussolini a Milano non vuole restare. Prevede
delle stragi e dice: "Non voglio che per causa mia sia sparso del sangue".
Dopo qualche minuto ricompare Graziani che dice: "Gli americani hanno passato
l'Adige. I tedeschi sono irrimediabilmente sconfitti e le avanguardie nemiche
possono arrivare a Milano da un ora all'altra".
"Bisogna andare, bisogna andare a Como. La notte la passo a Como" dice il Duce a
Mario Bassi (capo della Provincia di Milano - N.d.R.) ...».
L'attendente del Duce Carradori, racconterà questo significativo aneddoto:
«Rientrai in Prefettura, ci fu la nota sfuriata di Mussolini al tenente Birzer,
che gli scodinzolava attorno. Quindi si chiusero tutti nel suo ufficio. Graziani
non voleva saperne di lasciare Milano e insisteva sulla necessità di trincerarsi
tutti all'interno del Castello Sforzesco, che egli riteneva facilmente
difendibile, e qui attendere gli anglo americani. Ma Mussolini al solo nominare
gli inglesi, andò su tutte le furie, facendo capire che mai e poi mai si sarebbe
consegnato nelle loro mani. Ben presto la decisione di lasciare Milano alle ore
20 fu ufficializzata e comunicata a tutti gli uffici competenti».
Il federale di Milano Vincenzo Costa racconterà che Mussolini prima di partire
disse chiaramente che scioglieva i fascisti dal giuramento, e la notizia creò un
grosso disorientamento.
Questa informazione però, così come riferita dal Costa, lascia alquanto
interdetti perchè è in contrasto con gli ordini che poi ebbe Pavolini per
radunare tutti i fascisti e portarli l'indomani mattina a Como e nasce forse da
un equivoco, ma verificatosi il pomeriggio del giorno dopo al ritorno di
Pavolini da Menaggio, non la sera del 25 aprile come dice Costa.
Come vedremo, infatti, probabilmente tutta la faccenda si gioca sull'equivoco di
uno "scioglimento dal giuramento" non inteso come un separarsi delle posizioni
tra i fascisti, Mussolini e la RSI, ma come un invito di Mussolini a contare
solo sui fascisti fedeli, disposti a seguirlo, senza alcuna imposizione a
ottemperare ad un giuramento.
Ancora Feliciani ricorderà:
«Mezzasoma alla fine mi raggiunse dicendo: "Partiamo, il Duce si è deciso,
cercavano di farlo restare, ma si è convinto che trasferirsi a Como è la cosa
migliore, del resto rimaniamo in territorio italiano».
Anche Larice ricorda:
«Bombacci con una valigetta di levatrice, mi saluta: "Dove va lui, vado io".
Approfitto di un attimo che ha meno gente attorno e prendendo il coraggio a due
mani, gli dico: "Duce, partite?! Non lasciate Milano ...". Si volta di scatto,
mi risponde: "Anche tu raggiungerai Como, pre campo".
Mentre nel cortile della Prefettura sono già pronte le autovetture per la
partenza, si moltiplicano le invocazioni di restare in città, alcuni piangono,
altri come Carlo Borsani, l'eroico cieco di guerra, lo implorano, qualcuno
vorrebbe trattenerlo con la forza.
Il Duce è però irremovibile, si congeda ripetendo a Bassi:
"Dovete tutti venire a Como, resta solo Pisenti (ministro di Grazia e Giustizia
- N.D.), ci potrebbe essere qualcosa da fare". E l'altro: «per il generale della
Polizia, per il generale Montagna quali ordini?". "Ditegli che lo aspetto domani
mattina a Como".
Sale in macchina con Nicola Bombacci e parte, davanti l'autista Salvati e dietro
Carradori di scorta».
Intorno alle 20,30 don Bicchierai, deluso dal precedente incontro in
Arcivescovado, telefona in Prefettura per avere una risposta alla intenzioni di
Mussolini, È il prefetto Mario Bassi che risponde e comunica che Mussolini è
partito.
Sarà solo alle 4 del mattino, mentre i fascisti cominceranno a lasciare Milano,
che la Guardia di Finanza, finalmente passata armi e bagagli al CLNAI, penetrerà
nei cortili della Prefettura e ne prenderà possesso.
La ricostruzione delle giornate di Milano attesta chiaramente che Mussolini ha
da tempo previsto il progressivo ripiegamento del governo verso le zone della
guerra che solo più tardi saranno raggiunte dalle forze Alleate. Una meta finale
dovrebbe essere la Valtellina, in cui da tempo si cercava di predisporre misure
ed accorgimenti militari per farne un ridotto ad estrema difesa, ma che invece
in pratica ben poco si era fatto in questo senso. Ed anche di questo ce se ne
rese conto solo all'ultimo momento.
Il precipitare della situazione, con gli americani arrivati a Bologna, i
sensibili sintomi di sfaldamento e l'inizio del defilarsi degli uomini delle
Istituzioni in Milano, il fallimento di una trattativa con la Resistenza per
realizzare un trapasso indolore dei poteri e quindi un ripiegamento ordinato ed
incruento, a cui si aggiunge la notizia ricevuta di una imminente resa tedesca
trattata di nascosto, inducono Mussolini a predisporre decisioni affrettate sul
momento e sotto l'agitazione per le vicende dell'incontro in Arcivescovado.
È evidente che il ripiegamento di Mussolini, oltre a voler evitare fatti di
sangue in Milano, è finalizzato a gestire le possibilità di una futura ed
imminente resa con gli Alleati solo a tempo debito e a certe condizioni: l'arma
che il Duce ha nelle borse è il compromettente Carteggio con Churchill ed altri
delicati incartamenti. Il governo al seguito e i fascisti ancora in armi dietro
a lui gli sono necessari per l'attuazione della sua strategia minimale che non
deve comunque contemplare, per una questione d'onore, una eventuale sua fuga
all'estero.
Quel che si potrà fare, evidentemente, pensa di risolverlo sul momento, di ora
in ora.
Il governo arriva a Como
Mussolini arriva a Como (destinazione, in un ottica di ritiro progressivo, a
grandi linee già da tempo decisa) sembra poco dopo le 21 del 25 aprile entrando
da Camerlata.
Sulla piazza c'è ad attendere il Duce Plinio Butti, comandante del secondo
battaglione della BN (Brigata Nera) Cesare Rodini di Como, che li accompagnerà
fino alla prefettura di via Volta.
A Como dovrebbe ancora trovare le Istituzioni della RSI, ma viceversa trova un
ambiente che con il prefetto Renato Celio in prima fila (non è ancora neppure
ben chiaro se il Celio si fece trovare all'arrivo del Duce oppure sopraggiunse
poco dopo) sta da tempo discretamente trattando con il CLN l'uscita indolore
dalle cariche pubbliche.
Più tardi, infatti, una volta partito Mussolini, il prefetto si defilerà sempre
di più con il passare delle ore, fino a lasciare la sua poltrona a quelli del
CLN. Finito tutto lo nasconderanno in un istituto religioso fuori Como, prima
che i partigiani lo scoprano e lo mettano in carcere.
Quello che di più organizzato il Duce trova in Como si rivelerà l'indaffarata
moglie del Celio che si prodigherà verso le 23 per allestire una frugale cena.
Il Duce appena arrivato farà convocare le autorità civili e militari del luogo.
Quindi arrivano il federale Paolo Porta ispettore dei fasci per la Lombardia e
federale di Como, il questore Lorenzo Pozzoli, il comandante provinciale della
GNR di Como, colonnello Giuseppe Fossa.
Cerca di informarsi sulla situazione in città e il questore Pozzoli, tra l'altro
colonnello e console della Milizia, gli fa notare che è poco sicura. Si saprà
poi che il Pozzoli già da tempo stava trattando i particolari per una resa con
il comandante partigiano colonnello Gualandi.
Lo confermerà lo stesso questore nel suo memoriale redatto in carcere, dove dirà
esplicitamente che già dal 24 aprile aveva iniziato le trattative per la
consegna della città di Como e il 25 appunto stava completando gli accordi per
la cessione delle varie caserme della GNR, essendo in trattative con la
federazione fascista per la consegna della armi della Brigata Nera.
Sennonché una telefonata da Milano lo aveva avvertito dell'arrivo di Mussolini e
dei suoi ministri scombinandogli i suoi piani.
Quando era arrivato Mussolini a Como il questore era nel suo appartamento in
compagnia di due componenti del CLN: Lorenzo Spallino, democristiano e Virginio
Bertinelli socialista per trattare la resa della questura e del corpo degli
Agenti Ausiliari di Como.
Anche il vice questore, dottor Domenico Pannoli, già dal pomeriggio del giorno
precedente si era incontrato con Raffaele Pinto, designato comandante della
piazza di Como, per trattare un trapasso dei poteri.
Naturale quindi che il questore faccia notare al Duce che grosse forze
partigiane (in realtà inesistenti) erano alle porte della città pronte a
calarvi: il consiglio è ovviamente quello di andarsene al più presto. Dicesi che
il suo operato era finalizzato ad evitare la guerra civile in Como e che prese
anche sulle sue spalle molte responsabilità, ma resta il fatto che questo suo
atteggiamento risulterà fatale per le decisioni che Mussolini dovrà prendere.
Anche il comandante della piazza, colonnello Ferdinando Vanini fa presente che
non ha forze disponibili per tenere la città noto centro ospedaliero.
Il prefetto Celio ovviamente non manca di sottolineare che il CLN preme per
insediarsi in Prefettura.
Si diffondono, quindi, in un clima di allarmismo continuo, ogni genere di
notizie pessimiste comprese quelle di pervenute minacce di imminenti
bombardamenti Alleati.
Il federale di Como Paolo Porta, che detto per inciso, da profondo conoscitore
della zona e dei varchi di montagna, avrebbe ben potuto squagliarsela è invece
lì con il Duce e cerca di sostenere la situazione, forte delle sue migliaia di
camice nere viene preso per visionario.
Non saranno certamente migliaia, anzi erano molti meno, ma erano più che
sufficienti, tanto più con un minimo di appoggio dalle strutture della
repubblica, per tenere la situazione e garantire la permanenza del governo fino
all'arrivo della colonna di fascisti da Milano prevista per l'indomani mattina.
Porta non condivide l'idea del ridotto Valtellinese e preferirebbe difendersi
dentro Como.
Il questore Pozzoli fa invece presente, sibillinamente, che uomini della brigata
di Porta avevano già deposto le armi e per ordine suo si erano inquadrati. Paolo
Porta gli risponde che provvederà lui stesso a rintracciarli, ma non consegnerà
mai la sua città ai partigiani, dice: «Con la forza attualmente in città
possiamo resistere e occupare tutti gli ingressi di Como e tenere sgombra tutta
la fascia del lago dalla parte occidentale fino a Menaggio-Porlezza».
Ma il Pozzoli imperterrito ribatte a Mussolini che lo interroga con lo sguardo:
«Duce la vostra permanenza in Como non è possibile». E aggiunge ancora il
questore: «... andai immediatamente in Questura dove, nel mio appartamento
privato, vi erano già i componenti del Comitato di Liberazione per comunicare e
a loro e per prendere accordi sul da farsi... riuscii a parlare per telefono con
i ministri Liverani e Tarchi, che venivano immediatamente da me; a loro esponevo
la situazione di Como e le trattative già fatte. I due ministri hanno
perfettamente capito, sono ritornati in Prefettura e hanno conferito con il
Duce».
È oramai evidente che in Prefettura ci sono persone che stanno lavorando per
defilarsi dalla repubblica e con il loro operato contribuiscono a creare un
clima di incertezza e di insicurezza.
Il consiglio generale è andare via da Como che non è sicura. Mussolini,
considerato oramai condannato, è un fastidio in più, come scriverà A. Zanella: a
Como al Palazzo del Governo operava oramai l'interregno tra RSI e CLN, Mussolini
è un ostacolo alla fuga e un rinvio forse cruento alla pace (vedi: "L'ora di
Dongo", Rusconi 1993). Non per nulla l'usciere di servizio nell'anticamera aveva
già ricevuto l'ordine di mandare coloro che si presentavano in Prefettura dal
dottor Manlio Fulvio e non dal prefetto Celio.
Scriverà il giornalista, allora al "Corriere", Pietro Caporilli: «Mussolini fu
letteralmente bombardato dall'allarmismo che, alleato della paura, non poteva
generare niente di buono in una situazione già di per sè stesa drammatica. (...)
Balle tutte balle, che ebbero purtroppo il loro funesto effetto su uomini i cui
nervi, sottoposti all'incalzare degli eventi ad uno sforzo sovrumano, non
reggevano più».
Mussolini, dirà il questore Pozzoli, quando seppe dai ministri Liverani e Tarchi
da lui addotti su come stavano le cose (secondo lui ovviamente), prese a
passeggiare nervosamente nel corridoi urlando e imprecando contro tutti. Un
testimone, invece, che si trovava nei corridoi della Prefettura, dice che il
Duce è sereno, non spaventato per nulla, ma ovviamente i due momenti potrebbero
essere temporalmente diversi.
Quella serata, in ogni caso, il Duce lo vedono parlare con la vedova di suo
figlio Bruno, la Gina Ruberti che è venuta a salutarlo con alcuni parenti. Anni
dopo, riferirà un inattendibile tenente Fritz Birzer, comandante della sua
scorta, che vide il Duce parlare con la moglie, ma il suo ricordo, come tante
altre sue attestazioni, è privo di fondamento, forse ha confuso la Ruberti o
qualche altra signora con donna Rachele. Alla moglie di Zerbino Mussolini dice:
«Vedo che avete voluto seguire vostro marito fino in fondo».
Ad un gruppetto di persone dice: «Non è tutto finito. Non è ancora detta
l'ultima parola».
È ovvio che con il passare delle ore e gli incontri che si susseguono, Mussolini
annusa nell'aria un "nuovo 25 luglio", e in poche ore gli si ripete a Como, ma
in peggio per la mancanza di adeguate forze militari, la stessa situazione di
Milano.
Un secondo 25 luglio: in effetti molti di coloro che ricoprivano certe cariche
nelle strutture della repubblica, erano in servizio perché, semplicemente, a suo
tempo si erano trovati da "questa parte" della barricata e molti non si erano
defilati, spesso perché c'era pur sempre un impiego sicuro. Altri, come abbiamo
già accennato, erano stati chiamati da Mussolini a ricoprire certe cariche
semplicemente per esigenze di Stato, per riorganizzare le strutture
istituzionali e un esercito senza il quale era impossibile uscir fuori dalle
conseguenze del tradimento badogliano.
Ma erano tutte persone e personalità, che tranne un generico aver aderito alla
RSI «per l'onore dell'Italia», non potevano certo definirsi fascisti
repubblicani, anzi tutt'altro; spesso c'erano anche elementi conservatori,
moderati, preoccupati di un estendersi delle forze comuniste in Italia.
E tutti costoro già da tempo si erano prospettati il problema del "dopo" di come
riciclarsi nel dopoguerra.
E molti trovarono la soluzione nel defilarsi contrattando personalmente una
consegna discreta e indolore dei loro poteri alle future autorità cielleniste,
mentre altri, quelli più politicizzati, avevano la segreta speranza di
riciclarsi come anticomunisti nel caso che tra Alleati e sovietici si fosse
verificata, a guerra finita, una spaccatura.
Per alcuni, certi "contatti", certi ammiccamenti, con il CLN e/o con l'OSS
americano, è oggi provato, erano cominciati ben prima del 25 aprile.
Nell'imminenza del crollo, però, tutto venne accelerato e divenne palese.
Ma torniamo a Como, dove nel frattempo è arrivata anche Clara Petacci con il
fratello Marcello e la sua convivente Zita Ritossa con i loro due figli (Clara
viene alloggiata da Vito Casalinuovo all'albergo Firenze).
Basterebbe far passare la notte, perchè la colonna di fascisti che partirà a
scaglioni circa dalle 4 alle 6 del giorno dopo da Milano dovrebbe arrivare e
incontrarsi in città con Mussolini come era stato concordato alcune ore prima.
Non è che poi Mussolini sia proprio privo di armati. Certamente la sua non è una
colonna ben protetta, sono più che altro automobili, camioncini e qualche
scorta, compresi la dozzina di tedeschi di Fritz Birzer addetti alla sua
persona, ma in città ci sono i militi della Brigata Nera di Como e dopo le 21,30
arriverà qualche primo scaglione dei giovanissimi arditi di Onore e
Combattimento di Giulio Gay (comandante delle formazioni giovanili del PFR e del
I reparto d'assalto Onore e Combattimento), questi ultimi ben armati e dal
morale alto, più altri spezzoni sparsi di fascisti.
Nel suo "Contromemoriale", Bruno Spampanato scriverà: «Dunque Mussolini è
arrivato. Tutti quelli che ho interrogato mi hanno confermato che quella sera a
Como i fascisti erano molti, da ogni parte e per niente depressi. ... E che si
poteva chiedere di meglio che a questi uomini di unirsi, riordinarsi, difendere
il proprio Capo e se stessi: e aspettare poi gli angloamericani piuttosto che
arrendersi ai partigiani?».
Possiamo definire quindi un grave scelleratezza, quella commessa la mattina dopo
da chi aveva certe responsabilità e disperse in poche ore quest'ultimo
patrimonio di forza, che oltretutto avrebbe forse evitato molte stragi dei
giorni successivi.
Dei partigiani neppure l'ombra, sono solo nei pensieri e nelle parole di chi
vuol tratteggiare la situazione a tinte fosche. È chiaro però che è
indispensabile l'arrivo delle migliaia di fascisti armati da Milano per
garantire la protezione e potersi muovere con una certa sicurezza.
In città c'è anche una discreta presenza di tedeschi con il Platzkommandantur,
nel Borgo S. Agostino, il comando delle SS a Cernobbio, altri uomini nei
magazzini del comando logistico Albergo Metropole e Suisse in piazza Cavour. La
Feldgendarmerie è nel palazzo Saibene in piazza S. Agostino, i servizi di
sicurezza in via Zezio e altri comandi sparsi in vari punti.
A sera Rodolfo Graziani, ministro della Difesa e comandante dell'Armata Liguria,
giunge a Como sia pur contrariato per essere venuti via da Milano. Si cerca di
contattare a Bergamo il generale Archimede Mischi, capo di Stato Maggiore
dell'Esercito, per fargli raggiungere Lecco con tutti gli uomini e le armi a
disposizione.
Quando Mischi richiamerà, sembra da Sondrio, Graziani concitato, gli da l'ordine
suddetto, ma il generale fa presente le grosse difficoltà in cui si trova (in
pratica, dalle sue parti, l'esercito si è liquefatto). Graziani gli grida:
«Mischi non scherziamo, qui c'è il Duce!».
Il povero Mischi si metterà in viaggio, ma da solo e arrivato all'albergo
Moderno di Lecco si chiuderà in camera e tenterà il suicidio, scrivendo con il
proprio sangue sulla parete "viva il Duce".
Circa verso le 23, ricorderà Pietro Carradori, l'attendente del Duce, fu
ascoltato in Prefettura un proclama radio con cui si invitavano tutti i fascisti
e le forze armate della Repubblica a concentrarsi a Como, mentre invece verso le
23,30 il colonnello Vanini venne chiamato al telefono e gli fu detto che se per
le cinque il comando repubblicano non lasciava la Prefettura e la zona, i
partigiani avrebbero attaccato con trentamila uomini (ridicolo).
Subito Vanini riferì a Mussolini e Porta fece presente che comunque c'erano
molti uomini disposti a morire per il Duce. Mussolini rispose solo: «Se avete
questi uomini, che siano disposti ad andare in Valtellina».
Non mancano le voci circa minacce di un imminente bombardamento alleato sulla
città.
Rimarrà poi celebre l'episodio di Buffarini, ex ministro dell'Interno della RSI,
che inutilmente vorrebbe convincere Mussolini a riparare in Svizzera (insisterà
e ci proverà più volte). Ci sono varie testimonianze in proposito, ma così ne
scriverà "Il Viandante": «Perduto ogni impaccio di subordinazione gerarchica,
con le mani appoggiate sullo spigolo del tavolino, e il corpo piegato in avanti
così che il suo volto quasi sfiorava quello di Mussolini, Buffarini enumera gli
errori compiuti per non averlo voluto ascoltare (...) Se la prende con Pavolini,
Barracu e Zerbino che vogliono resistere ancora (...) che almeno nella disfatta
Mussolini si renda conto della gravità della situazione: ripari finchè è in
tempo in Svizzera».
Buffarini dopo quell'episodio definirà Mussolini: «l'uomo che vuole morire».
Ad una certa ora notturna telefona Bassi da Milano e sembra che parli con
Zerbino (Ministro degli Interni - N.d.R.). Informa di un proclama del generale
H. Vietinghoff, comandante in capo delle truppe tedesche in Italia, dice Bassi
di aver parlato con Wolff e legge quello che ha saputo del proclama, un testo
molto sibillino dove però ancora non si parla specificatamente di resa, ma la si
intuisce chiaramente.
Il Duce osserverà al telefono: «Evidentemente le truppe tedesche alle 14,05 non
combattevano più. Bassi, non c'è altro da fare. Vi aspetto domani mattina a
Como».
A Como si verificherà anche il mancato arrivo di un camioncino dove Mussolini
aveva fatto stipare importantissimi documenti di Stato, compreso il dossier sul
delitto Matteotti. Percorsi pochi chilometri si ferma per strada, forse per un
guasto, ma la faccenda non è molto chiara.
Il camioncino comunque venne intercettato da certi partigiani "bianchi" in zona
di Garbagnate e il suo contenuto fu saccheggiato e successivamente consegnato
agli inglesi e alle autorità cielleniste che lo fecero sparire per sempre.
Inutile dire che Mussolini andò su tutte le furie, ma il prefetto Gatti partito
subito dopo alla sua ricerca non poté fare altro che tornare indietro a mani
vuote.
Che cedano i nervi un po' a tutti, che sia per la mancanza di quei precisi piani
strategici che non si era voluto affrontare nei mesi precedenti, o che ci si
renda conto che tutto sommato anche il "ridotto valtellinese" non ha avuto
quelle fortificazioni e predisposizioni militari che pur si era studiato e
ordinato, o che altro, fatto sta che si entra in un clima surreale fatto di
insicurezza e reciproche suggestioni.
Questo clima lo descriverà mirabilmente il giornalista Pietro Caporilli
raccontando i momenti notturni dove: «per non disturbare il Duce, gli ospiti, la
cui stanchezza e il riverbero delle luci opache per l'oscuramento proiettavano
sul volto cupe ombre bisbigliavano, anziché parlare e si muovevano in punta di
piedi. L'atmosfera era quella di una veglia funebre». (P. Caporilli, "Crepuscolo
di sangue", ed. Ardita 1963).
26 aprile 1945: prima dell'alba Mussolini parte da Como
«Il cedimento della Questura» scrive Marino Viganò nel suo "La resa di Como" già
citato «che segue di poco quello del comando generale del Servizio ausiliario
femminile in via Zezio, restato senza disposizioni di carattere operativo, è uno
dei primi segnali concreti del crollo seguito il giorno dopo, preparato in
accordo con elementi del CLN già infiltrati in Prefettura, consenzienti il capo
della provincia Celio e il capo di gabinetto Zecchini. In particolare si tratta
di due funzionari addetti agli uffici degli alloggi e dell'approvvigionamento,
Manlio Fulvio e Guido Mauri (ufficiale in collegamento con missioni dell'OSS
statunitense - N.d.R.)».
È evidente che Mussolini, dopo aver ascoltato un po' tutti ed essersi consultato
con il suo più stretto entourage, soprattutto Zerbino e Porta esperto della
zona, ritenendo se stesso e i resti del governo non protetti (oltretutto con
molti familiari appresso) e per evitare drammi alla città, preferisce lasciare
Como all'alba (sembra verso le 5) per gli stessi precedenti motivi, qui
aggravati da ragioni di sicurezza, che lo indussero a farlo a Milano.
Da un rapporto dell'OSS, il servizio segreto americano, risulterà che Mussolini
non aveva alcuna intenzione di fuggire all'estero. O meglio che non sapesse
neppure lui cosa restava da fare, tra tante chiacchiere, volenterose, generose,
ma nefaste.
Si deciderà così a partire quasi improvvisamente e per quell'ora prematura,
certamente anche per una maggiore sicurezza di viabilità.
Sulle intenzioni di Mussolini scriverà ad intuito il ricercatore storico A.
Zanella: «Nella notte a Como, come nel pomeriggio a Milano, quando ha sentito,
forse più con l'istinto che con il raziocinio, che si stava creando un clima
molto simile a quello del 25 luglio, deve aver deciso di agire, facendo tutto il
contrario di quanto gli veniva proposto. Deve aver applicato al 25 aprile 1945
la decisione che avrebbe dovuto prendere il 25 luglio 1943: niente resa al
cardinale; niente resistenza a Milano; niente sosta a Como; niente fuga in
Svizzera. Deve fare tutto il contrario di quel che, in modo più o meno
esplicito, vogliano fare i suoi e che pensa si aspettino i nemici».
Emblematica rimarrà la drammatica telefonata che il Duce ebbe, a notte alta, con
sua moglie, anche essa nascosta in Como: «... non c'è rimasto più nessuno
Rachele, è finita, sono rimasto solo, anche l'autista (Giuseppe Cesarotti -
N.d.R.) non si trova più. Io seguo il mio destino... e vedo che tutto è finito».
Poi il Duce chiede alla moglie di poter parlare al telefono con il tenente
Mariani (capo dell'ufficio informazioni della Brigata Nera di Como "Rodinì" -
N.d.R.), al quale raccomanda la propria famiglia. Saluta quindi i figli Romano e
Anna Maria che appaiono disperati e commossi.
L'amara espressione di Mussolini alla moglie potrebbe sembrare esagerata se si
considera che al suo fianco c'erano ancora sinceri amici (Bombacci) e fascisti
fedeli (Porta, Barracu, Gatti, Casalinuovo, ecc.) ai quali si aggiunse poi
Pavolini, Utimpergher, ecc., ma di fatto Mussolini aveva capito bene che non
aveva alcuna reale consistenza armata su cui contare veramente, mentre tutte le
strutture della Repubblica tendevano a defilarsi o addirittura a passare nel
campo nemico. A questo proposito vale la pena ricordare che proprio il tenente
Mariani ebbe in seguito a dire che, secondo lui, lo squagliamento massiccio
delle forze fasciste che dovevano convergere a suo tempo su Milano comincia già
tra il 22 e il 23 aprile.
Nella lettera di Mussolini alla moglie, consegnatagli in quelle ore da una
guardia di polizia in servizio alla Prefettura di Como, tale Antonio Calò,
purtroppo andata perduta, ma della quale non c'è da dubitare, vi è un passaggio
che è molto significativo, scrive Mussolini: «Parto con una colonna per la
Valtellina dove tu Romano ed Anna Maria potrete raggiungermi; nel caso non fosse
possibile presentatevi alla frontiera Svizzera dove non vi respingeranno. (...)
Non seguire la colonna perchè è pericoloso».
Fu solo dopo quella lunga e drammatica telefonata che Mussolini cotè gettarsi su
una branda e riposare qualche ora.
Racconta l'attendente Carradori: «Fu poco prima della partenza da Como che
Buffarini e Tarchi tornarono alla carica con Mussolini, nel tentativo di
convincerlo a raggiungere la Svizzera. Gli avevano sottoposto la loro idea la
sera precedente e Mussolini li aveva ascoltati come se fosse assenti. (...)
Quanto a Mussolini egli era ormai determinato a raggiungere la Valtellina e così
quando Buffarini e Tarchi cercarono ancora di fargli cambiare programma, lo udii
pronunciare queste parole: "Ognuno è libero di scegliere la soluzione che
ritiene più opportuna. Quanto a me preferisco morire su una zolla di terra
italiana che in una prigione Svizzera».
È chiaro che Mussolini, vedendo attorno a se molte defezioni, insicurezza e
spesso una chiara volontà, finalizzata prima di tutto alla salvezza personale,
aveva perso la fiducia nelle possibilità di opporre una valida difesa armata sul
posto in attesa dell'arrivo della colonna di Pavolini e vedeva anche l'inutilità
di un possibile spargimento di sangue che però non ci sarebbe mai stato perchè
come abbiamo visto non c'era alcuna forza partigiana alle porte di Como. L'unico
pericolo quindi poteva essere costituito solo da eventuali bombardamenti
Alleati.
È così che prese l'infausta decisione di lasciare la città lariana.
Quando parte dalla Prefettura la sirena d'allarme prende a fischiare perchè è il
segnale prestabilito per avvertire i partigiani che Mussolini sta lasciando
Como.
Dirà Carradori: «Mussolini scese in cortile dopo le quattro e mezzo. La minaccia
dell'attacco dei partigiani fu secondo me la sola ragione della partenza
frettolosa da Como. Nessuno gli buttò sulle spalle un cappotto di cuoio. Nessun
discorsino suo a chi restava. Siamo scesi per salire sulla sua macchina, l'Alfa
Romeo 2800 metallizzata, che aveva alla guida Mario Salvati, che era un mio
amico romano, un civile, autista della Presidenza del consiglio (...) Siamo
partiti alle cinque e un quarto precise. Aprivano le colonne i due camion, uno
con la scorta italiana comandata dal console Jaculli e uno con quella tedesca.
Bisogna aggiungere che è falso che all'esterno dell'auto del duce, sui
predellini, fossero montati un maresciallo e tre militi. Non c'era nessuno. Non
saprei dire chi c'era sulla macchina che ci seguiva. Era notte».
Dice il ricercatore storico Marino Viganò che l'interpretazione della partenza
quale decisione di «non voler far spargere altro sangue italiano in una difesa
ormai senza scopo» è confermata pure in un resoconto di qualche anno dopo, del
sottotenente faentino Della Verità, ufficiale della GNR di Como: «La notte tra
il 25 e il 26 giunsero a Como, presso la Caserma del centro addestramento
reparti per il fronte, il Comando G.le della GNR ripiegato da Brescia, un
reparto della "Leonessa" con una decina di mezzi corazzati da Milano, oltre ad
altri contingenti di truppa provenienti da altre sedi. Complessivamente si
raggiunse una forza di oltre 1.000 uomini. La notte stessa il Comandante la
Caserma, Colonnello Fossa, fu chiamato da Mussolini alla Prefettura di Como, ove
ricevette ordine di predisporre il trasferimento degli uomini tutti in
Valtellina, ove si sarebbe effettuata una difesa estrema. Mussolini preannunziò
una sua visita l'indomani alla Caserma durante la quale avrebbe dati ordini
precisi per il trasferimento».
Il Duce, quindi, sotto la interessata scorta di una dozzina di tedeschi al
comando del tenente Fritz Birzer, con ministri, gerarchi fascisti, militi e
agenti di scorta, autisti e molti familiari al seguito, ecc. (sembra oltre 130
persone in tutto) imbocca, sotto la pioggia, la lariana occidentale, quella che
sarà la nefasta Regina e va incontro al suo tragico destino.
Alcuni dicono che sono circa le 4, altri poco più, Carradori, come abbiamo visto
indica le 5,15.
Viene così meno all'appuntamento che aveva dato a Pavolini in Como, ma come
dargli torto?
Non sta scappando perchè inseguito da forze nemiche, sta semplicemente
prendendo, dopo una serie di consigli e confronti con i suoi, la soluzione più
logica (e in un ora più sicura) anche se risulterà errata, ma lo risulterà
sopratutto perchè i comandanti fascisti rimasti a Milano e in procinto di
raggiungerlo, non sono in totale sintonia con i suoi programmi.
I fascisti partono da Milano
I fascisti intanto a Milano si erano radunati in alcuni punti della città: via
Dante, piazza Castello, piazza S. Sepolcro, ecc.; Pavolini è in via Mozart dove
si cerca di organizzare una colonna di armati da portare a Como con
concentramento per le 5 tra via Dante e piazza Castello, testa della colonna
Piazza Castello. Circa alle 4 una sessantina di autocarri prenderà a muoversi da
Piazza San Sepolcro dove era la storica sede nativa del fascismo, al momento
difesa da reticolati e mitragliatrici, avviandosi al concentramento.
Mancherà all'appello la Brigata Nera Arditi che non disponeva di automezzi.
Dovranno arrendersi nella giornata con l'onore delle armi. Come al solito le
garanzie accordate non saranno mantenute e molti di quei militi saranno
soppressi.
Verso le 6 arrivarono anche le due autoblindo e alcuni mezzi della GNR con il
suo capo di Stato Maggiore Niccolò Nicchiarelli.
Franco Colombo, invece, il comandante della "Muti", partirà da Milano con il
secondo gruppo della Legione autonoma "E. Muti" che si mette in moto dopo le
nove. Manca però in questa colonna di "mutini" la stragrande maggioranza della
"Legione" che stava avvicinandosi, tra incidenti e scontri vari, da Novara a
Milano al comando di Ampelio Spadoni.
Oltre ai fascisti milanesi c'erano anche quelli arrivati e ripiegati da ogni
dove. Alcuni reparti in marcia di avvicinamento a Milano erano rimasti in
qualche modo bloccati, altri invece, avvertiti della destinazione di Como (come
quelli di Lodi e di Codogno), vi si diressero direttamente.
Si era comunque in presenza di una massa alquanto imponente, almeno 4-5 mila
elementi, che disponeva di autocarri con mitragliere, mortai da 81 e 41, di
lanciafiamme, di un paio di cannoncini da trincea e un paio di pezzi di
artiglieria. Niente di particolarmente efficace per uno scontro bellico con
eserciti nemici, ma sicuramente consistente e sufficiente per sostenere scontri
con una guerriglia che oltretutto, salvo le imboscate, ancora latitava.
Il comando è disorganico, con Pavolini comandante nominale, ma di fatto
comanderanno un po' tutti (Romualdi, Colombo, i federali di Milano, Genova,
Mantova, ecc.).
Il programma militare e l'ordine dato ai fascisti è semplice: la colonna di
Pavolini, mano a mano rinforzata da reparti di varia provenienza, deve arrivare
a Como dove si è trasferito il Duce con il governo repubblicano e da lì, tutti
insieme, si proseguirà per la zona della Valtellina al fine di stabilire una
continuità di difesa con le vicine frontiere del Reich.
Prenderanno a lasciare Milano, imboccando l'autostrada di Corso Sempione, a
scaglioni, persino con vari familiari al seguito (particolare questo che
risulterà poi oltremodo deleterio), con un poco di ritardo, in genere tra le 5 e
le 6 del mattino del 26 aprile. Solo dopo quell'ora, l'insurrezione, che per la
storia era stata proclamata il 25 aprile, farà apparire qualche pattuglia di
partigiani in città orami sgombra di fascisti.
La colonna di fascisti defluì senza incidenti apprezzabili, solo nella strada
notturna verso Como ci fu qualche incidente ma niente di militarmente
importante. Pavolini anticiperà di un poco tutti gli altri e con lui dovrebbe
trovarsi il federale Vincenzo Costa.
Nonostante le tante defezioni delle ore precedenti, nonostante la drammaticità
ed i mortali pericoli che si vivevano in quei momenti, occorre comunque dire che
questa attestazione di fede e di coraggio di migliaia di fascisti che si misero
in marcia per andare dietro il Duce, a prescindere di come si possa pensarla in
merito, resta pur sempre una pagina di gloria militare della storia italiana.
L'arrivo dei fascisti a Como
Scaglioni di fascisti intanto, più o meno dalle 8 del 26 aprile, cominceranno ad
arrivare a Como, i più si arrestano davanti alla Casa del Fascio. Prima delle 9
arriva il grosso della colonna milanese di Pavolini (forze della RSI, del PFR,
della "Muti", della GNR e parti della "Decima").
Gruppi della "Muti" si riuniranno tra loro a Como verso mezzogiorno alla
federazione del fascio dove poi rimasero in attesa.
Le adiacenze della Casa del Fascio sono piene di armati, ma anche di profughi di
ogni provenienza e si notano anche camion carichi di ogni masserizia, mentre
famiglie intere soggiornano in piazza Impero.
Fascisti continueranno ad arrivare fino al pomeriggio e qualcuno ne ha contati,
in via vai, esageratamente circa 40 mila poi dicesi ridottisi a 30 mila a causa
della naturali defezioni.
Erano certamente molti di meno, ma comunque sempre una massa considerevole di
cui tenere conto per almeno 4, 5 mila sufficientemente armati che arrivarono in
giornata a Como.
Non trovano però Mussolini e dietro voci ed illazioni che corrono, anzi che sono
fatte circolare a bella posta dagli avversari, circa una possibile fuga in
Svizzera del governo, restano tutti disorientati, mentre serpeggia una sorda
propaganda terroristica per la quale coloro che fossero stati trovati in divisa
verrebbero passati per le armi. Più tardi anche la radio, abbandonata oramai dai
fascisti a Milano, avrà ben presto un forte impatto per deprimere il morale di
tutti.
I primi a cominciare a dissolversi furono gli ausiliari della polizia, in questo
assecondati dai loro superiori. In alcuni casi, tra le formazioni fasciste,
vennero distribuiti gli stipendi anticipati ai militi, fatto questo che
psicologicamente determinò una aria da «si salvi chi può».
Il generale Niccolò Nicchiarelli, capo di stato maggiore della GNR, rimane
sconcertato per non aver trovato il governo andato via da Como, quindi incontra
Pavolini e gli chiede: «Ma cosa facciamo adesso?», e questi, dovendo andare in
Prefettura, gli risponderà «Arrangiati».
Anche Nicchiarelli verso le 9 va in Prefettura a raccogliere notizie e
provvederà a regolarsi di conseguenza. Si reca infatti alla caserma di Como dove
si trovavano i reparti della Guardia, tra l'altro gli unici reparti
sufficientemente militarizzati, e fa presente che lui si sarebbe uniformato agli
ordini del Comando Militare di Graziani che doveva essere alle Casermette a
Como.
Quindi sparisce e non lo si vedrà più. Si saprà poi che gli uomini e i mezzi
della Guardia si erano acquartierati in alcune caserme in attesa di arrendersi
agli Alleati.
Mario Bassi, anche lui arrivato a Como, si consulterà con Celio in Prefettura,
il quale ovviamente gli riferisce che gli anglo americani volevano bombardare
Como se Mussolini non se ne andava (meglio mettere le mani avanti).
Un anonimo Relator scriverà in seguito, quanto accadde in giornata: «In
Prefettura risiedeva già, senza essere entrato ancora in carica il CLN. Il
prefetto Celio aveva ceduta la sua stanza di lavoro al Comitato e si era
provvisoriamente trasferito in un altro locale».
Racconta Romualdi: «Una volta attestatici in federazione noi tenemmo una prima
riunione: c'erano Pavolini, Colombo, Costa, c'ero io e c'era un vice comandante
della "Muti", il generale Cappelli, il colonnello Galdi (che era stato uno dei
giudici di Verona), c'era Enrico Vezzalini, ex capo della provincia di Novara,
che doveva provenire dal Torinese».
Da quella riunione, racconta Viganò nel suo saggio sulla resa di Como già
citato, si decise che Vezzalini sarebbe andato verso l'alto lago dando notizia
di dove si trovasse Mussolini, ma fu proprio Pavolini che volle andare a
Menaggio.
Anche in questo caso siamo però in presenza di alcune discrasie sugli orari e
sulle presenze. Sembra infatti che Vezzalini, già prefetto di Ferrara e poi di
Novara, proveniente da Genova dove aveva assolto ad un incarico per il
salvataggio del porto per conto di Mussolini e non avendo poi trovato il Duce a
Milano si era precipitato a Como. Qui era arrivato quando Pavolini era già
partito.
Questa la testimonianza del capitano Carlo Tortonesi del Reparto autonomo
Corazzato della BN Mobile "Attilio Pappalardo", il quale avendo perso tempo con
la retroguardia di Pavolini, si era sistemato attorno alla federazione: «... ho
visto arrivare di corsa Vezzalini, che aveva già il soprabito macchiato di
sangue e qualche ferita al volto».
Vezzalini chiede dove fosse il Duce e Tortonesi gli dice che forse è su in
federazione.
Vezzalini sale di corsa in federazione, ma ne discende profferendo le seguenti e
significative parole (si noti che siamo al mattino): «Caro Tortonesi, non è in
federazione, qui c'è soltanto chi vuol salvare la pelle!»
Le gravi parole di Vezzalini, che si riscontrano nei ricordi di Tortonesi, sono
estremamente importanti e danno già una indicazione del perchè Pavolini, al suo
ritorno da Menaggio, trovò oramai un disfacimento tale da impedirgli di
organizzare una colonna armata da portare al Duce.
A questo proposito per il CLN testimonierà Luigi Grassi (designato come nuovo
questore di Como): «Quando le colonne di Brigate Nere seppero che Mussolini
aveva proseguito tre ore prima dell'appuntamento fissato con loro, cominciarono
a sbandarsi, a gettar via le armi e cercare scampo in qualche modo».
Una testimonianza anche questa che attesta indirettamente le gravi
responsabilità di primo mattino dei comandanti fascisti.
La domanda che ci si deve allora porre è la seguente: d'accordo che il non aver
trovato il Duce in città, unito alle voci disfattiste che subito furono fatte
circolare ad arte, determinarono un clima di sfiducia e di sbandamento nei
fascisti appena arrivati, tanto che Pavolini, sbagliando, pensò per prima cosa
di recarsi a Menaggio, forse anche con l'intento di riportare il Duce a Como, ma
nel frattempo, durante la sua assenza e man mano che sopraggiungevano altre
formazioni fasciste da Milano, i comandanti rimasti in città, cosa fecero per
arginare quella situazione? Cosa fecero per mantenere in piedi formazioni armate
e se il caso tenerle pronte a ripartire non appena Pavolini fosse tornato?
Visto che Pavolini al ritorno, trovò il caos e lo sbandamento più totale, unito
a copiose defezioni, dobbiamo ritenere che fecero poco o nulla o che presero
provvedimenti ed ebbero atteggiamenti totalmente inefficienti e
controproducenti.
In un suo libro, uscito postumo ("Fascismo Repubblicano" a cura di M. Viganò,
SugarCo 1992) Romualdi, che per tanti anni non era voluto entrare nella
rievocazione di quegli eventi, racconterà della situazione di disagio e del
clima che si diffonde tra i fascisti che non hanno trovato Mussolini. Ricorderà
che Pavolini volle tentare di prendere subito contatto con Mussolini ed
aggiungerà che invece "secondo loro" conveniva proseguire subito per la
Valtellina senza porre altro tempo in mezzo. Avrebbero comunque deciso al
ritorno di Pavolini.
Per Romualdi tra gli uomini partiti la mattina da Milano, quelli arrivati a Como
(evidentemente fino a quel momento) non superavano i 1.500.
Questa apparentemente logica considerazione di Romualdi, oltre che tardiva, ci
sembra veramente singolare e a nostro avviso è poco credibile, perchè di fatto
accolla sulle spalle di Pavolini la responsabilità del gravissimo errore di
essersi fermati in città invece di proseguire subito.
In realtà, a prescindere dai pareri dei singoli, espressi in quella contingenza
e che oggi non è possibile conoscere solo in base a certe "ponderate"
testimonianze successive, fu un errore sicuramente collettivo, compiuto anche da
Pavolini, ma non solo da lui. Pavolini, infatti, è evidente che prese quella
iniziativa proprio perchè resosi conto del tragico scollamento che si stava
verificando nelle fila dei fascisti, scollamento di fronte al quale,
evidentemente, i comandanti presenti a Como non stavano cercando di fare fronte
proponendo una decisa iniziativa militare. Altro che volontà di proseguire
subito per Menaggio!
26 aprile 1945, mattina: prodromi alla partenza di Pavolini per Menaggio
Pavolini rimasto come gli altri sconcertato, dal mancato incontro con il Duce,
aveva appreso da Celio che questi è andato a Menaggio. Si recherà in
federazione, dove lo vede Cesaria Pancheri, vice comandante del SAF (Servizio
Ausiliario Femminile), tra alcuni giovani militari (sono i ragazzi di "Onore e
Combattimento" accampati dalla notte nell'atrio della federazione): «Parlava
loro sorridendo come se nulla fosse accaduto o dovesse accadere... Egli mi disse
di dire al comandante di recarsi in prefettura e riprese a parlare con i ragazzi
...»
In federazione Pavolini convocherà per le 15 tutti i suoi dipendenti. Poco prima
aveva mandato il prefetto Bassi da Celio, dicendogli di governare la Prefettura,
mentre lui pensava alla Federazione fascista. Qui imprecando contro coloro che
sono vicino al Duce e che fanno perdere tempo prezioso, esclamerà stizzito:
«Vado io ora a Menaggio». Ed infatti, circa verso un quarto alle 10, o forse
alquanto prima, partì per Menaggio per incontrare Mussolini, accompagnato dal
federale di Mantova Stefano Motta, dalla guardia personale Vincenzo De
Benedictis (un reduce di Bir El Gobi) e dall'autista Emilio Santellani di
Portogruaro.
La mancanza di Pavolini sul posto sarà l'inizio della fine, ma certamente non si
poteva chiedere al segretario del PFR quella dimensione da stratega militare,
che forse non aveva.
Lui almeno, ed il suo comportamento successivo lo confermerà in pieno, si muove
ed agisce senza quella riserva mentale a voler risolvere la situazione
soprattutto con discussioni ed accordi in loco con gli avversari e nella mitica
attesa di una resa alle armate Alleate.
Partito Pavolini la massima autorità fascista presente a Como rimane Romualdi
che occuperà l'ufficio del federale. Qui in federazione seguirà dunque una
riunione operativa presieduta da Romualdi stesso per la «distribuzione dei
compiti immediati».
La partenza di Pavolini, che purtroppo non riesce in quel momento a ragionare
con un freddo calcolo militare, si rivelerà nefasta.
Tutta la massa dei fascisti comincerà a disgregarsi e non sarà più possibile
recuperarla.
Come detto la scusa principale, accampata dai responsabili gerarchi fascisti
presenti a Como, sarà quella che non avendo trovato Mussolini il colpo
psicologico fu troppo forte per gente che si muoveva soprattutto dietro spinte
ideali ed emotive.
Ma attenzione: non bisogna esagerare con questa valutazione, un alibi più che
altro sostenuto da coloro che avrebbero dovuto tenere il polso della situazione
(i capi fascisti sopraggiunti con la colonna) ed invece restarono anche loro
disorientati, come in trance, dentro Como.
Di fatto abbandonati dai tedeschi, che oramai non combattono più e stanno
trattando la resa, non trovata a Como l'autorità del loro governo, ma una
ambiguità delle poche istituzioni rimaste in piedi, i capi fascisti non hanno
quella volontà di trovare in sè stessi la forza per prendere, di fronte
all'imprevisto di non aver trovato Mussolini sul posto, l'unica decisione
logica, razionale evidente: proseguire immediatamente verso Menaggio dove dicesi
si è diretto il Duce!
Non si era forse partiti da Milano con destinazione Como, sapendo benissimo che
la città lariana è solo una tappa intermedia, perchè la meta finale è la
Valtellina?
E Mussolini non è che ha deviato da qualche altra parte, ma si è portato a
Menaggio che è sulla strada della Valtellina. E allora perchè non proseguire
subito dietro al Duce?
Forse anche il fatto che Pavolini anticipava la colonna di fascisti che usciti
da corso Sempione in Milano all'alba stanno dirigendosi verso Como, per
precederli ad arrivare prima, e quindi correre da solo verso Menaggio, ha una
certa influenza negativa, tutto concorrerà a determinare l'assurda giornata di
Como.
Dirà il federale Vincenzo Costa: «Arrivati a Como infilammo la strada che porta
alla Prefettura ove la testa della colonna si fermò. Salimmo con Pavolini al
piano superiore e lì sapemmo che Mussolini quella notte era partito per
Menaggio... Nel giardino pubblico si concentrarono i milanesi. La "Muti" in una
grande villa (Villa Olmo - N.d.R.), gli altri reparti lungo il viale della
stazione Nord, e dinanzi alla federazione, altre forze al vicino Teatro
Comunale».
Racconterà il questore Secondo Larice (nipote acquisito di Mussolini, anche lui
arrivato con la colonna), che Pavolini dopo l'arrivo tenne un breve rapporto,
senza sapere che fare subito o meglio interdetti per non aver trovato il Duce,
imbarazzati dalle informazioni pessimistiche provenienti dalla Prefettura, per
cui si ritenne di non dare l'ordine immediato di proseguire per Menaggio e quel
ritardo non fu poi più possibile riguadagnarlo.
Quindi il vero gravissimo errore, che poi in pratica scaturisce da una certa
predisposizione d'animo a cercare subito altre alternative a quelle militari e
di forza, è costituito dal solo ed unico fatto che ci si ferma in Como.
Qualsiasi esperto di tattiche e prassi militari può confermare che, in quella
situazione, l'unica cosa da fare sarebbe stata di proseguire immediatamente
dietro al Duce.
Tutti sanno, infatti, che il Duce si è incamminato verso la Valtellina ed ha
lasciato detto che aspetta gli altri, quindi è fermo più avanti, da qualche
parte, si dice a Menaggio, e tutti sanno che Mussolini, privo di scorta, ha
anche estremo bisogno dei fascisti armati.
Che girino voci di una possibile fuga del governo in Svizzera è evidente, è
normale, ma non poteva e non doveva essere più di tanto influente sui fascisti e
soprattutto sui capi fascisti accorsi a Como.
Se si riteneva che le strade erano ancora sicure e praticabili ci si doveva
incamminare immediatamente senza neppure spegnere i motori, se invece si
cominciavano ad avere preoccupazioni, tra l'altro in quel momento alle prime ore
del mattino ancora premature, ancor più si doveva partire subito.
Lo stesso fatto che Mussolini aveva abbandonato la Prefettura dopo poche ore che
vi era giunto doveva fornire un motivo in più per seguirlo immediatamente. Per
qualsiasi comandate, con un minimo di capacità militari e soprattutto con la
volontà di battersi ad ogni costo, questa prospettiva sarebbe stata logica ed
evidente. Non lo fu, invece, per quelli che si fermarono in Como e cominciarono
la sarabanda delle congetture, delle discussioni, delle proposte e dell'attesa,
pensando che nel frattempo era forse meglio che sopraggiungessero altri armati
ancora in cammino. E quando si comincia a discutere...
Ed è così che una colonna di armati, sia pure frammentata ed eterogenea,
composta da alcune migliaia di uomini, carri e qualche pezzo di artiglieria,
viene fatta fermare inspiegabilmente in città solo perchè Mussolini non lo si è
trovato.
Spezzoni dell'Esercito, Brigate Nere, uomini della Muti, Ausiliarie, Battaglioni
M e quant'altro, oltre quelli della GNR, tutti restano in attesa con le ore che
passando e complicano la situazione e scavano nel morale, mentre il fantasma del
CLN comincia sempre più a manifestarsi.
È tutto assurdo e lo è ancor più per il fatto che quella sosta si prolunghi per
tutta la giornata. Tutto questo si può spiegare solo supponendo che molti di
quei comandanti erano oramai predisposti alle trattative, non al combattimento,
alla resa agli alleati al più presto possibile e non a procrastinarla isolandosi
nella Valtellina.
Secondo Larice riassunse bene quanto era nell'animo della maggior parte dei
comandanti fascisti: «Un accordo sul posto per la salvezza di Mussolini nonché
dei fascisti cominciò a sembrare più conveniente e sicuro di una avventura come
taluno cominciò a chiamare la Valtellina».
E la conferma ci viene indirettamente dal federale di Milano Vincenzo Costa in
una sua futura testimonianza: «Raggiungere la Valtellina, lontana una sessantina
di chilometri, fu scartato per le difficoltà che avremmo attraversato
percorrendo il Lungo Lago oramai soggetto alle insidie dei partigiani».
Anche Vanni Teodorani (imparentato con Mussolini per aver sposato una figlia del
fratello del Duce, Arnaldo) avanzò la scusante della presenza di forze
partigiane in zona: bugie per alcuni, suggestione per altri.
Queste dichiarazioni sono la più clamorosa attestazione della suggestione
collettiva in cui furono preda quei comandanti, molti di loro anche uomini di
indiscutibile coraggio, suggestione tanto più ingiustificata visto che le forze
partigiane erano ancora decisamente esigue come dimostrò il giorno dopo il fermo
della colonna Mussolini a Musso, avvenuto più per cause logistiche di pessimo
posizionamento strategico della colonna sulla strada, che per la presenza di un
pugno di partigiani male armati.
Eppure, ed è incredibile, proprio il federale Costa affermerà, ma molti anni
dopo, che poco dopo le 8 era partito per Menaggio ed era tornato incolume a
Como, e poi anche Pavolini, questo è certo, prima delle 10 aveva fatto la stessa
cosa ed era tornato a Como in tarda mattinata, anche se aveva avuto, per
quell'ora, nella strada di ritorno, una serie di fucilate contro le due macchine
con le quali viaggiava che avevano ferito un autista. Ma niente di eccezionale o
che comunque non potesse essere superato, almeno in quella mattinata, da uomini
armati e decisi.
Le difficoltà di percorrere il Lungo Lago in mattinata quindi erano più che
altro teoriche e le forze partigiane, pressoché inesistenti potevano, tutto al
più, fare delle imboscate.
Il giornalista G. G. Pellegrini presente sul posto, indica magnificamente cosa
accadde: «Alcuni alti gradi delle formazioni fascisti, pur non avendo il comando
di reparti, stanno trattando con il CLN, mentre i comandanti effettivi delle
colonne vorrebbero rompere ogni indugio e, ad ogni costo, riprendere la marcia
per raggiungere Mussolini. Le discussioni sono lunghe animate. Da una parte si
bluffa minacciando l'intervento di parecchie migliaia (per l'altro inesistenti)
di partigiani in attesa con le armi al piede, sulle adiacenti colline. D'altra
parte c'è smarrimento per l'assenza di direttive, e si cerca di tergiversare».
Intanto la stessa circostanza di aver cominciato ad ascoltare quanto veniva
proposto per un conveniente accordo di tregua o sgombero della città, costituiva
già un prematuro riconoscimento del CLN ed una diminuzione delle proprie
capacità e secondo poi si vanificava definitivamente la possibilità di
rimettersi in marcia, perchè non si capisce come lo si potrebbe fare verso sera
quando non lo si è fatto al mattino. È al mattino che si perde l'autobus con la
storia, perchè poi quando Pavolini tornerà da Menaggio tutto è oramai
compromesso.
In quella allucinante giornata del 26 aprile in Como le forze fasciste si
squagliarono come neve al sole. E la responsabilità di questo sbandamento è
soprattutto dei quadri dirigenti fascisti comunque smaniosi di conseguire una
qualunque tregua, con la scusa e la pretesa di comprendervi anche la salvezza di
Mussolini e di arrendersi alla fine agli Alleati.
Si verificò invece una futura carneficina di moltissimi prigionieri.
Un pregevole libro del professor Giuseppe Parlato ("Fascisti senza Mussolini -
Le origini del neofascismo in Italia 1943-1948", Ed. Il Mulino 2006) ha reso
pubblico quello che comunque da sempre si sapeva, ovvero come gli americani,
anche attraverso l'OSS (il predecessore della CIA), arruolarono, anche prima
della fine della guerra, per i loro interessi, ufficiali e sottufficiali (in
particolare della Xª MAS), reclutandoli tra i reduci della RSI e favorirono poi
la nascita del neofascismo italiano filo atlantico.
Anche in conseguenza di queste ricerche storiche è sorto il sospetto che alcuni,
tra i dirigenti fascisti presenti a Como, fossero già da tempo in contatto con
l'OSS americano. Ma anche se così fosse, si stenta a credere che costoro possano
aver operato in malafede in modo da portare i fascisti ad una resa del genere e
ritorna più che altro valida, invece, la nostra tesi qui espressa che individua
soprattutto in una certa forma mentis, in un certa predisposizione a mettersi
sotto l'ombrello americano, i motivi che contribuirono a condizionare e a
determinare certe decisioni.
Quando ebbero inizio le prime trattative?
Secondo Marino Viganò che ha dedicato alla resa di Como il lungo saggio citato:
«Le trattative per la smobilitazione o quantomeno per l'evacuazione da Como
delle migliaia dei fascisti confluiti in città dal mattino, convinti di trovarvi
Mussolini e organizzarvi l'ultimo ridotto, iniziano già il primo pomeriggio del
26 aprile».
Ed ancora lo stesso Viganò aggiungerà più avanti: «I prodromi delle trattative
scriverà Alfredo De Gasperi, capo dell'ufficio stampa e propaganda della
federazione del PFR a Como, si aprono verso le ore 17 del 26 aprile in questura,
presenti per i fascisti il questore Pozzoli, il maggiore Butti, il vicefederale
di Como Airoldi e per il CLN il colonnello Giovanni Sardagna di Hohenstein, il
maggiore Cosimo Maria De Angelis, Raffaele Pinto "Cremonesi", e Davide Luigi
Grassi designati rispettivamente nel comando della piazza e nuovo questore».
A nostro avviso però questa ricostruzione temporale del Viganò è al massimo
veritiera solo se ragioniamo da un punto di vista formale, tutto sommato meno
importante, ma non nella sostanza degli avvenimenti che attestano una volontà di
trattativa, una predisposizione a discutere, a valutare i pro e i contro, una
serie di contatti e di approcci con la controparte ciellenista, nascosta dietro
le istituzioni repubblicane, che è sicuramente presente fin dal mattino.
Del resto, non solo abbiamo la prova che le personalità delle strutture della
RSI del comasco, erano già da tempo impegnate in discrete e segrete trattative
per un trapasso dei poteri con le nuove autorità del CLN, desiderose di
insediarsi negli uffici governativi, cosa questa che non poteva poi non
coinvolgere in qualche modo i comandanti fascisti sopraggiunti in mattinata, ma
basterebbe la semplice constatazione che Pavolini, tornato in mattinata da
Menaggio con l'ordine di organizzare una colonna da portare al Duce, non è stato
in grado di poter ottemperare a questo ordine, a causa dello sfascio, del caos e
delle infinite discussioni che a Como avevano già disgregato le forze fasciste.
È quindi indubbio che i comandanti fascisti, rimasti in quelle prime ore a Como,
non possono essere rimasti con le mani in mano, ma hanno cercato di arginare
quello sfascio e di far fronte in qualche modo a quella situazione e visto che
non si ha notizia di decise iniziative di carattere militare, è ovvio dedurne
che il loro affaccendarsi fu, anche e soprattutto, speso nell'ascoltare le
proposte ed i consigli delle autorità del posto, tutte interessate ad evitare
eccessi e quelle di coloro che già giravano nelle strutture delle Istituzioni
spacciandosi per le future autorità cielleniste.
Fatto sta che mano a mano che i fascisti arrivano a Como non trovano ancora al
loro fianco le strutture di governo e della repubblica, sia pure ridotte
all'osso, ma trovano già una specie di interregno con le nuove e seppur ancora
non sempre visibili autorità del CLN, mentre le personalità della repubblica,
tipo il prefetto Celio, il questore Pozzoli, ecc., ancora al loro posto, ma di
fatto oramai fuori da quelle Istituzioni.
E questi ultimi nel frattempo si danno da fare per consigliare lo sgombro da
Como, l'utilità di un accordo che preservi da ulteriori lutti e disastri, e così
via su queste note.
Questo per dire che, in pratica, si era tutti e da subito immersi in un clima
implicito di approcci, complicità, intese, consultazioni, propedeutico a vere e
proprie trattative.
Il generale Nicchiarelli, da prendere comunque con molta cautela, in una sua
"Memoria della Guardia" precisa che il prefetto Celio ebbe a dirgli che dalle 10
il vice segretario del partito Romualdi stava trattando la "resa" con i
rappresentanti del CLN e che analoghi iniziative venivano svolte in questura tra
il questore Pozzoli, il vice federale Alberto Airoldi e quello che, di fatto,
era il nuovo questore di Como: Davide Grassi.
Se questa testimonianza rispondesse al vero, sarebbe gravissimo che, già alle
dieci, partito Pavolini per Menaggio, subito ci si era messi a trattare. Non a
caso, infatti, molti hanno constatato la coincidenza che, partito Pavolini, le
trattative presero corpo, e la sera, ripartito di nuovo, entrarono subito in una
dirittura d'arrivo.
Altre testimonianze attestano che fin dal mattino, mano a mano che formazioni di
fascisti giungevano in città e venivano a sapere che il Duce non c'era e gli si
insinuava anche una fuga del governo in Svizzera, subito vi era chi si
preoccupava di fargli cedere le armi rilasciando qualche salvacondotto. Questi
fatti, che è certo ebbero a verificarsi, è però difficile poterli collocare in
una esatta cronologia, ma danno comunque un idea per quanto accadde quella
mattina.
A nostro avviso, comunque, in mattinata per i comandanti fascisti si sarà
trattato più che altro di un discutere, ascoltare, confrontarsi con queste
pseudo nuove autorità, mentre le vere e proprie trattative di resa iniziarono
successivamente, ma è indicativo che la mentalità diffusa, la predisposizione
d'animo dei fascisti era prevalentemente quella della "discussione" e questa
mentalità avrebbe portato inevitabilmente al sedersi, perdenti in partenza, al
tavolo delle trattative.
Non è quindi molto importante stabilire come e quando presero avvio eventuali
trattative, perchè, lo ripetiamo ancora una volta, la predisposizione dei
comandanti fascisti arrivati a Como era già di per se stessa incline a terminare
quell'avventura, essenzialmente con una resa, seppur onorevole, agli Alleati. Il
problema consisteva quindi in come poterla conseguire quella resa, visto che
ogni minuto che passava si scartava sempre di più l'ipotesi di andarla a fare in
Valtellina.
Cosicché, mentre Mussolini, si sta spostando di località in località anche per
procrastinare i momenti della sua resa al nemico, che in sostanza avrebbe
completato l'occupazione di tutto il territorio e posto fine a tutte le riforme
sociali della RSI e intende giocarsi le sue ultime carte come vuole lui, creando
purtroppo con i suoi movimenti scollamenti e incomprensioni, i fascisti che lo
seguono per fede, per affetto, perché comunque devono restare tutti insieme il
più possibile, ai primi intoppi che ostacolano il loro viaggio in Valtellina,
luogo scelto per chiudere onorevolmente la loro storia, tendono subito ad
entrare nell'ordine di idee di risolvere la situazione con una accordo
transitorio che gli consenta di attendere gli Alleati da qualche parte.
E gli intoppi li conosciamo: sono il mancato incontro di Mussolini
all'appuntamento di Como, le autorità delle Istituzioni della Repubblica oramai
defilatesi dai loro doveri nei confronti della RSI, le defezioni e lo scoramento
che prendono subito a verificarsi tra i seguaci.
Sono questi i motivi che impantanarono i fascisti in Como ed invece di
proseguire subito dietro al Duce, li fecero sostare nella città lariana. Ogni
ora che passava, in quella sosta, inevitabilmente si infittivano le trattative,
scemava il desiderio di battersi.
Come detto, tornato Pavolini da Menaggio, diciamo verso le 12-13 era tutto
compromesso ed oramai effettivamente restava solo di mettere in atto una
decisione estrema e di grande audacia, partendo con chi ancora fosse stato
disponibile a recarsi a Menaggio, oppure proseguire nelle trattative per salvare
il salvabile e nell'illusione che un ritorno del Duce a Como potesse risolvere
la situazione: ovviamente fu scelta quest'ultima soluzione.
Ed occorre specificare subito che, sebbene queste trattative si siano volute far
passare come degli accordi per una tregua, in realtà finirono per configurarsi
come una vera e propria, seppur mascherata, resa di tutte le forze fasciste in
Como, e proprio come una "resa" passarono ufficialmente alla storia.
Mussolini a Menaggio
Arrivato nel frattempo a Menaggio, una trentina di chilometri da Como e da qui
un altra quarantina dalla Valtellina, Mussolini continua a perdere i pezzi del
seguito per il desiderio di coloro (sempre di più) che, seppur indesiderati e
privi dei permessi, vorrebbero varcare la frontiera.
Era arrivato a Menaggio all'alba proprio quando sta sorgendo il sole. La sua
colonna si era diretta verso la Brigata Nera ubicata nelle scuole comunali.
Venne subito mandato a chiamare il comandante Paolo Emilio Castelli, vice
federale, segretario politico di zona e comandante della VIª compagnia della BN
"Rodini".
Paolo Porta (che è il superiore di Castelli) e Mussolini si informano sulla
situazione militare, sulla consistenza partigiana e sulle condizioni della
popolazione.
Castelli risponde che la situazione è tranquilla, tutta la Val Menaggio è
tranquilla. C'è solo un gruppo del CLN, privo di armi e un gruppo della 52ª
Brigata Garibaldi oltre Dongo con base sulla Berlinghera.
Alle sei del mattino, dichiarerà poi Castelli, i miei militi hanno eseguito i
miei ordini di sbarrare, per misure di sicurezza, tutte le vie di accesso a
Menaggio con posti di blocco. Ricorderà pure che a quell'ora il maresciallo
Attilio Buò gli ha telefonato in caserma per comunicargli di aver fermato un
paio di automobili con i ministri Buffarini, Tarchi e relativa scorta,
presumibilmente diretti al valico di frontiera di Oria oltre Porlezza.
Il maresciallo chiede ordini a Mussolini, tramite Porta. Il Duce, in sua
presenza, alzò le spalle e ordinò di farli proseguire. In seguito arriveranno
anche loro a Menaggio.
Come noto poi, nel pomeriggio, Guido Buffarini e Angelo Tarchi, ex ministro
degli interni e ministro dell'economia corporativa, riproveranno a varcare la
frontiera e verranno catturati. Ermanno Amicucci (direttore del "Corriere della
Sera"), Lando Ferretti, il capitano di PS. Luigi Zanon, e tanti altri, invece,
si defileranno o si sganceranno con scuse varie e così via.
Intorno alle 7 Mussolini si ritira in casa di Castelli per riposare. Due
tedeschi, tanto per non dare nell'occhio, vengono messi di guardia al portone.
Più o meno in un ora arrivano tutti quelli del seguito.
Nel frattempo le comunicazioni telefoniche con Como verranno definitivamente
interrotte.
Più tardi, nei pressi di Mussolini, a casa Castelli, qualcuno dirà di aver già
notato anche Marcello Petacci, ma le testimonianze sono contraddittorie.
Comunque sia i Petacci sono anche loro arrivati dietro a tutti gli altri. Per
quella destinazione, ricorderà la Ritossa, la compagna di Marcello: «Clara era
indecisa se puntare su Chiasso o proseguire per Menaggio. Stabilì di andare
prima a Menaggio poichè era a pochi chilometri. All'ingresso del paese trovammo
uno sbarramento di Camice Nere con alcune mitragliatrici. Non volevano farci
passare. Casalinuovo fece chiamare il comandante del reparto e ottenemmo via
libera».
Rodolfo Graziani invece, che a Como la sera precedente aveva insistito con
Mussolini perchè tornasse a Milano, a bordo della sua grossa Alfa Romeo
scoperta, è arrivato dopo il Duce a Menaggio. Con lui i generali Bonomi e
Sorrentino e il baluc basci Embayè Teclaimanot. Egli ha una sua precisa linea di
condotta: incontrare il Duce per congedarsi con onore e dimostrare che la sua
Armata Liguria non ripete quanto accadde l'8 settembre con Badoglio.
In ogni caso Graziani non deve difendere una sua attestazione
politico-ideologica, egli segue esclusivamente un suo senso dell'onore militare.
Il fatto è, però, che il Duce perderà con lui un altro bel pezzo del suo Stato.
Sembra che siano circa le 7,30, ma forse è più tardi e il maresciallo chiede di
Mussolini e Castelli gli dice che si trova in casa sua. Sembra quindi che poi
incontrerà il Duce in casa di Castelli e si congeda da questi affermando che per
la sua carica di ministro delle forze armate deve tornare ai corpi di comando
d'Armata.
Mussolini rispose: «Maresciallo se volete andate pure».
Si salutarono militarmente e si diedero una stretta di mano.
Quindi Graziani torna indietro con il suo piccolo seguito, ripassa per Como e
finirà poi a Cernobbio, al comando tedesco, dove la sera del giorno successivo
sarà prelevato da una missione americana.
È proprio la diversità dei movimenti e degli atteggiamenti di Graziani, che
intende mettersi in contatto con i tedeschi per condividere con loro la resa
militare agli Alleati, e di Mussolini che invece ha ancora degli intenti
strategici e cerca il modo migliore di chiudere la sua avventura storica, che
attestano indiscutibilmente la volontà e l'operato del Duce.
Mussolini lascia andare tutti coloro che lo vogliono, spera in un sopraggiungere
di sufficienti formazioni armate di fedelissimi da Como che gli consentano un
minimo di sicurezza per spostarsi in una Valtellina che, seppur tramontata come
roccaforte militare, consentirebbe almeno qualche giorno di agibilità in più e
soprattutto la possibilità, almeno simbolica, di poter trattare con le armi in
pugno.
Tra le altre cose, è anche probabile che Mussolini attendesse l'annuncio
ufficiale della firma della resa tedesca che pur gli era stata annunciata in
Arcivescovado, firma che gli avrebbe consentito una storica denuncia pubblica
riscattando di botto il tradimento dell'8 settembre, aprendogli al contempo
ampie possibilità di manovra diplomatica.
Non volendo espatriare, non volendo arroccarsi in un grande centro e non
potendo, senza armati, procedere per la Valtellina, l'unica alternativa era
stata proprio quella di una sosta transitoria nelle vicinanze di Como, in un
paesino defilato e tranquillo come Menaggio ancora in mano alle forze del vice
federale Castelli e in attesa di un certo numero di fascisti armati.
Racconta Carradori, complicando però la ricostruzione cronologica di quegli
eventi: «Verso le otto e mezza, Castelli mi avvertì che forse sarebbe stato
opportuno svegliare il Duce in quanto oramai la notizia della presenza di
Mussolini si era sparsa un po' dovunque, lungo il lago e davanti alla casa e
nelle viuzze adiacenti si stava adunando una piccola folla animata da intenzioni
non amichevoli. Nei giorni precedenti alcuni partigiani erano stati uccisi
proprio dalla BN di Menaggio durante un rastrellamento seguito ad un attentato
ed era probabile che tra la gente che rumoreggiava fuori vi fossero parenti e
amici dei caduti. Non ci fu bisogno di svegliare il Duce. Aveva dormito ben
poco. Chiese notizie di Pavolini partito da pochi minuti, poi si rivesti
rapidamente e, uscendo da una porta secondaria raggiungemmo la macchina già con
il motore in moto, diretti a Grandola sulle alture di Menaggio dove avremmo
trovato rifugio, ci spiegò Castelli, nella locale caserma della Confinaria».
Abbiamo riportato anche questo aneddoto raccontato da Carradori, per mostrare la
difficoltà di ricostruire la sequenza di quegli eventi. A meno che Carradori non
si riferisca, con la frase «Pavolini partito da pochi minuti", al fatto che
Pavolini fosse partito da Como per arrivare a Menaggio, c'è una profonda
contraddizione nel racconto, perchè Pavolini arriverà a Menaggio proprio mentre
il Duce sta per trasferirsi a Grandola. Ed oltretutto la piccola folla che si
trovava fuori, alla vista del Duce, prese ad applaudire e non risultano
atteggiamenti ostili.
Lo spostamento di Mussolini a Grandola
In mattinata, prima delle 9, per evitare grossi assembramenti e per distogliere
l'attenzione dal Duce, una buona parte del seguito viene fatta retrocedere nella
vicina Cadenabbia, circa 4 chilometri, dove i più si sistemeranno a Villa Buena
Ventura, mentre il Duce ed una parte dei suoi uomini si sposteranno più tardi
nella soprastante Grandola frazione sette chilometri sul monte sopra Menaggio in
direzione delle gallerie di Gandria, del confine di stato con la Confederazione
elvetica, presso Lugano.
Questa tappa intermedia, chiaramente finalizzata ad un momento di isolamento,
farà sorgere varie illazioni, tutte in malafede, che vorrebbero insinuare una
fuga, magari a piedi, di Mussolini verso il confine Svizzero. Basta la semplice
constatazione delle distanze (una ventina di km.) e dei transiti impervi che
intercorrono da Grandola ai varchi di frontiera per non prendere neppure in
considerazione questa eventualità.
Solo l'ufficiale tedesco Birzer, al quale Mussolini non aveva comunicato la sua
intenzione di spostarsi su a Grandola, e il suo generale Wolff, nei loro
vaneggiamenti futuri, penseranno a ipotetici piani di fuga di Mussolini a folle
corsa verso il confine.
Eppure proprio lo stesso Birzer a Grandola, ad un certo punto se ne andrà
tranquillamente verso Menaggio per cercare l'autocarro delle SS ed una sua
macchina ivi rimasti. Lascerà quindi il Duce e gli altri ministri con il solo
sergente Gunther con un suo uomo. Quando ritorna non c'è alcuna scena di tentata
fuga dei fascisti, i quali sono invece impegnati a far la spesa di generi
alimentari allo spaccio nel centro del paesino.
Sembra che a consigliare il diversivo di spostarsi su a Grandola contribuirono
sia il vice federale Emilio Castelli che lo confermerà più volte nelle sue
testimonianze, che il maggiore Guido Fiaccarini comandante del II battaglione
della GNR Confinaria di Nobiallo di Menaggio. Essenzialmente questo spostamento
venne suggerito per motivi di tranquillità e sicurezza, visto che oramai in
tutta Menaggio la presenza di Mussolini era nota.
Racconta Fiaccarini: «Mentre ero in casa Castelli, dunque, venni avvicinato da
Nicola Bombacci che mi disse: "Maggiore, bisogna cercare di mettere in salvo il
Duce, per guadagnare tempo in attesa che si chiarisca la situazione". Risposi
che una buona soluzione poteva essere quella di isolare Mussolini dal suo
seguito alloggiandolo nella caserma della Confinaria, a Grandola. Per attuare
questo piano sarebbe stato necessario richiamare subito in sede la Compagnia
mobile Confinaria che da due giorni, al comando del capitano Baviera, si trovava
a Chiavenna per un ciclo operativo e che, nel periodo di riposo, era accasermata
appunto a Grandola. Si trattava di cento uomini, disciplinatissimi, molto bene
addestrati e armati. Protetto dai miei confinari e dagli squadristi della
Brigata nera locale, Mussolini avrebbe potuto attendere con una certa sicurezza
gli sviluppi della situazione. Ma il Duce, in un primo momento, non fu del
parere di separarsi dal suo seguito. Fu Bombacci a convincerlo, dicendogli, tra
l'altro, che alcuni dei suoi ministri volevano tentare di raggiungere la
Svizzera. Il Duce, allora, che non voleva saperne di espatriare, decise di
trasferirsi altrove anche per lasciare i suoi collaboratori liberi di scegliere
il proprio destino».
La versione, afferma Viganò, è coincidente con quanto il Fiaccarini aveva da
subito raccontato a Giuseppe Rocco, tenente della GNR di Sondrio, in carcere con
lui.
A Grandola la caserma, messa a disposizione del maggiore Fiaccarini era
l'albergo Miravalle, sul poggio in vista del lago e subito sopra Menaggio.
Doveva esserci un piantone con cinque o sei militi, ci attesta A. Zanella nella
sua opera citata, e un sacco di armi e cannoncini, come dirà il brigatista
Enrico Clerici aggiungendo che, oltretutto, la giudicava l'idea migliore per
stare ad aspettare gli Alleati.
Ma il Duce rifiutò il piano, di immobilizzarsi a Grandola. Raccontò Castelli:
«Proprio con lui concordammo uno stratagemma allo scopo di farlo arrivare a
Grandola da solo, con una minima scorta e senza il corteo di ministri e delle SS
tedesche, la cui apparizione avrebbe rivelato la sua presenza. In pratica,
sarebbe salito in automobile con Porta, Bombacci e due dei miei militi e si
sarebbe diretto a grande velocità sulla strada di Porlezza. Inevitabilmente SS e
gerarchi gli sarebbero andati dietro. Ma la vettura del Duce, favorita dal
vantaggio conseguito in partenza, giunta ad una certa curva da me indicata,
avrebbe svoltato rapidamente a sinistra, puntando sul Miravalle, sopra
Grandola».
È a Grandola che Mussolini vedrà Claretta Petacci. Vi era stata condotta con gli
altri familiari da Casalinuovo. Lei si era sistemata nella villetta con la
Ritossa ed i suoi due bambini.
Racconterà Carradori: «La Petacci Mussolini l'ha vista quando è uscito un po'
prima di mezzogiorno, sul piazzale davanti alla caserma. Accusò il colpo. Ero
accanto a lui... Rimase male, era piuttosto seccato e non disse nulla».
Carradori esprimerà anche la seguente considerazione su Claretta Petacci: «La
facevo al sicuro in Spagna, assieme ai suoi genitori e alla sorella Miryam.
L'avevo introdotta io stesso nell'ufficio del Duce, alla Prefettura in Corso
Monforte, a Milano quel 22 aprile, meno di una settimana prima. E avevo
ascoltato in parte il dialogo tra loro. Mussolini le aveva ordinato di partire
con i genitori e la sorella sull'aereo fatto predisporre per loro al Forlanini.
Sul momento Clara non aveva fatto obiezioni, ma poi, come ricostruii in seguito,
si era raccomandata al fratello perchè la facesse salire sulla sua Alfa Romeo
accanto a Zita (la Ritossa - N.d.R.) e i bambini».
Aggiungerà poi che per tutta la giornata Mussolini e la Petacci non si sono
assolutamente parlati, anche se su questo ci sono dei dubbi, comunque è certo
che tutte le storielle rosa create attorno a romanzati incontri tra Mussolini e
Claretta, sono pure invenzioni.
Vera invece è una sfuriata di gelosia che la Petacci ebbe a fare non appena vide
la Elena Curti. Successivamente, racconterà la Curti, quando la mattina dopo si
rividero nell'autoblindo, in Claretta, ogni traccia di gelosia era sparita.
Seppe poi la Curti che a Claretta, nel frattempo, era stato spiegato chi fosse
in realtà quella ragazza, figlia naturale del Duce, che si trovava tra loro.
Con il passare delle ore del giorno si verificherà l'isolamento del presidio di
Argegno a causa del taglio dei fili del telefono, mentre a Carate Urio la
Brigata Nera ha deposto le armi mettendo così in pericolo tutta la zona da
Argegno a Como.
Piano, piano i partigiani si infiltreranno tra Tremezzo e Colonno. La viabilità
stradale tra Como e Menaggio e da li in avanti, si farà sempre più precaria, ma
almeno per la mattinata non c'è ancora niente che non possa essere superato con
la decisione e la forza delle armi.
L'arrivo
mattutino di Pavolini a Menaggio
Seguito da un altra macchina con a bordo Elena Curti e Virgilio Pallottelli, in
prima mattinata giunge a Menaggio Pavolini. Qui incrociano il gruppo delle auto
con Mussolini, che in procinto di spostarsi nella soprastante Grandola, sta
transitando nel piccolo borgo dove la gente riconobbe il Duce e gli riservò
incredibilmente la solita accoglienza di applausi.
Racconta Elena Curti che si trovava con Pallottelli: «Arrivammo a Menaggio in
tempo per assistere ad una scena assurda: un gruppetto di gente che scandiva
"viva il Duce, viva il Duce" e batteva le mani al passaggio della macchina.
(...) vidi la macchina girare a destra verso Grandola».
Pallottelli e la Curti, afferma quest'ultima, arrivarono poi anche loro a
Grandola intorno alle 9 del mattino, ma probabilmente questo orario è sbagliato
in difetto, oppure erano errati in eccesso tutti i precedenti orari da altri
testimoniati, compreso l'orario di partenza di Pavolini.
Alcune fonti dicono che lì a Menaggio, accanto alle auto ferme, si tenne quello
che alcuni definirono una specie di "Consiglio dei Ministri". Carradori, invece
nelle sue memorie, collocherà l'incontro di Pavolini con il Duce in casa di
Castelli.
De Benedicts, in macchina con Pavolini, dirà: «Quando siamo arrivati a Menaggio
ci hanno condotti dal Duce e so che, appena usciti, siamo ripartiti per Como».
Comunque sia, è probabile che Pavolini abbia pregato il Duce di tornare a Como
visto lo scompiglio che si era determinato in seguito al mancato appuntamento e
che inoltre abbia informato il Duce del mancato visto di ingresso concesso dagli
svizzeri a donna Rachele e familiari a ponte Chiasso. Quindi che lo abbia
informato che il grosso dei fascisti ancora deve arrivare a Como.
Il Duce gli indica di licenziare i dubbiosi e gli inermi ed è certo che gli
ordina di organizzare a Como una colonna di armati da portare a Menaggio.
Come noto, Pavolini passando poi accanto ai gerarchi che stanno rientrando da
Cadenabbia comunica loro di essere diretto a Como per ritornare prima possibile
con una colonna di armati.
Nella fase di ritorno a Como le due auto di Pavolini, in una c'è Giulio Gay,
comandante dei reparti giovanili del PFR, saranno attaccate dai partigiani e
rimarrà ferito l'autista Santellani. Sembra che i partigiani ritenessero che
nell'auto coperta, quella dove si trovavano Gay e Santellani, ci fosse il Duce.
Anche Pavolini riportò leggere ferite.
Se non bastasse quanto riuscì a ricostruire Bruno Spanpanato nel dopoguerra, una
testimonianza di Elena Curti, che tra poco vedremo, spazza via definitivamente
ogni scusa almanaccata da alcuni capi fascisti rimasti a Como il 26 aprile, che
nel dopoguerra cercarono di giustificare il loro comportamento che li portò ad
una ingloriosa e tragica resa, addossando indirettamente a Mussolini e alle sue
presunte indecisioni, il tracollo che venne a verificarsi nella città lariana.
I motivi addotti erano sempre gli stessi: la partenza affrettata di Mussolini da
Como che li aveva sconcertati, il mancato ritorno del Duce tra i suoi uomini a
Como, l'equivoco che il Duce li avrebbe sciolti dal giuramento determinando
ulteriore sbandamento, ecc.
Tra questi motivi si inserì anche una testimonianza del federale di Milano
Vincenzo Costa (riportata in "Storia della Guerra Civile in Italia" di Pisanò
del 1966), il quale disse che la mattina presto del 26 aprile, poco dopo le 8 si
sarebbe subito recato a Menaggio per parlare con il Duce.
Riferì Costa che Pavolini, da poco arrivato con lui a Como e terminato il suo
rapporto, lo prese da parte e gli ordinò di raggiungere subito Menaggio per
informare il Duce che i fascisti erano arrivati a Como e lui decidesse, di
conseguenza, se dovevano raggiungerlo a Menaggio, consigliandolo però anche di
tornare a Como vista la situazione determinatasi in città.
In pratica il Costa aggiusta e indirettamente giustifica, con questa sua
testimonianza, tutte le indecisioni e i ritardi che ebbero a verificarsi
all'arrivo dei fascisti, provenienti da Milano, in città.
Dice Costa: «Partii subito al volante della mia automobile. Saranno state le
8,15, con me erano il capitano Perrone, il capitano Frediano e il tenente Boba.
Percorremmo i 27 Km. che separano Como da Milano a forte andatura senza
incontrare ostacoli di sorta. Non scorgemmo alcun segno di attività partigiana.
Alle 9 giunsi davanti la casa di Emilio Castelli».
Qui arrivati trovarono però il Duce che in quel momento stava riposando in casa
del federale Castelli. Costa parlò con Barracu e Zerbino e quest'ultimo si
incaricò di andare a vedere se il Duce era sveglio. Così il Costa narrò questi
fatti, rammaricandosi di non aver insistito per andarci personalmente, gli verrà
quindi fatto sapere: «Zerbino ha informato il Duce del vostro arrivo a Como. Mi
ha ordinato di far sapere a Pavolini, tuo tramite, che prima di mezzogiorno
comunicherà alla prefettura di Como gli ordini definitivi. Qui attendiamo una
importante comunicazione. In ogni caso anche da qui potremo raggiungere la
Valtellina... Ripeti a Pavolini quanto ti ho detto, che i fascisti siano pronti,
riuniti e disciplinati. Gli ordini non mancheranno».
Tornato a Como e riferito a Pavolini quanto appreso a Menaggio questi, secondo
Costa, imprecando contro i consiglieri che erano attorno a Mussolini e che a suo
dire non si rendevano conto della situazione, sembra verso le 9,45, prese la
decisione di recarsi lui stesso a Menaggio.
Questa di Costa potrebbe essere una testimonianza decisiva per interpretare
quelle vicende, ma abbiamo il motivo di esprimere molto riserve sulla sua
attendibilità anche se non è possibile, documenti alla mano, di dare con
certezza del bugiardo al Costa.
Per prima cosa, infatti, dobbiamo far notare che, anni prima, il Costa aveva
confidato a Spampanato un fatto simile, ma si era parlato però di un ordine
arrivato da Menaggio e mandato da Barracu che diceva di aspettare disposizioni,
come scrisse Spampanato nel suo "Contromemoriale". Adesso invece si viene ad
apprendere di una sortita diretta del Costa sul posto anche se, tra le due
versioni, sono possibili cattive interpretazioni o che vennero riportate e
pubblicate incomplete.
Comunque sia e questo è certo, poco dopo questa sortita narrata dal Costa, partì
ed arrivò a Menaggio il segretario del PFR Pavolini (come abbiamo visto c'era
anche Elena Curti raccolta per strada) e quindi, quanto accade ora, supera
sicuramente il racconto di Costa, a prescindere dalla sua attendibilità (anche
gli orari, affinchè siano possibili questi due viaggi, uno a distanza
dell'altro, sono teoricamente possibili, ma molto ristretti e alquanto difficili
da far coincidere).
Infatti il segretario del PFR arrivò a Menaggio proprio mentre Mussolini si
stava per spostare nella soprastante Grandola. Ebbene, come abbiamo visto,
Pavolini ebbe da Mussolini il compito di tornare a Como, inquadrare quanti più
armati potesse e portarli a Menaggio.
Altro che attendere disposizioni! Non a caso già negli anni '50, circa questa
storia, Spampanato ebbe ad osservare nel suo "Contromemoriale": «Il riferimento
di Costa non può essere esatto perchè durante tutta la giornata Mussolini e gli
altri attesero la colonna e gli spostamenti che fecero furono fatti in ragione
di quell'attesa».
E aggiungerà Spampanato che a Grandola, Ermanno Amicucci, Fernando Feliciani e
Marcello Fabiani, sentirono il Duce che a tavola ripeteva che si andava in
Valtellina e che si aspettava la colonna. Quali altri ordini avrebbe dovuto
mandare?!
Racconterà Feliciani, capitano della divisione bersaglieri "Italia" della RSI,
che aspettando i fascisti da Como le ore passavano sempre più inquiete, in
ultimo in una attesa spasmodica.
E Amicucci confermerà che dovunque si era fermato, Mussolini sempre aveva atteso
l'arrivo dei fascisti armati. Su questo non ci sono dubbi.
Ma sempre a questo proposito, spostiamoci qualche ora più avanti e passiamo la
parola alla Curti la quale afferma, si noti l'ora, che successivamente, intorno
a mezzogiorno (quando secondo il Costa il Duce avrebbe dovuto mandare chissà
quali ordini a Como): «Buffarini è uscito dall'albergo (di Grandola - N.d.R.) e
mi ha detto che il Duce era molto preoccupato perché non potevano contattare
Pavolini che era a Como. Impossibile qualsiasi contatto telefonico perchè le
linee sono state tagliate dai partigiani. Io gli ho detto che sarei andata ben
volentieri a Como per avvisare il Capo delle Camicie Nere e lui mi ha procurato
una bicicletta per farlo, facendomi promettere tre volte che sarei tornata
indietro per riferire le decisioni del Segretario del Partito».
In sostanza, racconta la Curti: «Il mio compito era quello di sollecitare il
rientro di Pavolini a Grandola o almeno recare notizie il più presto possibile».
Tutto questo trova conferma nei ricordi di Carradori, laddove dice: «A Menaggio
le comunicazioni telefoniche con Como dovevano essere interrotte e, dalla
mattina, non si poteva più telefonare con la Prefettura. Allora hanno pensato di
mandare la Curti, da Grandola a Como, per avere notizie di quello che stava
accadendo, perchè Pavolini non faceva sapere più nulla».
Dice ancora la Curti, che inforcò la bicicletta verso le tre del pomeriggio e
via a rotta di collo per Como. Dopo una decina di chilometri sentì anche
sparare, ma proseguì fingendosi una sprovveduta che non si rendeva conto del
pericolo. Quindi arrivò a Lenno, poi Argegno, Cernobbio e infine all'ingresso di
Como incontrò anche una pattuglia del reparto "Onore e Combattimento". A Como
trovò con facilità la sede del Fascio e l'ufficio di Pavolini.
È quindi evidente, che al mattino del 26, Pavolini, consultatosi a Menaggio con
Mussolini e ripartito poco dopo per Como, ha ricevuto l'ordine di condurre i
fascisti armati a Menaggio ed è qui che lo stanno aspettando. La storia della
importante comunicazione che il governo dovrebbe avere sul posto (e che darà
adito alle tante voci su un presunto appuntamento con emissari Alleati) e
l'altra nota del Costa che solo verso mezzogiorno si sarebbero fatti avere in
Prefettura a Como gli ordini definitivi, non si conciliano affatto con lo
svolgersi accertato di quegli eventi.
I motivi della mancata esecuzione dell'ordine dato a Pavolini
Considerando tutta quella situazione, sotto ogni punto di vista, possiamo dire
che la mancata attuazione dell'ordine dato da Mussolini a Pavolini, anche se è
in buona parte imputabile al crollo psicologico e morale che ebbero i fascisti,
che in mattinata giungevano mano a mano a Como e non trovando Mussolini
ricevevano in cambio false e interessate notizie di una fuga del governo in
Svizzera, sbandandosi immediatamente, è soprattutto dovuta ai vari comandanti
che non tennero la situazione in pugno anche perchè intimamente inclini a
cercare la salvezza attraverso trattative sul posto. È inutile cercare altre
improbabili scusanti.
Ma una prematura resa nel caos di Como al CLN, mediata poi a sera anche con
emissari americani (Salvatore Guastoni) e rappresentanti del Servizio
Informazioni della regia marina collegati a questi (Salvatore Dessì), non si
conciliava affatto con gli intenti di Mussolini.
È inoltre assurdo pensare che Mussolini, dopo aver fatto una trentina di
chilometri verso la Valtellina, potesse tornare indietro solo per dare morale ai
fascisti, ed è anche evidente che egli sta perseguendo un suo semplice disegno:
non attendere gli Alleati nelle grandi città di Milano o di Como per consegnarsi
a questi semplicemente inerme, né espatriare in qualche modo in Svizzera, ma
prendere tempo, in attesa che accada un fatto nuovo, in attesa che magari venga
ufficializzata la resa tedesca. Poi esaurita ogni minima risorsa militare, come
una parvenza di resistenza in Valtellina ed un eventuale ulteriore arretramento
ai confini del Reich, solo allora, semmai potrà tentare l'estrema trattativa di
resa forte dei suoi documenti.
È una strategia temporizzatrice semplice, minimale, ma anche logica e
soprattutto animata dalla speranza di un minimo di finale decoroso. Trincerarsi
a Milano ed attendere gli Alleati avrebbe sicuramente salvato la vita a molti,
ma sarebbe stato distruttivo per la città, improduttivo per gli interessi
nazionali e forse non molto decente per il decoro del fascismo.
Purtroppo questa strategia non si conciliava con coloro del suo seguito che
vorrebbero subito avere programmi concreti, magari di salvezza e di resa agli
Alleati e soprattutto non può prescindere da un minimo di scorta armata. Che
purtroppo non verrà.
Pavolini ritorna a Como, ma la situazione è oramai precipitata
A Como, intanto, in mattinata era tornato da Menaggio anche Graziani (con Bonomi
e Sorrentino), ma solo per dire che vuole incontrare il generale Wolff in merito
alle modalità di una comune resa.
Pavolini invece ritornerà a Como sicuramente dopo le 11, ma non c'è unanimità su
questo orario, perchè altri affermano che tornò molto più tardi. A. Zanella nel
suo libro citato fa una ricostruzione che attesta che Pavolini giunge in
federazione a Como, ferito leggermente e con una decina di uomini, verso l'una;
già prima l'autista Santellani ferito gravemente era stato portato all'ospedale
Sant'Anna.
In ogni caso l'interrogativo che qui sorge subito spontaneo è come sia stato
possibile che, già a quell'ora, egli non è più in grado di ottemperare agli
ordini di Mussolini per organizzare una colonna armata da portare a Menaggio,
tanto più che oramai doveva essere arrivato in città il grosso dei fascisti. È
chiaro che la situazione a Como era definitivamente degenerata.
Secondo Giorgio Pisanò, che lo attesta in "Storia della Guerra Civile in Italia"
già citata, basandosi però prevalentemente sui racconti del federale Costa, quei
momenti, ancora una volta, sembrano tutti imperniati sulla storia di una
presunta attesa da Menaggio di ordini da parte di Mussolini, cosa questa poco
credibile perchè, oltretutto, con il ritorno di Pavolini doveva essere
definitivamente chiaro il quadro della situazione.
Si afferma comunque in "Storia della Guerra Civile in Italia" (Ed. FPE 1966):
«Alle 15 Pavolini decise di rompere gli indugi. Le formazioni fasciste erano
ancora salde e disciplinate (se lo fossero state veramente, salde e
disciplinate, non si capisce perchè Pavolini non le ha portate subito dal Duce!
- N.d.R.), ma l'effetto psicologico delle trasmissioni di Radio Milano stava
determinando uno stato d'animo aggressivo in parte della popolazione e nelle
poche bande partigiane esistenti nella zona. L'atmosfera stava mutando, si può
dire, di minuto in minuto. Fino a quando i fascisti avrebbero saputo attendere
quegli ordini che non arrivavano mai? (...) Pavolini in compagnia di Romualdi,
Motta e De Benedictis si portò sul piazzale antistante la sede del fascio.
(proprio a Costa che lo interroga con lo sguardo dice:) "Ora basta, bisogna
farla finita, vado dal Duce e lo riporto qui"».
Racconta allora Costa: «Le parole di Pavolini valsero a rianimarci. Se il Duce
fosse tornato a Como entro il tramonto sarebbe stato possibile percorrere la
strada per Lecco, raggiungere la Valtellina prima della notte. Mentre ci
intrattenevamo con Pavolini giunse il capo della provincia di Novara, Enrico
Vezzalini (reduce da Grandola e di cui, stranamente, il Costa non dice cosa gli
aveva riferito Mussolini - N.d.R.). (...) Poco dopo l'arrivo di Vezzalini
giunsero da Milano alcuni grossi camion della brigata nera di Lucca al comando
di Utimpergher e altri automezzi pieni di giovani "Fiamme bianche" al comando
del capitano Gay. (...) Pavolini alzatosi in piedi sulla sua vettura improvvisò
un discorso scatenando una travolgente manifestazione di fede. (...) All'ultimo
momento Pavolini mi invitò a seguirlo (per Menaggio - N.d.R.), ma i miei
ufficiali mi fecero presente a gran voce che era necessaria la mia presenza a
Como per tenere uniti gli uomini delle brigate nere».
Come si possa affermare in "Storia della Guerra Civile in Italia", che alle 15,
tornato Pavolini da Menaggio, ancora si dovevano attendere ordini ("che non
arrivavano mai") è veramente singolare, tanto più che poco dopo, con il racconto
del Costa, vi si aggiunge anche il rientro di Vezzalini a Como, proveniente da
Grandola, dove aveva visto il Duce e ben sapeva dell'attesa che vi era a
Grandola di Pavolini e di una sua colonna di armati.
Ma come vedremo tutta questa ricostruzione sarà smentita non solo dalla esatta
interpretazione di quegli eventi, ma anche dalla importante testimonianza di
Elena Curti che era arrivata a Como proprio per rendere nota l'attesa che c'era
a Grandola ed aveva subito incontrato Pavolini.
Per ora andiamo avanti.
Racconterà Romualdi, dopo aver osservato che tornarono alle 14 (Pavolini da
Menaggio - N.d.R.): «Pavolini mi conferma che la situazione lungo la strada è
oramai molto pericolosa. Occorre mandare subito dei soldati per proteggere
Mussolini che ha con sè una settantina di uomini in tutto, compresi i ministri».
In un altra testimonianza però dirà: «Perchè non c'era la certezza che tutte le
forze richiamate a Como fossero giunte; siccome doveva ancora arrivare da
Bergamo Facduelle con gli uomini; Vecchini, prefetto di Bergamo con altri
militi; la Brigata Nera Biagioni da Milano e ancora altri, pensammo di non dover
abbandonare Como perchè sarebbe stata immediatamente occupata dai partigiani,
mentre occorreva portare indietro Mussolini».
Da queste poche frasi si intuisce l'inconsistenza delle giustificazioni di
Romualdi:
a) la strada dice Pavolini è oramai pericolosa. D'accordo, ma con il passare
delle ore lo sarà ancora di più, quindi l'unica è quella di forzare subito la
situazione.
b) Bisogna mandare subito degli uomini, si dice, ma in realtà occorre
incolonnarsi tutti. Invece si diedero disposizioni per mandare intanto i ragazzi
di "Onore e Combattimento" che tra l'altro partirono molto più tardi e si
fermarono a Cernobbio invischiati nel caos di quelle ore e vennero disarmati
dall'accondiscendenza degli ufficiali che accettarono sul posto di ottemperare a
presunti accordi di resa.
c) È vero che devono ancora arrivare altri fascisti da fuori e che abbandonando
Como la città rischia di essere presa dai partigiani, ma in quel momento bisogna
fare una scelta e questa dice di avviarsi subito per Menaggio, predisponendo un
minimo di raccordo con quelli che dovranno arrivare. Se non lo si è fatto è
perchè oramai, causa lo sbandamento generale non era più possibile farlo, oppure
non ci fu la volontà di farlo. Tutto il resto è secondario.
d) La soluzione, il toccasana, per Romualdi ed altri, sarebbe quella di portare
indietro Mussolini, ipotesi cervellotica, ancor più pericolosa e totalmente
assurda. È per far che cosa, poi?
È sottointeso, per rianimare i fascisti e rimettersi in marcia, ma per andare
dove, di nuovo verso la Valtellina o incontro agli Alleati?
La verità è che Pavolini al suo ritorno trova già una situazione definitivamente
compromessa, non solo dal punto di vista psicologico e dalla predisposizione a
trattare una qualunque via di uscita, ma oramai anche da quello della
disgregazione e dello sbandamento generale divenuto nel frattempo inarrestabile.
La frittata era stata fatta in mattinata.
Ed è così che passano altre ore, si continua a discutere, a confrontarsi, a
prendere in considerazione le prime voci su una proposta di resa o di accordo
militare per evitare drammi a tutti, alla cittadinanza, ecc. Infatti quello poi
che si deciderà, a seguito delle considerazioni sopra esposte, sarà di inviare a
Menaggio un reparto armato di Onore e Combattimento, una formazione rimasta
compatta in armi, e la stipula di una tregua d'armi con il CLN per favorire una
pacifica sosta dei fascisti ovvero un loro ordinato riflusso.
Questo mentre Pavolini deciderà di tornare a Menaggio, dicesi per convincere il
Duce a tornare indietro, anche se tutto appare irreale visto che Pavolini era
stato rimandato da Mussolini a Como proprio per organizzare una colonna armata
da portare a Menaggio.
Romualdi ricorderà che ci fu una discussione lunga e per certi versi drammatica
e forse iniziò verso le 16. Ne darà anche un particolareggiato elenco dei
presenti come ci attesta Marino Viganò nella sua ricerca: Vincenzo Costa,
federale di Milano e comandante della BN "Aldo Resega"; Francesco Colombo
comandante della Legione mobile autonoma di PS "E. Muti"; Stefano Motta,
federale di Mantova e comandante della BN "Stefano Turchetti"; Aldo Cappelli e
Otello Gaddi colonnelli dello stato maggiore delle BN; Idreno Utimpergher, già
federale di Lucca e comandante della BN "Benito Mussolini" ; Pierino Torri, ex
federale di Bologna e comandante della BN "Eugenio Facchini"; Livio Faloppa,
federale di Genova e comandante della BN "Nino Parodi"; Fortunato Polvani,
commissario federale di Firenze e comandante della BN "Raffaele Manganiello"; il
maggiore Giulio Gay, Ispettore nazionale dei gruppi d'azione giovanile del PFR e
comandane del I reparto d'assalto Onore e Combattimento; Enrico Vezzalini,
ispettore generale del PFR; Alberto Airoldi, vice federale di Como e vice
comandante della BN "Rodini"; il maggiore Plinio Butti comandante il II
battaglione; Alfredo De Gasperi, capo ufficio stampa e propaganda della
federazione. Oltre ovviamente a vari fascisti di ogni provenienza.
Secondo Romualdi, dopo la partenza del reparto di Onore e Combattimento: «...
continuammo a discutere fra di noi, fino a quando Pavolini prese una decisione e
disse: "Io non posso restare in questa situazione, Romualdi ti prego di restare
tu con gli altri".
Io invece ero tra coloro che chiedevano di partire tutti e di andare tutti
assieme. Ma Pavolini disse: "No, tutti assieme non possiamo andare perchè
aspettiamo tutta quella gente. Poi la situazione non è ancora chiara. Aspetta
domani mattina, poi ci sono le trattative in corso: dicono che ci siano dei
pourpaler attraverso il capo della Provincia (Renato Celio - N.D.)"».
In ogni caso, come al solito, Romualdi cerca di mettersi tra coloro che avevano
visto giusto, ovvero volevano in qualche modo partire tutti e quindi, di fatto,
fa notare che fu Pavolini a prendere una decisione diversa. Fa notare anche come
Pavolini, tra le altre cose, consideri seriamente il fatto che ci sono delle
trattative in corso.
Anche in questo caso non vorremmo mettere in dubbio i ricordi di Romualdi, ma
ancora una volta dobbiamo farci una idea di quegli avvenimenti in base ai fatti
e non solo su questi ricordi di parte.
E i fatti ci dicono che per Pavolini, la decisione di tornare oramai da solo a
Menaggio, era divenuta scontata sin da quando era stato avvisato da Elena Curti
(appositamente inviata da Grandola) della spasmodica attesa in cui si trovava il
governo ivi isolato.
Ed a nostro avviso torna da solo perchè oramai non era più possibile fare
diversamente e non perchè, a quell'ora poi, era ancora necessario aspettare
altri arrivi di fascisti o ipotetici altri ordini da Menaggio.
E se Pavolini, che pur ha avuto ordini dal Duce di condurre i Fascisti a
Menaggio, è costretto a fare una dolorosa scelta diversa, come è possibile che
invece proprio Romualdi, che oltretutto parla al plurale («ero tra coloro»)
ritiene di poter far partire tutti per Menaggio e non lo fa?
Per le trattative in corso poi, è strano che sia Pavolini, assente da Como per
buona parte della mattinata, a far notare una loro importanza (indiretta
giustificazione delle trattative stesse?).
Quindi dovremmo concludere che anche Pavolini rimase invischiato in questa
allucinante situazione? In parte potrebbe anche darsi, ma non crediamo nei
termini come potrebbe apparire dai ricordi di Romualdi. È la sequenza degli
avvenimenti, anche se confusa e difficile da ricostruire, che non collima e ci
dice invece che Pavolini è per buona parte fuori da certe responsabilità..
Sarà anche difficile ricostruire i movimenti di Pavolini dal momento del suo
ritorno a Como alla nuova e ultima partenza serale per Menaggio anche perchè gli
orari indicati dal Costa, dal Romualdi e da altri, sono alquanto incongruenti.
Sappiamo che precedentemente ha tenuto dei concitati incontri con i suoi, poi
forse verso le 13 lo ritroviamo in Prefettura dove sembra che rimase con la
moglie e i figli fino alle 15,30.
Dice il Celio che Pavolini gli comunicò che sarebbe ripartito per Menaggio con
una schiera di suoi uomini e quattro autoblindo per le 17, mentre l'intera
colonna al comando di Romualdi e Colombo sarebbe partita nella mattinata del 27.
Elena Curti, come abbiamo accennato, appositamente partita da Grandola per
arrivare a Como ed avere notizie di Pavolini, vi arriva in un orario imprecisato
(aveva affermato di essere partita da Grandola circa alle 15, ma probabilmente
era prima) e lo trova nel suo ufficio pieno di fumo alla sede del Fascio in una
selva di gente che parlava tutta insieme.
Pavolini la vede e sgrana gli occhi. "Vengo da Grandola" dice la Curti, e gli
spiega la situazione. "Va bene, va bene. Parto subito" gli dice Pavolini e gli
dice che verrà a prenderla con l'autoblindo.
La Curti colloca l'episodio a poco dopo le 16, ed aggiunge che poi, verso le 18,
era ancora in attesa nei pressi assieme alla sua bici con la quale era arrivata
a Como.
È evidente, quindi, che Pavolini non aveva potuto ottemperare agli ordini di
Mussolini di portare a Menaggio i fascisti armati, non tanto perchè la strada è
diventata pericolosa, ma perchè la disgregazione dei fascisti è oramai
inarrestabile ed i comandanti in sua assenza, invece di aver fatto fronte comune
e fuoco e fiamme per organizzare la marcia verso Menaggio, si sono messi a
discutere, ad ascoltare a soppesare i pro e i contro, ad attendere, dissolvendo
nel corso della mattinata il piccolo patrimonio di forza militare che pur
avevano.
Pavolini oramai non può che prendere atto che è iniziato lo squagliamento
generale e che i suoi sottoposti sono nell'ordine di idee di risolvere la
situazione con le trattative. Egli non sa più a che santo votarsi, cerca di
tamponare qualche situazione, da disposizioni contingenti o di settore, arringa
gli uomini, ma non è assolutamente in grado di incolonnare una massa sufficiente
di armati. Si adegua al miraggio che forse, riportando indietro il Duce, sia
ancora possibile fare qualcosa.
A differenza degli altri, finirà per sacrificarsi lui stesso, per donarsi al
Duce.
I fascisti sciolti dal giuramento?
Come abbiamo visto, tra le varie voci che si dice si diffusero in quelle ore tra
i fascisti, oltre a quelle che sarebbe stata firmata una tregua, che si sarebbe
ordinata la smobilitazione, ecc., c'è anche quella, mai appurata nei sui esatti
contorni, che Mussolini avrebbe sciolto i fascisti dal giuramento.
Su quest'ultima notizia, alcuni comandanti fascisti superstiti vi insisteranno
molto, ma la faccenda risulta alquanto subdola e non vorremmo che sia un altro
alibi addotto da quanti dovevano pur scusare certi atteggiamenti.
Vincenzo Costa rilasciò una lunga testimonianza che venne riportata da G. Pisanò
in "Storia della Guerra Civile in Italia" del 1966. Dal racconto dell'ultimo
federale di Milano si evince addirittura che Mussolini, la sera del 25 aprile,
appena ritornato in Prefettura dopo l'incontro in Arcivescovado, parlando ai
suoi uomini presenti nel vano del suo ufficio, avrebbe detto: «... lascio Milano
per evitare che diventi un campo di battaglia tra fascisti ed antifascisti.
(...) I fascisti sono liberi, liberi dal giuramento nei miei confronti. Il loro
comportamento è stato eroico, ma ora è venuto il momento di separarci. Il
ministro Pavolini vi darà delle disposizioni».
Racconta quindi il Costa dello sconcerto che prese gli astanti nell'apprendere
che, praticamente, Mussolini si congedava andandosene a Como, cosa che, tra
l'altro, faceva considerare superati anche tutti i programmi per la Valtellina.
Secondo il Costa, successivamente a questa comunicazione, egli radunò tutti i
fascisti spiegandogli la situazione e chiedendogli se volevano trincerarsi in
Milano o seguire il Duce a Como. La risposta fu di andare a Como.
È una ricostruzione questa del Costa che risulta illogica, visto che Pavolini
ebbe invece l'ordine di radunare tutti i fascisti e portarli a Como, e non trova
neppure molti riscontri in altre testimonianze. Ma quel che è peggio è una
ricostruzione che addossa su Mussolini tutta una serie di sospetti e fa nascere
varie illazioni, tra le quali quella di una possibile fuga in Svizzera che per
fortuna il Costa, nel proseguo della sua testimonianza, riconosce che era
infondata.
Non si capisce, infatti, per quale motivo il Duce doveva andarsene da solo,
portandosi dietro il governo, senza una adeguata scorta armata ed avendo per di
più licenziato i fascisti.
Quando invece risulta chiaro, incrociando le testimonianze e controllando lo
svolgersi dei fatti, che la tappa di Mussolini a Como è indicata come un pre
campo per la Valtellina e che gli ordini lasciati a Pavolini sono appunto quelli
di radunare i fascisti, magari licenziando chi non se la sentiva senza imporgli
ulteriori vincoli (forse da qui l'equivoco dello "sciogliere dal giuramento") e
raggiungerlo appunto a Como.
Ma questa storia dello scioglimento dal giuramento, come lo attesta Marino
Viganò nella sua "Resa di Como" gia citata, viene fatta risalire a quanto
ricorda Plinio Butti (comandante del II Battaglione dell'XIª BN "Cesare Rodinì"
di Como), il quale sostiene che Pavolini, salito a Menaggio (il 26 aprile in
mattinata), ha ricevuto un ordine sconcertante: «Verso le 15,30 Pavolini salito
a Menaggio e rientrato a Como, ha riunito i comandanti di reparto e in
quell'occasione ci ha detto: "... ho parlato con il Duce, vi scioglie dal
giuramento"», un ordine che se comunicato in quei termini alle milizie
significherebbe lo "squaglia, squaglia" generale. Quindi, come può il Costa,
attestare questo fatto il giorno prima a Milano se, come dice Butti, se ne ha
notizia il primo pomeriggio del giorno dopo a Como?
Gli storici sono comunque propensi a ritenere che si era ingenerato un
"equivoco" in seguito a come vennero riportate certe disposizioni di Mussolini
(il quale certamente aveva detto di licenziare i dubbiosi e gli indecisi, senza
far conto del giuramento), ma tutta questa storia non è ben chiara e vi mettiamo
un grosso punto interrogativo.
Torniamo quindi alla storica riunione, che Romualdi dice essere iniziata verso
le 16, dove venne deciso di mandare subito a Menaggio i centosettanta ragazzi di
Onore e Combattimento.
26
aprile 1945: l'incredibile resa del reparto "Onore e Combattimento"
Verso le 17, davanti alla federazione viene radunato il gruppo di Onore e
Combattimento e Pavolini, dalla scalinata, tiene un breve discorso. Sembra che
ci siano il capitano Enzo Bartocci e il tenente Renato Fortunati della compagnia
"Comando" e il capitano Enrico Bevilacqua della compagnia "Venezia".
Poche e commoventi le parole di Pavolini ai ragazzi: «La legione Guardia del
Duce non è arrivata da Rovato. Il compito di scorta passa al primo reparto
d'assalto Onore e Combattimento».
Dirà anche: «Siamo soli, disperatamente soli».
Poco dopo la breve orazione di Pavolini davanti alla federazione, quelli di
Onore e Combattimento salgono sui camion e partono per Menaggio.
«Partirono... verso le 15, o le 16 del pomeriggio» dirà Romualdi «non sono mai
arrivati e questo è un altro mistero».
Ancora una volta gli orari sono tutti scoordinati, contraddittori, non si
accordano con i momenti che attestano altre vicende, ma sostanzialmente la
situazione è questa.
Arriveranno a Cernobbio senza problemi. Subito dopo si fermano ad un posto di
blocco ed incredibilmente inizia una lunga e caotica attesa.
Un auto con bandiera bianca si stacca e si avvicina alla testa del reparto Onore
e Combattimento, seguono trattative, caos, confusione.
Elena Curti che nel frattempo, quando il sole era scomparso dietro le cime delle
montagne, sopraggiunge a Cernobbio, pedalando da Como, visto che Pavolini non è
passato a prenderla (probabilmente non l'aveva voluta coinvolgere nel tragico
epilogo finale), racconterà un altro importante episodio: «I ragazzi avevano
fermato una macchina che veniva da Como e il suo occupante spiegava con
autorevole tranquillità: "È inutile oramai questo posto di blocco. Abbiamo
firmato la tregua un ora fa. I fascisti hanno deposto le armi... Sono l'avvocato
Benzoni, ero presente alla firma dell'atto".
Questa testimonianza è importantissima perchè attesta uno sviluppo conclusivo
delle trattative che i superstiti fascisti non hanno mai indicato. È comunque
possibile che questo avvocato Benzoni abbia giocato sull'equivoco, oppure
ancora, aveva assistito ad una serie di trattative, ma non alla firma di una
tregua vera e propria, comunque sia è evidente che oramai verso sera sta calando
il sipario sui fascisti di Como.
Quel che accadde in quei momenti al reparto Onore e Combattimento diventa quasi
indecifrabile. Sembra che Giovanni Magni, di "GL" nel CLN comasco, riceve il
gruppetto di ufficiali che offrono la resa. Accetta e dà il lasciapassare.
Ma in base a quali pericoli, a quali considerazioni, gli ufficiali di questo
reparto scelto e dal morale altissimo agiscono in questo modo?
Si sono regolati anche in base a precedenti notizie di resa di cui sono venuti a
conoscenza strada facendo?
Non è dato saperlo, qualcuno parlerà anche di mancanza di carburante, ma è
strano che si sia partiti da Como con i serbatoi a secco. In ogni caso l'atto,
certamente non edificante (visto che il reparto era consapevole di essere la
"nuova guardia del Duce" come annoterà in una successiva relazione l'ufficiale
"P" del reparto, il tenente Vitaliano Coppe) avrà delle conseguenze drammatiche
e nefaste per i ministri rimasti isolati a Menaggio.
Al crepuscolo arriverà anche una fila di camion della Luftwaffe in ritirata, è
la famosa colonna tedesca a cui si aggregherà adesso Pavolini e poi, verso
l'alba, il Duce a Menaggio.
Ebbene il piccolo gruppo delle autoblindo di Pavolini, che come abbiamo
accennato e poi vedremo è partito per Menaggio, pur aggregandosi con i camion
tedeschi, riusciranno a passare, ma il forte reparto di Gay no.
I ragazzi del reparto insorgono, gridano che non ne vogliono sapere. Infine
dovranno accettare il fatto compiuto.
Ma quello che sconcerta è apprendere da Alfredo De Gasperi, pur non potendolo
collocare in una tempistica precisa, che: «Nella serata in casa Pozzoli
assistiamo alle trattative per la resa della colonna Gay».
Si saprà comunque che dalle 17 Giovanni Sardagna (accreditato come
rappresentante del Gen. Cadorna e quindi rappresentante militare del CVL),
accompagnato dal maggiore Cosimo M. De Angelis (del presunto comando militare di
Como per il CLN) ed altri, aveva avuto un incontro in questura con Pozzoli,
Airoldi, Butti e De Gasperi per trattare la resa dei fascisti. In quella sede si
decise che Airoldi, accompagnato da Grassi del CLN sarà spedito ad Erba per
definire con il maggiore Noseda la resa del suo battaglione che infatti avvenne
con la concessione delle armi agli ufficiali. Ricollegando questi fatti ed altri
che probabilmente non conosciamo, la testimonianza della Curti, prima riportata,
circa quanto affermato dall'avvocato Benzoni in strada, assume quindi un aspetto
alquanto inquietante.
Romualdi, come abbiamo visto, affermerà che quanto accaduto al reparto Onore e
Combattimento è un altro mistero, ma se partiamo dal fatto che il reparto era
uno dei pochi che avesse ancora il morale alto ed infatti proprio per questo si
era fatto affidamento per mandarlo dal Duce, se consideriamo che i ragazzi si
ribellarono alla decisione presa di cedere le armi, dobbiamo concludere che,
nonostante le difficoltà, volendo il reparto avrebbe potuto farsi strada verso
Menaggio con la forza. Ma non gli è stato permesso di farlo.
Se a questo dobbiamo aggiungere le informazioni ricavabili dal racconto della
Curti, circa quel tal avvocato Benzoni e le altre notizie che attestano uno
stato di totale disfacimento dei fascisti in Como, l'essenza in vita di
discussioni e trattative di ogni genere, dobbiamo concludere che i comandanti di
questo reparto, nonostante la gravità e le conseguenze di questa decisione, si
adeguarono all'andazzo generale e optarono per la resa.
Mussolini scende da Grandola
Verso le 14 i presenti a Grandola, al Miravalle nella caserma, si misero a
tavola con il Duce. Pasto frugale, dirà Luigi Zanon: pasta asciutta e salcicce.
Di Pavolini ancora nessuna notizia. C'era Fernando Feliciani che rilascerà in
seguito molti particolari e note, Mezzasoma, Bombacci, Porta, Buffarini,
Liverani, Romano, Daquanno, Amicucci, Fabiani ed altri.
Ad una lunga tavola siedono in circa una ventina, Mussolini a capotavola con
Bombacci a destra. Il Duce manda Mezzasoma in una stanza accanto ad ascoltare la
radio: «Almeno voi, come ministro della Cultura , andate a sentire le notizie».
Gli altri sorridono.
Apprenderanno così della trasmissione di Radio Milano Libera e i proclami del
CLNAI e del CVL, tra i quali il famoso «Arrendersi o perire».
Mezzasoma tornerà a riferire, e Saro Boccadifuoco (viaggia con il nome di
Giuseppe Marcucci) dei servizi speciali del Ministero degli Interni, darà anche
la notizia che la radio ha parlato di Mussolini fermato a Pallanza con il suo
seguito, tutti pieni d'oro. Si parlerà anche di Raffaele Cadorna comandante del
CVL e Mussolini noterà amaro: «E pensare che deve a me la piena riabilitazione
del padre, infangato e calpestato dalla massoneria».
Il tema ricorrente a tavola era quello sul «che fare» e praticamente si erano
determinate due fazioni: una con Mussolini, Barracu, Zerbino, Mezzasoma e Porta,
contrarissimi all'espatrio (con Birzer ovviamente d'accordo), tutti gli altri
più o meno favorevoli a riparare in Svizzera e Liverani che cerca di calmare le
acque.
Mentre il federale Porta affermava di poter ancora contare sulle sue forze
locali altri, in particolare Buffarini, insistevano inutilmente con Mussolini,
per l'ipotesi di uno sconfinamento in Svizzera da dove, dicevano, si sarebbe
magari potuto seguire la situazione internazionale, secondo lui, gravida di
possibili scollamenti tra Alleati e sovietici.
Significativamente Mussolini, che ascoltava e taceva, si alzò di scatto da una
panchina dove si era seduto, e disse: «Ma non capite che tutto è finito?».
Ricorda alcuni di quei momenti di Grandola il milite Otello Montermini,
caporalmaggiore della milizia, addetto anche a funzioni di barbiere del Duce,
che quando, intorno alle 16 venne mandato a chiamare per svolgere le sue
funzioni: «(il Duce)... mi chiese se almeno io avessi intenzione di seguirlo.
(...) mi stupii maggiormente quando disse tra sé: "Speriamo che non vi siano
altri traditori e che si possa finalmente raggiungere quella benedetta
Valtellina"».
Feliciani dirà che mentre Otello lo stava insaponando, Mussolini abbassò la
testa e cadde in un sonno nervoso. Ma sempre Feliciani riporterà un altra
confidenza che gli aveva fatto il Montermini: «Sa che quando a Grandola,
Mussolini mi chiamò per farsi la barba e aveva sonno ed era stanco, ad un certo
punto mi disse: "Ma voi, Otello, mi siete veramente fedele? Voi eseguireste
qualsiasi ordine vi potessi dare?", "Si Duce". "Anche se vi dicessi di
ammazzarmi?".
Risulta quindi normale e significativa un altra frase, ricordata da Feliciani,
che Mussolini aveva detto in quei momenti agli astanti che stavano cercando di
convincerlo a rifugiarsi in Svizzera: «Non vi pare che sarebbe ora che ognuno
pensi a sè stesso?».
Come è noto, nel primo pomeriggio, Buffarini, Tarchi, il questore Fabiani (che
poi riuscì a ritornare indietro lacero e ferito) fecero il loro tentativo verso
la frontiera Svizzera.
Buffarini e Tarchi saranno però arrestati da finanzieri oramai passati dalla
parte delle Resistenza.
Racconterà Zita Ritossa, la compagna di Marcello Petacci: «Quando Marcello vide
Buffarini salire in macchina ebbe un gesto di stizza. "Adesso siamo fritti",
disse, "guardateli bene perchè non li rivedrete più ..."».
Ad una certa ora, che è difficile individuare visti i pochi riferimenti, ma deve
per forza indicarsi tra poco prima o poco dopo il pranzo, era arrivato su a
Grandola il prefetto Enrico Vezzalini (con lui il capitano Tortonesi, e il
tenente Casati della BN di Menaggio), che durante la strada era stato attaccato
ed aveva avuto un morto. Era evidente che adesso la strada da e per Menaggio era
diventata un serio problema da superare.
Avevamo infatti lasciato, al mattino, Vezzalini davanti alla federazione (dove
non aveva trovato il Duce) con il capitano Tortonesi. Vezzalini allora chiese al
capitano di unirsi a lui per andare a cercare il Duce. Passarono prima in
Prefettura e quindi si misero in viaggio verso Cernobbio con una o due
autoblindo, la vettura del reparto di Tortonesi e pochi militi. A Carate Urio
incontrarono in macchina Pavolini, leggermente ferito, assieme a sei o sette
persone. Evidentemente trovarono Pavolini che stava tornando da Menaggio dove
aveva incontrato il Duce ed era stato attaccato nella strada del ritorno.
Arrivano a Menaggio, poi salgono a Grandola e si recano alla "Villetta". Qui
trovano i membri del governo e neppure un uomo di scorta. Vezzalini parla con il
Duce, racconta il caos e le difficoltà incontrate a Como, gli riferisce della
sua missione a Genova. Nella stanza, al centro il Duce, ascolta il racconto di
Vezzalini che ferito al volto parla con animazione: «A Carate Urio siamo stati
attaccati a raffiche di mitra e bombe a mano. Ho avuto un morto e tre feriti. Al
bivio di Val d'Intelvi le Brigate Nere ci hanno fatto proseguire fino a
Menaggio, perchè non avevano materiale sanitario».
Mussolini gli chiede: «Ma di Pavolini sapete nulla?»
Vezzalini: «Oramai sarà a Como, dove cerca di riunire il maggior numero di
fascisti. Se voi non tornate nessuno, dico nessuno, vi raggiungerà. Tutti i
giuramenti sono soffocati dalla paura. Como è piena di soldati e di fascisti
venuti da tutte le parti, ma parecchi si trascinano dietro mogli e figli.
Pavolini vuol parlare alle diciassette in piazza».
In un greve silenzio, tutti gli sguardi si rivolsero verso il Duce, ma egli dopo
quell'unica domanda rivolta pocanzi, tacque, e si andò a porre vicino al
comandante tedesco.
Successivamente, racconta Carlo Tortonesi: «Dirò che il Duce era in quel giorno
sereno, calmo, direi bello, come non l'avevo visto mai... "Tortonesi" mi disse
Vezzalini, "dobbiamo tornare subito a Como. Ordine del Duce". Non fu più
possibile cavare di bocca una sola parola a Vezzalini, di modo che io non seppi,
né ho saputo mai, quale fosse l'incarico preciso a lui affidato».
Vezzalini quindi, con grande coraggio, ripartì di nuovo per Como.
Alle 17,30 all'Albergo Miravalle di Grandola si ascolta Radio Milano Libera: «Il
CLNAI ha emesso oggi un ordinanza con la quale si abrogano i decreti sulla
pretesa socializzazione delle imprese, con la quale il sedicente governo
fascista ha tentato di aggiogare le masse lavoratrici dell'Italia occupata al
servizio ed alla collaborazione dell'invasore tedesco».
A sera Mussolini lascia Grandola e torna a Menaggio. Sembra che venne su
Castelli a consigliare il ritorno perchè lì a Grandola di notte poteva essere
pericoloso.
Il corteo a Menaggio si fermerà presso le scuole, sede della Brigata Nera. Verso
le 20 i squadristi di Pellio e Argegno approdano al molo.
Intorno alle 18 erano stati fatti ripiegare con un ordine che non si capisce da
chi è venuto e con conseguenze gravi. Solo il "Cremia" del capitano Giorgio
Delaja non è ripiegato. Tutti gli 8 uomini di questo presidio saranno però
ammazzati in malo modo.
Mussolini e il suo seguito consumeranno una misera cena calda preparata da una
ausiliaria. Il Duce mangerà solo riso in bianco perchè ha male allo stomaco poi,
non è chiaro, quando salirà a riposare, sembra al primo piano, nell'infermeria.
A notte fonda, nel refettorio della scuola, ricorda Feliciani, mentre da qualche
parte, nei pressi, sopra una branda era stata sistemata la salma del legionario
ucciso (Lionello Segala di 21 anni) nello scontro a Carate Urio e arrivato
precedentemente con il gruppo di Vezzalini, Mussolini si sfogò con gli astanti
profferendo una specie di requisitoria.
Dirà Feliciani: «Sentii da Mussolini cose che non avrei mai pensato, su amici e
nemici, ... e troppi ne uscirebbero ora bollati anzitutto come uomini».
Nel frattempo, delle circa centotrenta persone che erano arrivate da Como con il
Duce ne sono rimaste circa una ottantina. Durante la notte, afferma A. Zanella,
l'agitazione tra i fascisti si diffonde come una epidemia.
Avvenimenti chiari e per nulla inesplicabili
È probabilmente qui a Grandola, da un certo momento in poi del primo pomeriggio
del 26 aprile, quando di Pavolini e dei fascisti non si hanno ancora notizie e
per vedere come stavano le cose a Como si era dovuto mandare una ragazza (Elena
Curti), che il Duce si rese conto che ogni sua linea di condotta, ogni sua
iniziativa era definitivamente naufragata a seguito della mancanza del sostegno
armato dei suoi uomini e di fronte al defilarsi delle strutture repubblicane.
Eppure Mussolini rimase, sereno e continuò a rifiutare qualsiasi proposta di
riparare in Svizzera. È il suo un atteggiamento, logico e consequenziale, che
può apparire incomprensibile solo se non si tiene conto del carattere e della
personalità del Duce, da tempo incline a voler concludere la sua avventura umana
e politica in un certo modo.
È inutile voler per forza congetturare di ipotetici appuntamenti con emissari
Alleati, che poi non sarebbero arrivati, per spiegare quanto è successo, perché
lo svolgersi degli avvenimenti fin qui raccontati e quelli successivi che più
avanti andremo a raccontare, nella loro semplicità danno già delle risposte
inequivocabili.
Il fatto che il Duce abbia rifiutato di trasformare le grandi città in una
trincea ed in questa trincea non abbia voluto aspettare gli Alleati per
arrendersi; che non sia tornato indietro a Como; non abbia tentato di espatriare
in Svizzera; che lasci i suoi uomini liberi di scegliere una qualsiasi via di
salvezza, sono tutti aspetti che indicano una sua linea di condotta semplice e
lineare.
Quello che ha deviato gli storici, dediti alla ricerca di una ragione precisa in
quegli avvenimenti, a parte la malafede nel voler per forza cercare nella
condotta di Mussolini la malevolenza e l'inganno, sono tutte quelle ore
trascorse invano a Menaggio. Ma anche quella lunga attesa aveva una spiegazione
semplice e naturale: Mussolini ed il suo seguito erano rimasti imbottigliati nel
piccolo paesino lacustre, non si potevano più muovere senza l'arrivo di
sufficienti forze militari da Como. È il crollo dei fascisti a Como che causa
tutta quella perdita di tempo e costringerà Mussolini, dopo le 4 del mattino del
27 aprile, ad aggregarsi alla colonna tedesca in ritirata per sperare di passare
quell'imbottigliamento.
Se i fascisti, arrivati a Como, avessero trovato la forza di proseguire e nella
stessa mattinata del 26 aprile ne fossero arrivati almeno un migliaio a
Menaggio, tutta la storia sarebbe cambiata perchè Mussolini avrebbe subito
potuto proseguire per la Valtellina, subendo al massimo qualche ritardo per
strada a causa di imboscate, ma niente avrebbe potuto impedirgli di arrivare
alla meta prefissa ricongiungendosi alle poche forze che già si trovavano sul
posto e che invece, rimaste ivi isolate, anche loro il giorno dopo si trovarono
a mal partito.
A nostro avviso, ma è solo una nostra supposizione, egli in quel pomeriggio di
Grandola separò i suoi destini da quelli degli altri: che ognuno avesse seguito
ciò che più riteneva utile e opportuno. In effetti Mussolini non è più in grado
di indicare un qualsiasi piano di azione, sono tutti praticamente in stallo in
quel di Menaggio. Di tornare indietro a Como è per lui un non senso ed infatti
non lo prenderà mai in considerazione.
Le uniche possibilità rimaste alla colonna di ministri, militi, gerarchi e
familiari sono solo due: cercare di sconfinare in qualche modo in Svizzera,
superando anche la resistenza dei tedeschi di scorta, o continuare ad attendere
con la speranza del sopraggiungere di un minimo di armati che consentano di
uscire dall'imbuto in cui si trovavano per portarsi al di là di Menaggio, verso
i confini del Reich. Mussolini, per quanto lo riguarda, spera nella seconda
alternativa.
A Como intanto ci si interroga sul «che fare?»
Ritorniamo indietro e portiamoci a Como mentre Romualdi, Costa, Motta, il
federale di Livorno Fernando Gori rimarranno in federazione e Pavolini, come
abbiamo visto, è intenzionato a ripartire di nuovo per Menaggio. La sua
decisione ovviamente è determinata dalle drammatiche notizie portategli da Elena
Curti da Grandola, ma anche dalla impossibilità di poter fare alcunché in quel
di Como. Ma cosa vorrà fare con questo ultimo sua viaggio il segretario del
partito, oltre ad andare probabilmente a morire con il Duce?
Ricorda Livio Faloppa, federale di Genova: «Arrivai a Como alle 11,45 e in
federazione fui accolto affabilmente da Pavolini. Pavolini alle 14,30 tenne un
rapporto nel salone del palazzo comasco ad una quindicina di persone e fu in
seguito a ciò che si disse, in quella riunione ristretta, che egli decise di
partire su una specie di autoblindo... Su quel camion presero posto con lui
Vezzalini e Idreno Utimpergher, per andare dove si trovava Mussolini e tornare
con lui a Como».
Non è chiaro se Faloppa si riferisce alla stessa riunione che Romualdi dicesi
iniziata verso le 16, ma è poco importante, più interessante è appurare se
effettivamente, con questa decisione, Pavolini, ritenne effettivamente di
riportare il Duce a Como. Una conferma in questo senso ci viene anche da
Fortunato Polvani federale di Firenze e comandante della BN Manganiello: «È
successo che Pavolini, siccome Mussolini era a Menaggio e lui vedeva difficile
(almeno penso) passare da Menaggio, andare a Colico e salire sino su in
Valtellina, ha stabilito che sarebbe andato lui a Menaggio e sarebbe tornato a
Como con Mussolini».
Si stenta comunque a credere che Pavolini, arrivati a quel punto e in quella
situazione, potesse ancora pensare di portare il Duce indietro, tra l'altro con
i tutti i pericoli di transito oramai evidenti, ma non avendo testimonianze in
contrario e considerando che non si era in grado di portare una colonna di
fascisti a Menaggio e quindi altrettanto ardua sarebbe oramai stato il
proseguire per la Valtellina, consideriamo acquisito questo intento.
Prendendo quindi per buono, ma con molte riserve, che Pavolini si assunse
l'incarico di riportare il Duce in città, dobbiamo pensare che oramai qui a Como
non si riteneva più attuabile il "ridotto Valtellinese". Dirà il sottotenente
Antonino Scandagliato, ufficiale di ordinanza di Romualdi: «La decisione è stata
di aspettare il ritorno di Pavolini sino ad una certa ora (non ricordo più
quale) tornasse da solo o con Mussolini. E poi di partire tutti insieme. Ma se
non fosse tornato condurre quelle trattative che secondo me erano già state
messe in atto forse molto prima da Celio e da altri».
Racconterà Romualdi: «Alla fine prevalse l'idea che fosse meglio aspettare
ancora per qualche ora e possibilmente fino al mattino successivo il possibile
arrivo di altre forze da Bergamo, da Brescia, da Erba, da Milano stessa con
Facduelle, Vecchini, Biagioni, Noseda».
In pratica, si sostiene oggi, che erano in ballo due opzioni: spedire Pavolini a
Menaggio e al suo rientro con il Duce cercare di condurre tutti i reparti verso
Sondrio, o viceversa attendere il mattino per portare le colonne ripiegate su
Como verso la Valtellina, raccogliendo a Menaggio la colonna di Mussolini ed il
reparto Onore e Combattimento ivi già speditovi.
L'irrealtà di questi proponimenti, arrivati a questo punto del pomeriggio, è
sotto gli occhi di tutti. I dirigenti fascisti dimostrano nei loro ricordi di
parlare come se, a quell'ora in Como, avessero ancora a disposizione forze
sufficientemente armate ed efficienti, ed invece gli avvenimenti che abbiamo fin
qui narrato attestano inequivocabilmente, che proprio grazie ad un operato a dir
poco scellerato, questi reparti armati si stavano oramai volatizzando di ora in
ora.
A parte che non si capisce, infatti, nel clima di sfascio generale e di
defezioni oramai allargate e incontrollabili, che significato poteva avere
attendere altri contingenti che dovevano ancora arrivare (ad Erba poi, come
abbiamo visto, sarà mandata una missione congiunta per chiedere la resa di
Noseda), ma ammesso che Pavolini fosse riuscito a riportare Mussolini a Como (si
andava verso sera e a quell'ora la viabilità e sicurezza stradale non c'era più)
cosa si sarebbe potuto fare con Mussolini in città, se non trattare quella resa
da tanti auspicata?
Ed infatti la resa, i comandi fascisti di Como, la trattarono e come, ma
oltretutto senza Mussolini che, di fatto, a Menaggio li sconfesserà.
In ogni caso, racconterà Romualdi, in quella riunione si era anche pensato di
aspettare il ripiegamento delle forze fino a notte per poi inserire la colonna
in mezzo ad una delle colonne tedesche armate in ripiegamento verso Nord e
magari verso la Valtellina.
Ovviamente, per Romualdi, questa soluzione prevedeva il ritorno del Duce a Como
(e siamo sempre lì) e nel frattempo prendere accordi in questo senso con il
generale tedesco del settore, oppure con il generale Leyers (capo del RUK
Rustung Und Kriegsproduktion, che viene oggi dato in connubio con il CLN comasco
- N.d.R.) che si diceva presente in zona.
Questo piano, sempre secondo Romualdi, realizzabile al mattino se il Duce non si
fosse mosso da Como, forse ancora presentava qualche possibilità di successo.
Tutto quindi dipendeva dall'arrivo degli uomini di Gay a Menaggio che, afferma
Romualdi, erano partiti da circa un ora e da chi si sarebbe incaricato di
convincere Mussolini a ritornare a Como.
Romualdi dice che si propose di guidare questo gruppo, ma invece se ne volle
personalmente assumere il compito Pavolini: «Qualunque cosa debba accadere (gli
disse Pavolini) voglio essergli vicino. Ti prego di capirmi. Ho già salutato mia
moglie. Ora sono tranquillissimo... Questa notte saremo di ritorno e ripartiremo
tutti insieme. In caso contrario, domani mattina, con tutti gli uomini che ti
saranno rimasti, se ne avrete ancora la possibilità, vi metterete anche voi per
la strada di Menaggio facendo il possibile per raggiungerci. Fai sapere a Celio,
con il quale ho già parlato in questo senso, di dire pure, se vuole, se lo
ritiene opportuno, ai capi del CLN di Como con i quali è in trattative per il
passaggio dei poteri, che per evitare inutili spargimenti di sangue, è
necessario che vi lascino tranquilli fino a domattina. Poi si vedrà».
Infine Romualdi ricorderà ancora di aver affidato ad un ufficiale delle BN
l'incarico di prendere contatto con i comandi tedeschi. Poi sistemò a difesa il
palazzo della federazione in cui riposavano stravaccati circa sette-ottocento
persone (comprese le donne).
In definitiva la versione di Romualdi tende a spiegare (e giustificare) tutto
quello che era accaduto fino a quel momento e sopratutto quello che accadrà
dopo, ma non abbiamo riscontri per sostenere incontrovertibilmente che quella
versione, in parte certamente veritiera, lo sia del tutto.
Quel che si intuisce è che nel frattempo si era già, di fatto, delineata tra i
comandanti fascisti e i membri del CLN una "tregua d'armi", ritenuta vantaggiosa
dai primi per guadagnare tempo e anche dai secondi che, tutto sommato, non sono
di certo in grado di sostenere uno scontro militare e attendono imminente
l'arrivo degli Alleati. Non a caso oramai negli uffici della Prefettura ci si
muove apertamente mostrandosi quali elementi appartenenti al CLN, si cambiano i
quadri alle pareti, e così via. Ancora Romualdi racconterà: «L'impegno da quel
momento era o che tornavano nella notte con Mussolini; o che la mattina dopo io
sarei partito e sarei andato verso di loro, stabilito l'accordo con il CLN».
Quindi Romualdi, partito di nuovo Pavolini e rimasto almeno teoricamente massima
autorità fascista sul posto, conviene con chi gli fa notare l'utilità di
stabilire un accordo di tregua per non sostenere un combattimento in Como nella
nottata, perchè ciò pregiudicherebbe la possibilità di un ritorno di Mussolini
in città ed anche l'incontro con coloro che devono ancora arrivare a Como.
Racconterà Romualdi: «Non potevo escludere del tutto che continuando l'inutile
snervante attesa si potesse arrivare a qualche cedimento e a qualche impegno di
resa parziale. Fu questo e l'impegno preso con Pavolini di tentare tutte le
strade per attendere l'intera notte a Como il suo eventuale ritorno o qualunque
diversa decisione, che mi spinse a superare ogni giustificato indugio e mi
decise a intervenire e a dichiararmi disposto ai colloqui».
Una giustificazione questa di Romualdi non richiesta ed oramai superflua, visto
che il cedimento paventato dei fascisti era già da tempo in atto, tanto che
oramai non erano più in grado di fare alcunché ed anche quelli che lui chiama "i
colloqui" erano da tempo in corso e non si erano mai interrotti.
E Romualdi tutto questo lo sapeva perfettamente tanto che aveva anche
raccontato, che nella precedente riunione, presente ancora Pavolini: «Uno dei
vice comandanti della "Muti", credo De Stafanis, ribadì che comunque lui e i
suoi uomini non intendevano andarsi a mettere in un budello senza uscita. Una
idea giustamente condivisa dai più che suggerì ad altri di prospettare una
diversa soluzione: aspettare il resto delle forze in ripiegamento fino a notte e
poi tentare di inserire la nostra colonna in mezzo ad una delle colonne
tedesche».
Confermerà questa fase di stallo o di attesa in cui era caduto il vice
segretario del partito, il Rizieri Maiocchi, capo di stato maggiore della BN
Aldo Resega di Milano, laddove affermerà: «Verso le ore 18 io e Costa torniamo
in federazione, davanti alla quale c'è anche Colombo che si unisce a noi
cosicché noi tre saliamo nell'ufficio del federale. Lassù c'era Pino Romualdi,
seduto alla scrivania del federale con una gamba a cavalcioni della poltrona.
Gli ho chiesto: E allora? "Eh, aspettiamo ordini". Ma quali ordini vuoi
aspettare? Pavolini è partito per Menaggio: da qui a Menaggio quanto vuoi che ci
impieghi? Sono passate tutte queste ore non è possibile che non sia successo
qualcosa! Bisogna per forza fare qualcosa, non pensi? "Io aspetto ordini".
Mentre si stava discutendo così entrarono due del CLN di Como (...) Quei due
hanno chiesto che il comandante della Muti e il federale di Milano Costa
andassero al comando del CLN (...) Sono stati via e sono ritornati verso le 20 e
ci hanno riferito che il CLN voleva imporre a loro due che portassero via tutti
i fascisti da Como (...) Loro avevano risposto: "Noi non ci allontaniamo la
sera, al buio non ci muoviamo. Noi andremo via domani mattina"».
Le trattative per una tregua quindi, di fatto però per una resa, anche se si
parla e si contratta per una tregua, in vari modi approcciate da tempo, anzi
forse già considerate acquisite, vanno in dirittura di arrivo nel corso della
serata per poi concludersi ufficialmente nella notte.
Sarà un pendolare continuo tra Prefettura e Federazione che si concluderà con
una "tregua" i cui termini sono tutto un programma e le cui possibilità
attuative, gli impegni presi e le parole date dalla controparte, data la
situazione oramai totalmente degenerata e incontrollabile, non avevano alcuna
possibilità di venire mantenute ed eseguite. Si deve quindi parlare di una vera
e propria "resa".
Al punto in cui erano oramai state fatte arrivare le cose, non è più nemmeno il
caso di esprimere giudizi, perchè ben poche strade oramai rimanevano ai fascisti
rimasti a Como. La frittata era stata fatta al mattino ed ora era irrimediabile
e se ne pagavano le conseguenze.
E le conseguenze furono salate.
Resta comunque inaudito e ignobile che esclusi Utimpergher e Vezzalini, non ci
fu nessun altro comandante fascista che sentì il dovere di accorrere da
Mussolini, portandosi dietro magari i pochi uomini a guardia del corpo e qualche
altro coraggioso. Molti dissero che c'era ancora da aspettare chi sa chi, o di
aver qualcosa da fare, o altri ancora sostennero che i loro uomini non vollero
farli partire perchè altrimenti, senza di loro, si sfaldava tutto e la
situazione sfuggiva definitivamente.
Ma sono tutte scusanti che non tengono visto che oramai tutto era compromesso ed
almeno accorrere alla disperata incontro al Duce era l'ultimo estremo dovere di
un vero fascista.
26 aprile 1945, verso sera: l'ultimo ritorno di Pavolini a Menaggio
Pavolini quindi si è messo in marcia per il suo ultimo viaggio verso Menaggio. A
lui si è aggregherà Vezzalini con un paio di autoblindo della "Leonessa". C'è
anche il famoso "carro corazzato" della BN di Lucca di Utimpergher. Sarà un
viaggio rallentato, infinito che li porterà a Menaggio intorno alle 3 del
mattino assieme alla colonna di carri tedeschi in ritirata.
Riferirà Vincenzo De Benedictis, che Pavolini dopo aver lasciato il comando a
Romualdi: «Finalmente siamo partiti. A Cernobbio ci hanno bloccato i tedeschi e
ci hanno detto che la strada e tutta bloccata. Se volete raggiungere il Duce
mettetevi in colonna con noi. Pavolini accetta, l'importante è arrivare al
Duce».
Si tratta della famosa colonna del comando motorizzato di un reggimento di
intercettazione radaristica, sotto il comando del tenente Hans Fallmeyer
(stranamente su questo nome non c'è alcuna certezza). Sono diretti a Merano,
passando per la Valtellina, e l'accordo per gli itinerari di colonne in ritirata
come queste, era stato ratificato fin dal 18 marzo precedente, dal comandante di
frontiera delle SS di Cernobbio, capitano Joseph Voertell (che nel dopoguerra
verrà anche indicato come colluso con il nemico) ed il dottor Mario Buzzi,
commissario della Divisione Alpina "Giustizia e Libertà".
Fino ad Argegno l'autoblindo lucchese di Pavolini, più che altro un carro
trasformabile rinforzato da blindature, comandata da Idreno Utimpergher
comandante della Brigata Nera di Lucca, si mette in mezzo alla colonna dei
camion tedeschi poi, come ricorderà la Curti, che nel frattempo in qualche modo
pedalando è arrivata fino ad Argegno, si stacca e si metterà in testa.
È lì che la Curti aveva ritrovato Pavolini che la guardò incredulo e commosso,
con calore gli disse, ed è significativo per giudicare le defezioni: «Tu sei
l'unica che ha avuto il coraggio di tenere i collegamenti. Vieni. Sali
sull'autoblindo: sarai la nostra Anita».
La colonna, seppur scaglionata, finalmente si fermerà davanti all'albergo
Vittoria sul Lungolago di Menaggio. Pavolini si diresse nella scuola adibita a
caserma e scomparve dalla vista della Curti, che nel frattempo aveva ritrovato
Virgilio Pallottelli. Sono circa le 3 del 27 aprile 1945 e si immagini quindi le
fermate e la lentezza del percorso fatto da Pavolini. Racconterà Carradori: «A
tarda sera nessuna notizia né di Pavolini, né di Elena Curti, né dei fascisti
armati. Eravamo tutti in attesa all'interno della caserma della BN di Menaggio.
Verso l'una della notte Mussolini, stanco e provato, si sdraiò su di una branda.
Gli misi addosso una coperta e spensi la luce. "Appena arriva Pavolini
svegliatemi" ordinò prima che chiudessi la porta... (All'arrivo di Pavolini)
Appena entrò nella caserma lo informai che il Duce mi aveva ordinato di
svegliarlo al suo arrivo. "Da quanto tempo è a letto?" chiese lui. "Da poco più
di un ora". "Lasciatelo riposare, è meglio" replicò con una espressione di
rassegnata tristezza nel volto. Mi misi di guardia davanti alla porta di
Mussolini. Stavo attento che nessuno lo disturbasse. Sentivo che si rigirava
nella brandina... Allora entrai...»
Anni prima, Carradori aveva anche detto: «Si accese la luce nella stanza di
Mussolini. Pavolini era sempre nel corridoio. Bussai, entrai. La prima cosa che
mi chiese (era seduto sul letto senza pigiama) fu: "È arrivato Pavolini?" "Si
Duce". "È molto?". "No, no è appena giunto. .... (poco dopo appena pronto)
Mussolini disse: "Fate entrare Pavolini". Nel frattempo è probabile che il
Segretario del Partito abbia convocato di sopra tutte le autorità presenti,
perchè li trovai tutti là fuori: Zerbino, Liverani, Daquanno, Porta e così via.
"Chiamate pure gli altri" disse il Duce. Giunsero tutti, uno per uno. Tutta la
stanza era piena. Arrivarono anche Utimpergher e Vezzalini. Fu allora che
Pavolini fece la sua relazione. Aveva con sè solo tre autoblindo, con pochissimi
uomini, inoltre c'era una colonna tedesca di autocarri in ritirata, disarmata o
quasi. (...) A Como aveva trovato lo sfracello: i fascisti si erano dileguati,
le truppe arrivate in città avevano dato credito alla voce che il Duce fosse
scappato in Svizzera. Tanto che Romualdi convinto dell'inutilità di versare
sangue fratricida, aveva aderito all'invito del nemico di far disarmare "questi
ragazzi". Tutto ciò era l'opposto di quanto Pavolini aveva pensato di realizzare
con le sue categoriche disposizioni date la mattina prima della partenza.
Purtroppo, riferì Pavolini, quelli del CLN avevano avvicinato Romualdi dicendo:
"Che cosa volete più sperare? Mussolini è in Svizzera. Oramai tutto è finito. È
inutile fare spargimenti di sangue. A voi diamo un lasciapassare, già pronto,
per farvi tornare a casa. Non vi sarà torto un capello. I soldati buttano le
armi e sono liberi di tornare alle loro case, dove vogliono; anche le Brigate
Nera e i bersaglieri". Romualdi ha abboccato. A Como levavano le armi ai
fascisti, mano a mano che arrivavano con ogni mezzo, gli davano questo foglio e
dopo poche centinaia di metri li prendevano e li portavano nelle caserme e in
campo di concentramento. Tutti, tranne una cinquantina di vecchi fascisti che
non avevano voluto aderire all'invito di farsi disarmare e, perciò c'erano state
delle sparatorie».
Come si vede da questo racconto di Carradori, se corrisponde a verità e
soprattutto se è preciso nei riferimenti temporali, Pavolini aveva dato al
mattino ben diverse disposizioni, mentre l'esecuzione della cosiddetta "resa" a
Como, che in piena notte verrà poi firmata, era già in atto molto prima della
sua firma formale, verificandosi addirittura il sequestro delle armi ai fascisti
che stavano ancora arrivando.
Le stesse scene comunque, più allargate, si ripeteranno al mattino quando, i
fascisti incolonnati dai loro comandanti per trasferirli nelle località previste
dagli accordi di resa, verranno tutti circondati dalla popolazione, curiosi e
partigiani dell'ultima ora, oramai divenuti una massa eccitata e consistente, e
tradotti in prigionia dove molti di loro, come sappiamo troveranno la morte in
barba ad ogni impegno preso.
Aggiunge Carradori: «Mussolini ascoltò impassibile. Immobile, serio. Era teso,
disgustato, finalmente si rivolse a Porta e, rinfacciandogli la vanteria di
Como, l'apostrofò: "Dove sono i vostri mille e cinquecento uomini disposti a
portarmi in salvo dovunque desidero ed a ogni evenienza?" Abbassò la testa e
aggiunse: "Fino all'ultimo mi avete tradito, mi avete ingannato". Allora
Pavolini osservò che c'era la colonna tedesca, comandata da un maggiore.
"Mandate a chiamare questo maggiore, e che venga col comandante della mia scorta
tedesca" disse Mussolini. (...) Il Duce parlava in tedesco... loro rispondevano
in tedesco e Mussolini riferiva in italiano, ai presenti. In conclusione, da
quanto il Duce riferì si capì che l'ufficiale si prendeva l'impegno di portarci
in salvo fino a Merano. (...) Decisero di partire coi tedeschi. Mussolini non
riposò più».
Sopraggiunse anche Vezzalini che attestò di avere delle autoblindo. Disse che
alle sei in mattinata Romualdi a Como deve dare una risposta al CLN. Propose che
prima di arrendersi, lui con due autoblindo avrebbe cercato di tornare a Como
per organizzare una colonna magari con le forze che vi stavano ancora arrivando,
portando un messaggio di Pavolini per Romualdi.
Mussolini approvò ed ancora una volta si dimostra la sconfessione piena di
quanto si intendeva fare a Como.
Altri importanti particolari, su quei momenti, li darà il tenente Morandi della
"Leonessa":
«Siamo entrati nella scuola dove c'erano in un aula tutti i gerarchi. Pavolini,
che era già arrivato, era in un banco. Stava scrivendo una lettera. Verso le
quattro è apparso Mussolini che era in divisa senza gradi. E Vezzalini subito
gli si avvicinò e gli disse: "Duce ci sono due autoblindo che sono venute in
aiuto". E ci presentò. "Allora si parte"...
In quel momento Pavolini si alzò dal tavolo e venne con una lettera. Me la porse
e disse: "Questa è da portare a Como, ai fascisti di Como".
Ma il tenente Morandi, asserendo che oramai a Como non c'era più nessuno,
declina l'incarico. Castelli cerca di intromettersi dicendo che i suoi non si
sono arresi. Il tenente Morandi cercherà poi di sostenere che non ha benzina,
qualcuno gli fa notare che ce n'è un fusto. Sta per rassegnarsi a prendere
l'incarico, quando si avvicinò Vezzalini e disse: «Dalla a me la lettera,
Pavolini».
E così Vezzalini tornò verso Como, ma non vi arriverà perchè fu catturato strada
facendo, ma affiderà l'incarico di consegnare la lettera a Feliciani che era
andato con lui.
Secondo A. Zanella che ha ricostruito tutti questi avvenimenti, Vezzalini vuole
assecondare una manovra di Pavolini che intende utilizzare due autoblindo della
"Leonessa" per far credere che in una ci sia Mussolini. Quindi Vezzalini rischia
grosso per salvare il Duce.
Da quanto se ne è saputo sembra che la lettera dice che il Duce non ritiene
opportuno tornare a Como. È diretta a Romualdi e contiene anche un invito a
tentare di raggiungerli.
Dirà Romualdi, come se volesse prevenire eventuali addebiti a suo carico: «Nella
lettera Pavolini aggiungeva che, se il tentativo di proseguire fosse stato vano,
dovevo fare quello che ritenevo meglio per tutelare la vita degli uomini, della
cui sorte si preoccupava. Non c'e traccia di rimprovero".
In sostanza, per ricapitolare, a Pavolini erano falliti tutti i tentativi di
rimettere in piedi la situazione di Como e resosi conto che oramai i suoi
subalterni erano nell'ordine di idee di trattare, volle arrivare al più presto
da Mussolini per riferirgli sia dello sfacelo generale che aveva trovato in
città e forse sia delle proposte di resa circolate in sua assenza, ma di cui
qualcosa doveva pur aver sentito. Ma ancor di più Pavolini si reca da Mussolini
perchè comprende che il suo posto è lì con il Duce, a cui non ha altro da
portargli e gli porta se stesso.
Ma Mussolini non è d'accordo né a rientrare a Como, né a sottoscrivere rese e
Pavolini, che comunque aveva già deciso di rimanere con il Duce, manderà
indietro Vezzalini per recuperare quanti più fascisti fosse ancora possibile
trovare. Ma oramai la situazione dal punto di vista militare e morale era
precipitata.
In ogni caso il fatto stesso che Mussolini aveva rifiutato di tornare a Como per
tutto il 26, indica chiaramente che egli, seppur rimasto senza speranze, non
vuol rinunciare a perseguire fino alla fine la sua linea di condotta, anche se
oramai il suo disegno strategico è vanificato.
Quale era questo disegno strategico, praticamente oramai non più fattibile?
«Uno qualsiasi» tra quelli ancora possibili, risponde il ricercatore storico
Marino Viganò; forse un appuntamento sul lago con fantomatici emissari inglesi,
rispondono alcuni ricercatori come lo scrittore storico Fabio Andriola, ma qui
la spy-story, seppur possibile, ha alcuni aspetti illogici per i motivi che
vedremo.
Ma a Mussolini occorrevano anche i fascisti che però non arrivarono mai per i
motivi che sappiamo.
In quella notte, oramai del 27 aprile, il Duce era così rimasto pressoché solo
con un seguito di ministri, personalità e militi vari, molti con familiari
appresso, inadatti al combattimento, la maggior parte fedeli al Duce, ma
umanamente desiderosa di salvarsi in qualche modo, e che comunque poi, a Dongo,
alcuni di loro fucilati, seppero morire in modo superbo.
Al sopraggiungere della famosa colonna di autocarri tedesca in ritirata, a
Mussolini non resta altro da fare che aggregarsi per passare i punti resi
pericolosi dalla presenza dei partigiani dell'ultima ora (Dongo, Chiavenna,
ecc.) e spostarsi verso la Valtellina o oramai verso Merano.
La colonna tedesca sarà invece una vera e propria trappola ed il Duce, una volta
bloccata la colonna dallo sbarramento stradale di Musso, fu sicuramente venduto
dai tedeschi ai partigiani, forse proprio all'ultimo momento, per convenienza,
ma certamente questo fu possibile perchè il tenente Birzer che aveva il compito
di controllarlo con la scusa di proteggerlo, aveva anche avuto un precedente
consiglio di mollarlo se conveniente per l'interesse tedesco ed in sintonia con
le probabili promesse di Wolff al CLN (ne riparleremo in Appendice).
A Como intanto si va
verso la resa
Scrive A. Zanella: «È a Como e dintorni, tra la casa del Fascio, la Prefettura,
la sede del comando SD dov'è il generale Wolff e il comando della GNR, che
matura improvviso il collasso. Paolo Belgeri (sottotenente della compagnia
comando della BN "Rodinì" - N.d.R.) dichiarerà: «Il 26 in federazione non c'era
già più nessuno. La radio continuava a dire: "Concentratevi a Como", quelli che
arrivavano, entravano come fece il generale Onori, investendomi: "Dia ordini!
Dove andiamo?" "Cosa ne so io, non so niente. Io non posso dare un ordine
generale!" In carcere Onori mi spiegò che aveva creduto che fossi lo Stato
Maggiore. Io ero lì, ma non sapevo niente. Se almeno mi avessero detto "Tu gli
dici di andarsene, di sparare..." io glielo avrei detto».
Scriverà Romualdi: «Pavolini dette l'ordine di non permettere in Como disordini
di alcun genere, e a tale proposito, di prendere contatto con rappresentanti del
CLN già in contatto fina dalla notte precedente con il prefetto Celio e con
nostri dirigenti del governo e militari per concordare una tregua d'armi o
quanto avessi stimato necessario a non pregiudicare con scontri inutili una
situazione che dovevamo poter controllare fino all'arrivo del Duce».
Quindi, secondo Romualdi, dovremmo dedurre che lui non fece altro che applicare
le disposizioni di Pavolini, per non far degenerare la situazione in scontri
armati, ma con chi avrebbero dovuto poi tenersi questi scontri armati, non è ben
chiaro visto che almeno fino a sera non erano presenti in città forze partigiane
armate.
Il motivo poi è sempre lo stesso, il miraggio di un ritorno di Mussolini a Como.
In ogni caso Pavolini, o chi per lui, avesse dato questi ordini, può essere
spiegato solo con il fatto che oramai nel pomeriggio i fascisti, scioltisi come
neve al sole, non erano più recuperabili per un sufficiente piano combattivo" e
quindi doveva essere messo in atto il «si salvi chi può».
Ed ancora una volta quindi le responsabilità di quanto successo al mattino e che
poi pregiudicò i successivi avvenimenti, ricadono sulle spalle dei comandanti
fascisti presenti a Como.
Si dice che le conversazioni per una resa dei fascisti (e qui occorre ancora una
volta far notare la differenza tra una "tregua" che sarebbe nelle intenzioni di
Romualdi ed altri fascisti, ed invece una "resa" vera e propria, sia pure
mascherata da assurde condizioni apparentemente favorevoli, come in effetti
diventerà in pratica quella che sarà poi conclusa) entrarono nella loro fase
decisiva quando appariranno a far da tramite gli agenti americani Salvatore
Guastoni e Giovanni Dessì.
In una relazione del CLN si legge: «In serata si iniziarono trattative
contemporanee con Pavolini, con Romualdi, con Colombo e con la famiglia
Mussolini (Vittorio Mussolini, Vito Mussolini e Vanni Teodorani - N.d.R.)».
A parte che, pur non potendo stabilire esattamente cosa si intende per «in
serata», ci sembra difficile attestare la presenza di Pavolini (il quale
oltretutto se era entrato in trattative con agenti statunitensi ne avrebbe
sicuramente informato Mussolini a Menaggio, cosa che non risulta), questa nota
afferma che si cercava di ottenere la resa e la consegna dei principali gerarchi
(compreso Mussolini) e ovviamente di tutte le forze fasciste in Como oppure, se
non fosse stato possibile, ottenere il deflusso delle forse fasciste verso una
zona del lago da determinarsi.
Anche la circostanza che le trattative entrarono in una fase decisiva, non solo
come detto dopo la partenza di Pavolini, ma anche non appena entrarono in gioco
gli agenti statunitensi, ha sollevato più di un dubbio e molti sono arrivati ad
insinuare una collusione precedente con l'OSS americano, cosa questa che
spiegherebbe anche quell'assurdo incagliarsi in quel di Como (vedere a questo
proposito l'articolo "Nome: MSI - Paternità: SIM" di Franco Morini su "Aurora"
n. 44, Novembre-Dicembre 1997 (http://aurora.altervista.org/) con pesanti sospetti
sopratutto su Romualdi). Il sospetto però non è provato.
Come già ricordato, il questore Larice noterà che: «Un accordo sul posto per la
salvezza di Mussolini nonché dei fascisti cominciò a sembrare più conveniente e
sicuro di una avventura come taluno cominciò a chiamare la Valtellina».
E come abbiamo visto, su questa linea era anche Vincenzo Costa quando ebbe ad
affermare che, oramai, raggiungere la Valtellina, per le note difficoltà, era da
scartare.
Ricorderà, l'avvio concreto di quelle trattative, il tenente Mariani, con queste
sacrosante parole: «Alla sera si veglia il palazzo di piazza Impero. (...) Che
fare? Qualcuno invece di ignorare una forza che non esiste a Como, quella della
cosiddetta resistenza, comincia a discutere, stabilire contatti, trattare... Non
si sarebbe mai dovuto riconoscere la qualità di valido interlocutore al CLN o a
chi indossava la livrea alleata. (...) Un incrociarsi di iniziative, di
contatti, tra le parti. Una disparità di pareri fra le varie autorità sia
politiche che miliari. (...) Alla belle e meglio (si finirà per - N.d.R.)
costituire una colonna che dovrebbe raggiungere Lanzo d'Intelvi e alla quale
dovrebbero aggregarsi sia donna Rachele e i figli, sia Mussolini».
Ricorderà Romualdi che in una saletta dell'appartamento di Celio, un incaricato
del CLN di Como, tale "G." e il colonnello "D." (evidentemente Guastoni e Dessì)
stavano, gli dissero, parlando con Vittorio Mussolini e con Vanni Teodorani. E
aggiungerà che Costa e Colombo che avevano fatto capolino in quella saletta
pensavano che era venuto il momento di prendere in considerazione quelle
proposte che venivano fatte da vario tempo a varia gente.
Vincenzo Costa dice che aveva fatto da tramite per avviare i colloqui e che
pretese la presenza del vice segretario del partito (Romualdi) e di aver
suggerito la formula del riconoscimento di una zona neutra dove radunare i
fascisti fuori di Como.
Romualdi preciserà che l'incontro avvenne nell'ufficio di Celio e fu cordiale.
Dice Romualdi che fece presente che sarebbe partito le prime ore del mattino se
nulla fosse accaduto nella notte.
In caso di attacco si sarebbe difeso. Dice poi che, dopo diverse riflessioni e
strane telefonate da parte dei rappresentanti del CLN, gli vennero fatte le
seguenti proposte:
a) quattro giorni di tregua;
b) partenza indisturbata da Como la mattina successiva alla volta di Val
d'Intelvi (ai confini della Svizzera ed a metà strada tra Como e Menaggio) dove
le forze fasciste si sarebbero radunate con le armi e con tutti i mezzi. Una
macchina del CLN con bandiera di riconoscimento avrebbe preceduto la colonna in
evacuazione. Nel frattempo alcuni fascisti si sarebbero recati a Menaggio per
convincere Mussolini, Pavolini e gli altri a seguirli nella fissata località in
Val d'Intelvi.
Sembra che per forzare l'accordo venne minacciato, anche da parte dei
rappresentanti collegati agli americani, il bombardamento della città come
ricorderà anche il funzionario di prefettura del CLN il dr. Manlio Fulvio
(Paolo).
Con molta precisione ricostruisce quegli avvenimenti Viganò nel suo "La resa di
Como": «Nella notte Romualdi, Colombo e Motta ebbero un nuovo abboccamento con
il dottor Guastoni ed altri elementi del CLN dove vennero fissati gli accordi
presi nel pomeriggio (quindi già nel pomeriggio, non la sera - N.d.R.) e si
stabilì che la colonna fascista avrebbe lasciato Como alle 7 di mattina».
Alle tre di notte, racconterà Don Russo, che era anche il cappellano della
federazione ed aveva partecipato a vari incontri, dalla federazione lo chiamerà
al telefono il vicesegretario Romualdi, chiedendo anche del federale Motta.
Romualdi gli da istruzioni per andare in Prefettura a concludere l'accordo, che
infatti si firmerà intorno alle 5 del mattino del 27 aprile.
Assieme a Russo, firmerà per i fascisti (e per Pino Romualdi) il Motta, mentre
la controparte avrà la firma di Cosimo M. De Angelis e Guido Mauri.
Ricorderà don Russo: «Si arriva in macchina in via Volta e si sale in
prefettura. Si è ricevuti in un salone pieno di gente, si riconoscono alcuni
funzionari di prefettura fino a pochi minuti prima in carica durante la RSI. Ora
portano il bracciale tricolore con la stampigliatura nera CLNAI. Sui tavoli
carte e timbri del CVL. Il prefetto era stato fatto ritirare nel suo
appartamento».
Il mattino, verso le 6 comunque venne ribattuta una piccola rettifica per la
località di destinazione che sarà specificata in Lanzo d'Intelvi.
Confermerà Romualdi di aver chiesto a Motta, Russo e il colonnello Cappelli di
recarsi in Prefettura per firmare a nome suo.
Sembra che si aggregherà anche Colombo, mentre sul posto c'era Costa, Vittorio
Mussolini, Vanni Teodorani e altri, ma queste presenze non sono certe, né
confermate.
In Prefettura don Russo troverà gli «altri» oramai padroni del campo: il
maggiore Cosimo De Angelis neo comandante militare della piazza, il neo questore
Luigi D. Grassi, il neo prefetto Virginio Bertinelli appena entrato formalmente
in carica, mentre il prefetto della RSI che avrebbe dovuto ancora essere in
carica, si era ritirato nel suo appartamento.
Ci saranno ovviamente l'agente americano Salvatore Guastoni, dicesi in possesso
una lettera di credenziali del consolato americano di Berna, oppure dicesi, del
vice console americano di Lugano, e il comandante di marina Giovanni Dessì.
L'accordo venne battuto a macchina, in due copie, dalla segreteria particolare
di Celio.
Si volle sostenere che di questo accordo, comunque, ne era stato informato
Pavolini prima che partisse per l'ultima volta per Menaggio.
Che Pavolini abbia informato Mussolini che i suoi a Como erano dell'ordine di
idee di trattare e che magari erano anche state avviate trattative è molto
probabile, ma che possa aver saputo delle proposte e mediazioni americane è da
escludere.
Come accennato e come dirà Spampanato nel suo "Contromemoriale", Pavolini ne
avrebbe sicuramente informato il Duce, non appena arrivato a Menaggio e
Feliciani, ivi presente, lo avrebbe sicuramente saputo, se non direttamente,
almeno da Mezzasoma che in quei momenti non gli nascondeva niente.
E così, per concludere, si finì per firmare quella specie di tregua che di fatto
era una vera e propria resa.
Romualdi, racconterà Don Russo, letto poi il testo, ebbe a lamentarsi che il
Duce non ne era stato informato e non lo aveva potuto approvare (singolare
questa uscita di Romualdi, visto che oltretutto non si capisce proprio come il
Duce avrebbe potuto farlo!).
Dirà poi Romualdi: «Passati i quattro giorni avremmo potuto decidere di
consegnarci agli anglo americani, di accettare il combattimento o di fare
qualsiasi altra cosa... ovviamente a nostro pericolo. Fatte alcune osservazioni
di scarso rilievo accettai riservandomi un ora per informare i miei uomini e
mandare a firmare i termini dell'accordo».
Quindi Romualdi ricorderà che comunicherà il testo dell'accordo agli ancora
presenti in federazione: Faloppa, Costa, Polvani, Motta, Torri, Gino Bardi (ex
federale di Roma), il vecchio Umberto Pasella, Piera Gatteschi Fondelli
(comandante del servizio Ausiliario Femminile), i colonnelli dello stato
maggiore delle Brigate Nere Cappelli, Galdi e altri, Vito Mussolini nipote del
Duce, Franco Colombo.
Dirà Romualdi: «Mi sono impegnato di portarvi ancora una volta vicino al Duce
perchè sia lui a darvi l'ultimo ordine».
Aggiunse quindi che si ebbe una commovente dimostrazione di consenso e lo
confermerà anche il Costa.
Il testo dell'accordo, intercorso tra il comando militare del CLN e le
formazioni della RSI, in sintesi, prevedeva:
- lo sgombro da Como delle formazioni fasciste entro le 8 di quel 27 aprile
1945;
- quelle che intendessero cedere le armi dovranno consegnarle, entro la stessa
ora, al CLN;
- una macchina con bandiera bianca precederà la colonna che intenderà
raggiungere la zona delimitata per il "soggiorno"; segue l'itinerario stabilito;
- sarà prevista una zona neutra di circa un Km. dove un posto di blocco del CLN
fornirà dei lasciapassare per chi volesse deporre le armi;
- la tregua d'armi scadrà alle ore 24 di lunedì 30 aprile 1945;
- i fascisti garantiranno la vita e i beni delle persone aderenti al CLN e
questi garantirà l'alimentazione delle formazioni fasciste fino alla scadenza
della tregua
Quanto potessero essere aleatorie, impraticabili, ma soprattutto pericolose
quelle condizioni sottoscritte, i fascisti lo pagheranno sulla loro pelle nelle
ore successive.
Era, infatti, facilmente prevedibile che, forti di un tale accordo, sarebbero
sbucati fuori partigiani e soggetti di ogni tipo, galvanizzati e inebriati
dall'imminente vittoria, e l'aver introdotto anche la possibilità di cedere
subito le armi, nel clima di dissoluzione da tempo imperante tra le formazioni
fasciste, poste tra l'altro nella prospettiva di un ulteriore ed incognito
trasferimento, tra posti di blocco improvvisati e spuntati moltiplicandosi come
funghi, avrebbe spinto molti militi ad accettare immediatamente un qualsiasi
salvacondotto per potersi defilare.
Senza contare che una volta arrivati, ammesso che ci si fosse arrivati, nella
zona delimitata per il soggiorno della colonna, non poteva restare altro, alla
scadenza dei cosiddetti 4 giorni, che chiedere la resa senza condizioni.
I fascisti, oramai alla disperazione, una volta incolonnati e impacchettati a
dovere, non si capisce come avrebbero potuto fare liberamente qualsiasi altra
cosa avessero voluto e sopratutto come avrebbero potuto scegliere il
combattimento, che non era stato mai scelto in precedenza in condizioni
sicuramente più favorevoli.
Quale ultimo ordine avrebbe potuto infine dare il Duce, ammesso che lo si
sarebbe potuto portare dai fascisti (visto che precedentemente non si era
riusciti neppure a portare i fascisti a Menaggio) e soprattutto adesso, dopo che
si era sottoscritta quella che di fatto era una vera e propria resa?
Solo la stanchezza, lo scoramento e la disgregazione oramai sotto gli occhi di
tutti potettero far accettare con sollievo quelle assurde condizioni, che nella
migliore delle ipotesi prevedevano la resa e la consegna di tutti i fascisti e
di Mussolini agli Alleati.
Si potrebbe obiettare che, arrivati oramai a quel punto, null'altro restava da
fare, ma questo è un altro discorso.
Scrisse il tenente Marinai fotografando perfettamente la situazione: «Romualdi
era in divisa e occupava l'ufficio del Federale di Como. Con lui ricordo c'erano
diversi fra i quali Pasella, il baritono Giampieri e altri. Passai con loro
nell'ufficio tutta la notte del 26 aprile. Della Federazione di Coma eravamo
alla Casa del Fascio solo io, il capitano Ciceri e due altri di cui non mi
ricordo il nome. So che dopo la riunione dei Federali che avvenne al mattino
Romualdi, esortato da qualcuno, si affacciò alla loggia interna della Casa del
Fascio di Como. La stessa Casa del Fascio era gremita di fascisti, militi,
ausiliarie provenienti da diversi parti, e disse qualche parola a quei fedeli
che attendevano direttive. Mi ricordo che il Romualdi disse presso a poco così:
"Pavolini è andato a Menaggio e ritornerà a Como col Duce il quale
(incredibile!) ci darà ancora la vittoria". Si vede che non sapeva neanche lui
cosa dire. È uno di quegli oratori che parlano alla folla con la mentalità dei
mercanti da fiera».
L'epilogo di Como
Quello che accadde dopo è noto: iniziando dalle 7 di mattina i fascisti
cercheranno di incolonnarsi per defluire dalla città con ogni mezzo a
disposizione. Lunghe e sfilacciate colonne di auto a carbonella, camion,
motocarri e motociclette ed ovviamente gruppi a piedi, alcuni con familiari
appresso, presero a mettere in atto gli accordi da poco sottoscritti.
Quella mattina, come riporta Viganò nel suo "La resa di Como" più volte citato,
Scandaliato ricorderà, che assieme al dr. Mattioli e aiutati da altri camerati,
caricarono su un camion una certa quantità di armi abbandonate nel salone della
federazione o sull'antistante piazzale. Poi partirono.
Tra le ali di curiosi e di una popolazione euforica uscita dalle case, tra una
selva di improvvisati partigiani con il fazzoletto al collo e che ora si
sentivano sicuri di mettere il naso fuori di casa, circondati da una calca
indescrivibile, minacciati, adulati, pregati anche con offerte di fiaschi di
vino, i fascisti che ancora non lo avevano fatto si fecero convincere a deporre
le poche armi personali al CLN, ad accettare un pezzo di carta quale
salvacondotto e la colonna, in men che non si dica, si liquefece come neve al
sole e il miraggio del centro di destinazione restò come tale.
A Como, in pratica, si sono tutti arresi, una fine inimmaginabile considerate le
forze in campo, come dirà A. Zanella e aggiungerà l'efficace e semplice
annotazione della ausiliaria Cesaria Pancheri (colonnello, vice comandante del
SAF): «Ieri avevamo tutti la situazione in pugno, oggi si sono squagliati, noi
compresi. Ci sono migliaia di soldati, mucchi di armi, ma noi siamo rassegnati
al macello. Nessuno sa cosa deve fare e che cosa sia meglio fare. I ministri
sono scomparsi insieme ai capi militari».
Buona parte di quelli che costituivano le formazioni fasciste finiranno
imprigionati, internati in campi di concentramento e saranno i più fortunati
perchè un buon numero saranno passati per le armi in barba agli accordi pur
stipulati e firmati. Molti riuscirono a squagliarsela mettendosi in borghese e
tra questi vari comandanti.
Sempre in base a quegli accordi il comandante Salvadore Dessì, coadiuvato dal
tenente dei carabinieri Egidio De Pedra partiva, portandosi dietro il comandante
Franco Colombo, Pino Romualdi e Vanni Teodorani alla volta di Menaggio per
cercare di convincere il Duce, bontà loro, a consegnarsi come prigioniero di
guerra agli americani.
Arrivati alla Tremezzina vennero fermati da partigiani del luogo, i quali
riconobbero in Colombo il comandante della "Muti" che venne trattenuto e
successivamente fucilato.
E così Franco Colombo, uomo di indiscusso coraggio, ma anche lui travolto dal
"clima di Como" pagherà per tutti gli altri comandanti.
Infatti, molti dei capi fascisti che avevano firmato o contribuito a quella
tregua vennero incarcerati, altri vennero nascosti, molti riuscirono a mettersi
in borghese o in qualche modo si dileguarono. Si disse anche che qualcuno di
questi, non facciamo nomi perchè non è provato e la storia non si fa con le
dicerie, si portò via anche la cassa del partito.
Inutile fare nomi o dare particolari, anche perchè non è possibile giudicare
oggi con il senno del poi, quello che fecero o meglio quello che gli restava da
fare in quelle circostanze.
Sono vicende consegnate alla storia e alla coscienza dei singoli.
La cattura di Mussolini
Da questo momento in poi è anche inutile dettagliare le vicende che prendono
avvio dal momento in cui la colonna di Mussolini a Menaggio, verso l'alba e
sotto la pioggia, si mise in marcia, accodata alla colonna di camion tedeschi,
per uscire fuori dall'imbuto che l'aveva inchiodata in quel paesino.
Sono particolari che, arrivati a questo punto, non hanno molta importanza nella
introspezione storica per capire le ultimissime intenzioni di Mussolini.
È evidente, infatti, che oramai a Mussolini non restava altro da fare che
oltrepassare le località divenute pericolose e avvicinarsi il più possibile ai
confini con il Reich. La stessa Valtellina senza l'apporto delle formazioni
fasciste squagliatesi a Como, non venne più ritenuta praticabile e sicura.
Evidentemente Mussolini pensa di rimanere più libero possibile per gestire gli
importantissimi documenti che porta appresso. Come pensasse di farlo non è
facile stabilirlo.
Le ricostruzioni che cercano di contabilizzare la consistenza della colonna di
tedeschi, fascisti, militi e ministri sono tutte contraddittorie. Comunque
dovrebbero essere circa 160 tedeschi, in circa ventinove autocarri, più la
dozzina di tedeschi di Birzer. Non hanno armamento pesante.
Gli italiani, donne comprese, sono distribuiti in una quindicina di automobili
di varia natura e qualche motocicletta, per quasi una settantina di passeri, ai
quali si aggiungono quelli dell'autoblindo di Utimpergher. In tutto si arriverà
forse ad una ottantina di italiani o qualcosa meno, di cui poco più di una
sessantina sarà catturata e registrata tra Musso e Dongo.
Pare che scaglionandosi nel percorso si formerà una colonna di mezzi più lunga
di un chilometro. Tutti questi conteggi sono comunque approssimati ed imprecisi.
Si mossero da Menaggio, forse verso le 5, poi si fermarono quasi subito, quindi
ripresero la marcia con estrema lentezza ed impiegarono moltissimo tempo per
fare i circa 12 chilometri che li separavano da Musso, dove appena fuori
l'abitato furono definitivamente fermati dall'ostacolo stradale messo dai
partigiani che li tenevano sotto mira dai punti soprastanti la stretta strada.
La cronologia di quanto accadde in quel calvario di viaggio ha poca importanza
dal punto di vista storico, più importante è invece intuire perchè Mussolini,
alla fine, scelse di salire sul camion tedesco per passare, camuffato con un
cappotto ed elmetto tedesco, il blocco partigiano.
O almeno cercheremo di capirlo.
Premettiamo intanto che le fasi successive, riferite alla sua cattura a Dongo
verso le 15,30 ed il modo in cui venne scoperto sul camion e cosa accadde
esattamente in quel momento, sono tutte alterate, contraddittorie ed
inaffidabili, mentre le fasi precedenti con le testimonianze dei sopravvissuti,
allora presenti nell'autoblindo con il Duce, quel 27 aprile 1945 fermata a
Musso, poco prima di Dongo, intorno alle ore 7,30 di mattina, sono discordanti:
P. Carradori, E. Curti e V. De Benedictis, hanno ricordi diversi su alcuni
importanti particolari. Incongruenze dovute probabilmente ai diversi stati
d'animo di costoro e che li portarono a recepire diversamente, in quei momenti
concitati del passaggio del Duce sul camion tedesco, le frasi e gli atti di
Mussolini e degli altri.
In queste testimonianze, infatti, alcuni vi notano l'introduzione di qualche
"coloritura" aggiunta, per esempio, dal Carradori, forse per eccesso di
protagonismo ed in effetti nei suoi racconti resi nel corso degli anni si nota
alcune incongruenze, altri insinueranno anche che alcuni ricordi della Curti, in
quei frangenti, sono alterati dalle successive vicissitudini della ragazza che
dovette subire maltrattamenti e violenze, ma questa osservazione resta una pura
e semplice illazione.
In ogni caso sembra che soprattutto Pavolini era contrario a che Mussolini
proseguisse con i tedeschi, mentre altri invece (tra cui forse Casalinuovo e
Bombacci) erano favorevoli.
C'è unanimità solo nel ricordare che Claretta Petacci era tra i più favorevoli e
insistenti. Lo stesso tenente tedesco Fritz Birzer, ivi presente, seppur autore
di versioni inattendibili, ci racconta la riluttanza del Duce ad accettare.
I tre testimoni dell'autoblindo
Tanto per la cronaca di quegli eventi, riportiamo le tre testimonianze di
Vincenzo De Benedictis, Elena Curti e Pietro Carradori i superstiti presenti con
Mussolini nell'autoblindo ferma a Musso per il blocco stradale dei partigiani.
Vincenzo De Benedictis:
«Verso mezzogiorno, poichè le trattative andavano per le lunghe e troppi curiosi
cominciarono a ronzare attorno alla vettura del Duce, Barracu propose a
Mussolini di trasferirsi nel grande carro blindato della brigata nera di Lucca
che si trovava in testa alla colonna. Mussolini approvò l'iniziativa e pochi
minuti dopo raggiunse il mezzo corazzato. Ricordo perfettamente che il Duce
sedette al posto di pilotaggio. Accoccolata ai sui piedi la signora Petacci che
indossava sugli abiti una tuta da meccanico. (...) L'attesa fu lunga e
tormentosa. Mussolini pronunciò durante tutte quelle ore solo pochissime parole.
(...) Sentii dire che Dongo era occupata dai partigiani, che solo i tedeschi
avrebbero potuto passare e che gli ufficiali germanici, di conseguenza,
proponevano al Duce di indossare un cappotto e un elmetto tedesco. (...) Ricordo
che la discussione fu molto animata. I pareri erano discordi e il Duce diffidava
molto di quella proposta. Ma alla fine nonostante l'opposizione aperta di
Pavolini e di Barracu, Mussolini accettò il consiglio degli ufficiali tedeschi e
scese dal carro blindato per salire su uno dei camion della Luftwaffe allineati
dietro di noi. Erano circa le 15.30». (G. Pisanò, "Storia della Guerra Civile in
Italia", 1966).
Elena Curti:
Intanto occorre dire che, secondo la Curti, Mussolini aveva anche fatto parte
del viaggio da Menaggio nell'autoblindo, quindi:
«... Prima di sedersi Mussolini sistemò ordinatamente il suo bel giubbotto
bianco e una machine pistole a canna corta, senza mai abbandonare una busta di
pelle di 25-28 cm. che teneva tra le mani. Una volta seduto si mise la busta
sulle ginocchi, vi appoggiò sopra le mani incrociate, con fare possessivo. Mi
guardava: "Qui ci sono dei documenti di estrema importanza. Qui c'è la verità di
come sono andate le cose e chi sono i veri responsabili della guerra" (...)
Verso mezzogiorno due ufficiali tedeschi partirono in macchina con una bandiera
bianca. (...) Verso le due del pomeriggio comparve una figurina in tuta azzurra
e cuffia da aviatore, carina due grandi occhi azzurri o violetti (la Petacci).
(...) Claretta lasciò la blindo, per ritornare dopo le 16 quando finalmente i
due ufficiali tedeschi, di ritorno dalla loro missione, riferirono al Duce il
risultato delle loro trattative con i partigiani. In pochi minuti la blindo si
popolò nuovamente. Ricomparvero Pavolini, Casalinuovo, Utimpergher, i ragazzi
dell'equipaggio. De Benedictis, Carradori, un signore con i capelli bianchi e
due occhi azzurri (Bombacci - N.d.R.). C'era anche Taiti che i ragazzi
chiamavano il nonnino, un fascista della prima ora. (...) Mussolini ora aveva
preso posto sul sedile dell'autista per poter parlare più comodamente,
attraverso il finestrino, con l'ufficiale tedesco che stava fuori. (...) (il
Duce traducendo:) "Dice che i partigiani sono d'accordo a lasciar passare i
tedeschi. Gli italiani non possono passare... L'ufficiale dice che, se voglio,
mi possono far passare con loro, ma se accetto devo vestirmi da tedesco...".
Mormorio di disapprovazione. Una proposta rischiosa. Casalinuovo cercò di
analizzare rapidamente la situazione da bravo militare, prospettando la
convenienza che gli italiani passassero comunque, i partigiani volessero o no,
assieme al Duce. A nessuno comunque piaceva la proposta tedesca. Pavolini
condivise il suggerimento di Casalinuovo, persuaso che il Duce dovesse restare
con noi (...) Mussolini era indeciso. A questo punto Claretta si mise
letteralmente ad urlare: "Duce salvatevi! Duce salvatevi" (...) non potei
trattenermi dal gridarle, in tono seccato: "Signora la smetta", mentre
Casalinuovo con autorità le faceva cenno di tacere. (...) Mussolini scambiò
ancora qualche parola con l'ufficiale tedesco. Gli occhi dei presenti erano
fissi, febbrili, in attesa di una decisione da parte del loro capo. Una pausa di
silenzio ancora. "Me ne vado" decise infine Mussolini e mentre si alzava
aggiunse a mezza voce tanto che solo i più vicini udirono le sue parole: "...
perchè mi fido più dei tedeschi che degli italiani". Carradori che si era
precipitato nel frattempo verso l'uscita posteriore, per prendere dalle mani del
tedesco un cappotto e un elmetto, rientrò e li porse al Duce (...) Pavolini
ammutolito aveva abbassato il capo sotto il peso di quel tragico fallimento e
della durezza della realtà». E. Curti: "Il chiodo a tre punte", Iuculano editore
2003.
Pietro Carradori:
«La camionetta (con gli ufficiali tedeschi andati con i partigiani - N.d.R.)
tornò verso le 14, dopo quattro ore. I tedeschi possono passare, gli italiani
no, dissero i parlamentari. (...) Visto lo sbigottimento dei presenti, Fallmeyer
salì sull'autoblindo e propose a Mussolini di portarlo, ma lui soltanto, a
Merano. Ma Mussolini si oppose con decisione e disse "no" quasi con rabbia
"seguirò la sorte di tutti gli altri italiani". Fu allora che iniziarono i
suggerimenti e le preghiere dei presenti per convincerlo ad accettare quella
soluzione. Vista la sua contrarietà, a Casalinuovo venne l'idea di mandare a
chiamare Claretta Petacci perchè lo convincesse. Mandò Gasperini. Poco dopo
Claretta arrivò supplicando a sua volta Mussolini di mettersi in salvo. Ma senza
successo. Fu infine Bombacci a superare la sua resistenza. Gli raccontò per
l'ultima volta le sue avventurose peripezie a Pietrogrado accanto a Lenin, ma
soprattutto ebbe una sortita che sull'immaginazione del Duce fece colpo: "Se
riesci a passare la cosa avrà un enorme risonanza in tutto il mondo" (...) E
finalmente cedette. È però falso che abbia pronunciato la frase "meglio con i
tedeschi che con gli italiani che mi hanno tradito". (...) Quando arrivò il
momento del distacco Gatti chiese: "Duce, devo venire con voi?" E Mussolini
rispose: "No, soltanto Carradori mi seguirà". (...) afferrai con la sinistra il
parapetto del cassone del camion per issarmi a bordo. Fu Fallmeyer a strapparmi
giù dalla ruota su cui avevo appoggiato il piede sinistro gridando come un
forsennato: "Nein, nein". In quel momento vidi poco distante Giovanni un
maresciallo delle SS di origine altoatesina della scorta di Birzer che parlava
perfettamente italiano e di cui ero amico. Giovanni, gli gridai, diglielo tu a
questo stronzo che è il Duce che mi vuole. Niente da fare. Il camion partì a
tutto gas. (...) Avrà senz'altro pensato, "anche Carradori mi ha abbandonato".
Da allora questo pensiero, questo rimorso, mi perseguitò. (L. Garibaldi - P.
Carradori: "Vita col Duce", Effedieffe edizioni 2001).
Queste le testimonianze su quegli ultimissimi eventi di Mussolini, che a parte
varie imprecisioni sugli orari riportati, e la corretta sequenza precisa delle
azioni, in sostanza sono simili nella genesi complessiva degli avvenimenti, ma
alquanto diversi nella loro interpretazione.
A noi non resta che interpretare le decisioni e l'atteggiamento di Mussolini.
Mettiamoci quindi nello stato d'animo di Mussolini: egli ha toccato con mano che
i promessi 3.000, 1.000, 500 fascisti armati non sono mai arrivati; sa
perfettamente che neppure ci sono, in alcun senso, più vie di uscita; ha
lasciato tutti liberi di mettersi in salvo, e così via.
A Grandola con il passare delle ore si era reso conto che oramai, non solo è
tutto perduto, ma anche le sue stesse minime agibilità e possibilità di manovra
strategica vanno restringendosi al lumicino. Non poteva non subentrare un
evidente scoramento. Alla fine egli deve però preservarsi una possibilità:
salvare la documentazione storica che ha con sé, l'unica carta che potrà, e solo
da lui, essere giocata in favore della Nazione.
Non è pensabile che si riservi di utilizzarla per salvare sè stesso, visto che
questo è in netta contraddizione con il suo rifiuto, ostinato, continuato e
comprovato a voler assecondare molti dei suoi uomini a riparare di forza o di
straforo in Svizzera.
Questa documentazione non deve assolutamente essergli sequestrata e comunque non
ha alcuna intenzione di cadere prigioniero senza alcuna condizione, perchè sa
perfettamente, che peggio che la morte che gli darebbero gli inglesi, gli
americani cercherebbero di ridurlo un pagliaccio senza avere più alcun potere
contrattuale. In qualche modo vuole passare lo sbarramento partigiano, poi si
vedrà. Oramai vuol fare da solo, quello che non è stato possibile fare tutti
insieme.
Questa l'ipotesi più probabile sulle sue intenzioni.
È per questo che si separa dai camerati ed accondiscende, sia pur riluttante, a
salire sul camion tedesco. Certamente, come testimonierà la Curti, influì
moltissimo anche il disperato appello che gli fa la Petacci di mettersi in
salvo, ma per i motivi appena specificati, escludiamo che sia stato unicamente
per voler salvare la pelle, che accetta di salire sul camion vestito da tedesco.
Egli deve assolutamente passare il blocco partigiano, deve rimanere libero con
la sua documentazione. Sembra, infatti, che chiederà il solo suo attendente
Carradori che vada con lui, ma i tedeschi che si sono riservati di venderlo ai
partigiani, impediranno a Carradori di salire sul camion.
Il resto è purtroppo noto, anche il particolare che il Carradori negherà con
decisione, mentre la Curti lo confermerà con altrettanta decisione, ovvero che
ella lo sentì amaramente mormorare, in quel drammatico momento: «Me ne vado con
i tedeschi perchè mi fido più di loro che degli italiani».
È questa frase, volendo dare credibilità alla Curti, la testimonianza più cruda
delle drammatiche vicissitudini subite in quelle ore dal Duce, mano a mano
abbandonato da tutti, tranne Pavolini, Mezzasoma, Porta, Bombacci e pochi altri.
Defezioni che finirono per condurlo in quella drammatica situazione e lo
portarono a questa affermazione di amarezza proprio verso quegli italiani che
tanto aveva amato.
Parole sicuramente ingenerose, almeno per gli uomini presenti in quel momento,
ma frutto del complesso di tutte quelle inconcludenti ore e precedenti
defezioni.
E che le cose stessero in questi termini lo sapevano anche i fascisti
dell'autoblindo che infatti, la sera, ritrovandolo prigioniero nel salone del
Municipio di Dongo, pur feriti, depressi ed in condizioni pietose, lo salutarono
con affetto, dimostrando di aver superato il momento di angoscia e scoramento
verificatosi quando il Duce se ne andò con i tedeschi.
La notte del 27 aprile: «Pavolini poi, mentre con altri prigionieri all'interno
del Municipio di Dongo si apprestava a trascorre l'ultima notte della sua vita,
con voce nitida e pura che sovrastava il vociare del becerume esterno allupato
di carneficina aveva ordinato, assieme a Ferdinando Mezzasoma,"il saluto al
Duce"» (L. Longo, ricordato da A. Bertotto su "Rinascita" 8/3/2008).
Se, invece, il Duce avesse dato l'impressione di averli deliberatamente
abbandonati per salvarsi in qualche modo, l'accoglienza dei camerati sarebbe
stata diversa.
Un appuntamento sul lago?
Per chiudere questa nostra ricostruzione di quegli avvenimenti vogliamo spendere
qualche parola per un particolare precedentemente accennato.
Nel suo sostare e peregrinare attorno a Menaggio, esclusa definitivamente ogni
intenzione di fuggire in qualche modo in Svizzera, per chi non volesse
condividere la nostra ricostruzione obiettiva e naturale, restano alcune
ipotesi, avanzate da qualche storico, circa un non dimostrabile o comunque non
comprovato appuntamento sul lago per il quale Mussolini avrebbe atteso degli
inviati, forse inglesi, al fine di intavolare trattative di resa avendo ancora
con sè i resti di un governo nominalmente libero.
In un certo senso, questa ipotesi da spy-story, prese corpo anche dalle
dichiarazioni di Vincenzo Costa che, come abbiamo visto, ebbe a raccontare di
aver avuto notizia di una fantomatica e non specificata attesa di Mussolini e
del governo a Menaggio. Nelle pagine precedenti crediamo di aver dimostrato
l'inconsistenza di questa testimonianza e quindi non ci ritorniamo sopra, resta
il fatto però che il tarlo del dubbio, fin dagli anni '60, venne propagato tra i
giornalisti e i ricercatori storici.
Tra i primi a lanciare l'ipotesi di un "appuntamento sul lago" con misteriosi
emissari alleati, troviamo il solito F. Bandini sulle pagine del quotidiano "il
Tempo" dell'aprile 1985.
Come al solito il Bandini raccatta una serie di notizie e particolari,
oltretutto senza andare troppo per il sottile nelle verifiche, li mette insieme
e quindi sviluppa tutto un suo personale sillogismo. In questo caso egli voleva
rispondere a due domande:
1. perchè Mussolini che pur avrebbe potuto facilmente mettersi in salvo non lo
fece, andando invece a morire sul Lago?
2. perchè ci fu tutta quella incomprensibile perdita di tempo su e giù per
Menaggio?
In considerazione di questi dubbi (il secondo dei quali, però, come abbiamo
visto dipese da contingenze semplici a spiegarsi) e ritenendo egli Mussolini un
uomo scaltro ed intelligente, doti difficili a trovarsi contemporaneamente in un
uomo, dedito a qualsiasi compromesso e maneggio, egli si da una risposta: doveva
incontrare sul Lago degli emissari inglesi per contrattare, forte degli
scottanti documenti in suo possesso, la sua uscita di scena e la salvezza
personale sua, dei suoi famigliari e del più stretto suo entourage.
Logica deduzione quella dello scrittore senese, che pur individuando alcune
caratteristiche psicologiche ed umane del Duce, non può però arrivare a
comprendere che esse fanno pur sempre parte di una personalità, di una coscienza
storica e politica, in un certo senso ideologica, dalla quale non si può
prescindere, a meno di non far diventare la figura del Duce simile a quella di
un uomo interessato esclusivamente al potere per il potere ed al proprio
tornaconto personale.
Per il Bandini tuttavia, pur in mancanza di documentazioni adeguate, questi
elementi attesterebbero la sua ipotesi: la composizione, secondo il Bandini,
anomala della "colonna Mussolini" partita da Milano la sera del 25 aprile e
della sua destinazione. E qui il Bandini fa un vero minestrone.
Dice, c'era Claretta per ordine (e non è vero - N.d.R.) del Duce. C'era Elena
Curti Cucciati figlia naturale di Mussolini (e sappiamo invece che Mussolini
neppure sapeva niente di questa presenza, che tra l'altro non vediamo cosa possa
centrare, ma il Bandini ce la infila per sostenere una volontà di Mussolini di
salvare una "sua famiglia allargata"). Poi ci aggiunge un altro personaggio, che
secondo lui potrebbe anch'esso essere figlio naturale del Duce. Si riferisce a
Virgilio Pallottelli. Qui insinua tutta una serie di coincidenze strane circa la
presenza nella vicina Lezzeno dei suoi genitori ed il modo per cui poi si salvò
dalla mattanza di Dongo, tutti particolari di un certo interesse, ma che poco
hanno a che fare con i presunti piani di Mussolini.
Ovviamente poi ci aggiunge la presenza di Marcello Petacci che dovrebbe essere
il vero factotum di tutta l'operazione segreta di Mussolini per incontrare gli
inglesi (a nostro avviso mischiando eventuali ruoli avuti precedentemente dal
Petacci con una serie di circostanze che lo portarono a Menaggio).
Infine ci mischia anche la moglie del Duce, Rachele che trovasi a Como con i
figli (e che in realtà Mussolini ha congedato sperando che possa mettersi in
salvo in Svizzera), il figlio Vittorio, Gina Ruberti vedova del figlio di
Mussolini, Bruno e, perchè no, le sue donne di servizio che ebbero a passare in
quel di Como.
Quindi per il Bandini tutte quelle presenze, con famigliari, bambini e tanti
soldi appresso, attesterebbero un piano di vecchia data, già predisposto dal
Duce, per salvarsi in qualche modo e farsi una "vita nuova" e proprio sul Lago
c'è la soluzione per trarsi dagli impicci.
Questo era il modo di fare storiografia del Bandini, che più che altro sembra
produrre qualche servizio sensazionale per quotidiani o rotocalchi. Ed infatti
poi, con il tempo, ben poche illazioni e supposizioni dello scrittore senese
hanno retto alla verifica storica e non solo per la mancanza di adeguate
documentazioni.
Non ci dilungheremo oltre per confutare questa ipotesi del Bandini, in parte
ripresa poi dallo scrittore Fabio Andriola con il suo "Appuntamento sul lago",
SugarCo 1999, un ipotesi che oltretutto fa a pugni con tante considerazioni
logiche.
Per esempio, afferma lo scrittore A. Bertotto: «Il prospettato rendez-vous con
esponenti del Governo inglese (Sir C. Norton) è una ipotesi frutto dell'algida
fantasia iperborea di alcuni storici che amano revisionare ciò che non è
revisionabile (F. Andriola. "Appuntamento sul lago", Sugarco, 1990). (...)
Partendo da Grandola, il ministro A. Tarchi e G. Buffarini Guidi avevano tentato
invano di varcare il confine elvetico di Oria (Porlezza). Una mossa che non
avrebbero sicuramente fatto se c'erano in ballo trattative segrete con gli
alleati destinate a concretizzarsi nel breve volgere di poche ore. A Menaggio
Mussolini, con mussulmana indifferenza, ha accondisceso affinchè il Generale R.
Graziani ritornasse nella sede del comando della sua armata Liguria (A. Zanella.
"L'ora di Dongo", Rusconi 1993.). Cosa che non gli avrebbe mai concesso di fare
se ci fossero state le premesse per imminenti decisioni armistiziali che
coinvolgevano le residue forze fasciste». (A. Bertotto: "Le ultime ore di vita
di Mussolini: un enigma indecifrabile o il segreto di Pulcinella?")
Anche Carradori, presente con il Duce da Como a Menaggio e fin sull'autoblindo,
ebbe ad affermare: «In proposito debbo anche smentire alcuni storici che hanno
ipotizzato di un rendez-vous mancato, a Grandola, tra il Duce ed emissari di
Churchill. Non era in programma alcun incontro del genere, quella mattina».
A nostro avviso tutta questa storia nasce da alcuni riscontri o testimonianze,
per altro non ben verificati che attestano tutta una serie di naturali e ovvi
lavorii e approcci sotterranei inerenti la scottante documentazione in possesso
di Mussolini ed altrettanti approcci che dovettero essere intrapresi
(soprattutto attraverso la Svizzera) per cercare di capire come poteva
concludersi la guerra con la nostra sconfitta bellica.
Ma che Mussolini sia finito a Menaggio, sulle sponde del lago di Como, perchè
era il luogo degli incontri segreti e risolutivi, ci sembra una bufala. Che egli
abbia preso quella strada, forse "anche" per essere vicino a posti di confine
adatti ad eventuali "incontri", già è più accettabile, non vogliamo escludere
niente, ma potremo cambiare opinione solo in presenza di un minimo di
documentazioni oggettive.
Quanto ad un uso, esclusivamente personale, dell'importante carteggio in suo
possesso, crediamo di averne abbondantemente dimostrato l'infondatezza: le
fotocopie del carteggio, le intercettazioni telefoniche ed epistolari, il suo
modo di agire in quelle ore, non sono quelle di uno che vuol utilizzare il
Carteggio come arma di ricatto per la propria salvezza, ma viceversa come quelle
di chi vuol farlo pesare, soprattutto, in funzione degli interessi nazionali.
APPENDICI
1. Il ruolo dei tedeschi nella cattura del Duce
Sebbene non sia stato possibile provare con documenti alla mano, le
responsabilità tedesche nella cattura del Duce il 27 aprile 1945 a Dongo, che
pur un po' tutti sospettano, qualche parola su quegli avvenimenti va spesa.
Se, infatti, si potesse fare chiarezza in quella torbida vicenda, cambierebbero
molti aspetti, fino ad oggi conosciuti e tramandatici dalla storiografia
resistenziale, che ci descrivono come, un pugno di eroici partigiani della 52a
Brigata Garibaldi "Luigi Clerici", distaccamento "Puecher", male armato, ma
audace e scaltro, mise nel sacco tedeschi e fascisti.
Il Duce venne fermato il 27 aprile intorno alle 15,30 su di un camion tedesco a
Dongo dove tentava di passare il blocco partigiano.
È, in ogni caso, appurato il tradimento del generale SS Karl Friedrich Otto
Wolff rispetto alla RSI, visto che questi trattò da tempo e conseguì con gli
Alleati la resa delle forze armate tedesche in Italia, all'insaputa di
Mussolini.
Del resto recenti ricostruzioni storiche, con una certa fondatezza, hanno
addirittura ipotizzato che anche durante l'8 settembre del '43 ci fu, da parte
delle alte autorità tedesche nel nostro paese, un certo "scambio" sottobanco con
il Regno d'Italia e forse all'insaputa di Hitler, cosa questa che consentì a
Vittorio Emanuele III di svignarsela con facilità mentre, in cambio, Mussolini
fu stranamente dimenticato, da Badoglio, al Gran Sasso.
Erano i sotterfugi e le idee brillanti di quell'ala militare e politica, che
ragionava unicamente in termini di economia bellica ed in Germania con il
peggioramento delle sorti belliche tendeva a divenire filo occidentale. Al tempo
era impersonata qui da noi da Kesserling, dall'ambasciatore Rahn, ecc. e in
Germania da Himmler (e quindi anche dal generale delle SS Wolff che venne in
Italia a febbraio del 1943).
È noto poi che moltissime autorità e gerarchie militari germaniche le
ritroveremo nel dopoguerra subito inquadrate e sotto copertura dell'OSS
americano e funzionali agli interessi occidentali, facendo quindi presupporre un
contatto di vecchia data.
Certamente il Duce, riguardo alla possibilità di una resa tedesca in Italia, ne
aveva percepito delle avvisaglie e ne aveva anche avuto delle informative, ma
non poteva certo immaginare che le trattative avrebbero avuto una tale
conclusione repentina e segreta spiazzando completamente gli italiani. Fu quindi
un tradimento, quello del raggiunto accordo di resa con gli Alleati (resa che
venne poi firmata qualche giorno dopo), appreso dai fascisti all'Arcivescovado
nel pomeriggio del 25 aprile 1945, che forse a Mussolini avrebbe potuto anche
non dispiacere troppo, visto che moralmente e operativamente poteva credere di
aver ottenuto una certa libertà di azione rispetto ai tedeschi, ma che di fatto
condizionò e pregiudicò ogni possibilità di manovra di sganciamento militare dei
fascisti in quelle ore fatali dal 25 al 27 aprile 1945.
Oggi sappiamo che il progetto di resa dei tedeschi, già mediato attraverso la
Curia di Milano, ma poi soprattutto definito direttamente con gli Alleati in
Svizzera, era molto avanzato ed ebbe certamente una sua accelerazione in
conseguenza delle ultime iniziative personali di Himmler, verso gli Alleati.
Come già aveva supposto il tenente Mariani della Rodini, a latere degli accordi
di resa con gli Alleati, giocati da Wolff su più tavoli e poi conclusi in
Svizzera, subentrò sicuramente un suo impegno per rendere possibile la cattura
di Mussolini da parte del CLN.
Non è possibile, infatti, che durante queste lunghe trattative, non si sia
parlato della sorte del Duce (sotto protezione tedesca) e delle sia pur limitate
forze militari fasciste della RSI.
È prevedibile, se non certo, quindi, che in qualche modo vennero fatte promesse
agli Alleati e quindi, successivamente, queste promesse, visto che il 26 e 27
aprile gli Alleati erano ancora lontani da Como, vennero mantenute con le
autorità partigiane.
Oltretutto, proprio nelle ultime ore dell'avventura di guerra germanica in
Italia, si dovette trovare, sia da parte tedesca che partigiana, conveniente e
opportuno tessere tutta una serie di intese per agevolare lo sganciamento dei
tedeschi in ritirata.
Una consegna diretta di Mussolini agli Alleati o ai partigiani era però da
scartare, non volendo il generale tedesco Wolff apparire come un traditore e
forse anche per una residua paura di Hitler la cui autorità di governo, seppur
chiuso e isolato nel bunker di Berlino, nominalmente continuò fino al 30 aprile
1945. Più che di una diretta "consegna" del Duce, quindi, si trattò di un
lasciar fare di un mollarlo se il caso, e tutto questo avvenne probabilmente
dietro una sottile strategia a distanza che parte dal comando tedesco di
Cernobbio, dove Wolff ebbe a passare in quelle ore fatidiche, e fu eseguita dal
tenente Fritz Birzer, della scorta tedesca del Duce, apparentemente incaricata
di proteggerlo o di non farlo fuggire all'estero. C'era probabilmente il
consiglio di utilizzare il Duce, se il caso, nell'interesse dei tedeschi. E il
caso si presentò a Musso.
Toccò così, forse casualmente, ma non è detto, ai distaccamenti partigiani
dislocati tra Como, Domaso e Chiavenna sull'alto Lago, e forse proprio a quel
centro suggeritore e coordinatore di Villa Camilla a Domaso dove risiede
l'avvocato Bruno Puccioni ben introdotto con i tedeschi e amico/inviso di
fascisti e partigiani, al tenente colonnello Galdino Pini richiamato in quelle
ore dal Puccioni, ai sparuti finanzieri della G.d.F., allo strano svizzero Alois
Hoffman soprannominato "mister sterlina", e ai quattro gatti della 52 Brigata
Garibaldi del Puecher, con Bellini delle Stelle, Michele Moretti, Urbano
Lazzaro, ecc., il compito di raccogliere i frutti di quella promessa di consegna
del Duce.
Consideriamo allora alcuni elementi alquanto sospetti, quali per esempio:
a) I racconti in buona parte alterati di questo ufficiale Fritz Birzer (Waffen
SS) ultima "scorta" assegnata al Duce e quelli oltretutto anche alquanto
fantasiosi del Kriminal Polizei bei Duce, tenente Otto Kisnatt (dell'SD e sempre
coinvolto nella sorveglianza di Mussolini) che, guarda caso, era sparito da
Milano per riapparire poi, ci hanno lasciato scritto i due nelle loro memorie,
il pomeriggio del 26 aprile a Grandola (dove Mussolini si era portato
momentaneamente, da Menaggio). Ma altre attendibili versioni asseriscono che il
Kisnatt venne fermato dai partigiani il tardo pomeriggio del 26 aprile e,
portato a Domaso, non si sa bene cosa disse, dove finì e che gioco dovette
recitare; addirittura sembra, ma non è certo, che poi i partigiani lo portarono
a Musso a partecipare alle trattative per il passaggio della colonna tedesca.
b) L'arrivo provvidenziale della colonna tedesca del fantomatico tenente Hans
Fallmeyer, passata dalla strada Regina, che da Cernobbio si snoda fino a Sorico,
con meta la Valtellina e poi Merano. È vero che il passaggio in ritirata di una
formazione tedesca, in quei momenti non era un fatto eccezionale, dobbiamo però
considerare che il transito in ritirata di formazioni militari germaniche
attraverso la Valtellina era stato da tempo pianificato con i partigiani dal
capitano della polizia di frontiera (e oggi ritenuto traditore) Joseph Woetterl.
Non possiamo quindi non mettere in conto, sia pure come semplice congettura, che
-volendo- il comando tedesco di Cernobbio, aveva l'occasione di utilizzare
proprio quella colonna, oltretutto scarsamente armata, per farci aggregare la
sparuta e disperata "colonna di Mussolini" composta da ministri, qualche agente
di scorta, autisti, personale vario (addirittura alcuni con mogli e figli al
seguito) e qualche fascista, oltre alla dozzina di SS di Birzer.
c) Ciò che poi desta ancor più sospetti è il comportamento, sia del tenente
Fritz Birzer di scorta al Duce, che del comandante della colonna tedesca della
Luftwaffe, il tenente Hans Fallmeyer (su questo nome non c'è alcuna certezza,
mai correttamente fornito, venne confuso con persone e ruoli diversi e si indicò
anche come Willy Flamminger o a volte nel Maggiore Hermann Schallmeyer. Per di
più fu stranamente e ambiguamente tenuto coperto dai tedeschi nel dopoguerra).
I tedeschi, comunque, fermati a Musso con gli italiani da uno sbarramento
stradale, tutto sommato sotto la mira di pochi e sparuti partigiani del luogo,
anche se trovatisi in posizione strategica negativa, dopo qualche sceneggiata
entrarono quasi subito nell'idea di risolvere la situazione, nonostante il tempo
che giocava a sfavore, attraverso trattative. Essi non optarono mai, neppure
quando videro che i partigiani che si erano avvicinati a parlare la tiravano per
le lunghe e non desistevano nel mantenere lo sbarramento, per una logica scelta
a forzare il passaggio attraverso il combattimento.
Addirittura, invece, il comandante tedesco, perso già un bel po' di tempo,
accetta di recarsi con i capi partigiani, nel frattempo sopraggiunti, al loro
sedicente e non vicino comando di Chiavenna o Morbegno per trattare il passaggio
della colonna.
Quindi, tranquillo, parte con una camionetta con costoro, sta via alcune ore
(che è difficile, sia quantificare che dettagliare esattamente in quel che
accadde e con chi si incontrò, perchè tutti i resoconti sono contraddittori,
romanzati o reticenti) e si accorda poi per far passare solo i tedeschi perché
"convinto" che non ci sia altro da fare in quanto la strada è minata e
presidiata da ingenti forze partigiane;
d) Ed infine ecco il gran finale, con Mussolini invitato, proprio dai tedeschi,
a salire su di un loro camion per passare, camuffato da tedesco, un concordato
controllo partigiano e poi, una volta scoperto su quel camion (o fatto
scoprire!), viene immediatamente scaricato nella più completa indifferenza,
senza che il "mastino" Birzer muova un dito (e neppure tentò di impedire
precedentemente i controlli ossessivi e meticolosi sui camion), mentre fino a
poco prima il Duce era sotto la sua tutela, ossessiva ed esagitata.
[8]
Quindi delle due l'una: o il comandante tedesco, per passare, si era accordato
per un generico controllo dei documenti, ed allora non è credibile che a Dongo
poi i partigiani siano saliti sui camion toccando e spogliando i soldati
tedeschi alla ricerca di italiani (i partigiani della 52a Brigata erano poche
decine, più curiosi e elementi dei luoghi circostanti, arrivati all'ultima ora e
pronti a scappare al primo echeggiare di uno sparo) quindi in questo caso, il
Duce è stato segnalato!; oppure erano stati concordati e previsti accurati
controlli ed allora si fece salire Mussolini sul camion ben sapendo che lo
avrebbero scoperto!
2. Una guerra fuori dai canoni tradizionali
Come abbiamo visto Mussolini aveva in qualche modo ipotizzato come concludere
l'avventura bellica partendo dal suo presupposto di non voler assolutamente
abbandonare il territorio italiano. In ogni caso una sua eventuale consegna agli
Alleati, noi riteniamo che Mussolini l'avrebbe forse accettata solo dopo ampie
garanzie che egli avesse potuto gestire l'autodifesa sua e della nazione (cosa
questa già di per se stessa impossibile).
Per congetturare, con un minimo di concretezza, su quelle che potevano essere le
sue intenzioni, bisogna tornare a quanto da noi precedentemente affermato,
ovvero al fatto che Mussolini non aveva di quella guerra una visione
introspettiva, oseremmo dire quasi metastorica, che trascendesse dai normali
canoni dei conflitti bellici, o comunque l'aveva solo in parte.
[9]
In realtà Mussolini, ed in questo si sbagliava, era ancora propenso a ritenere
che quella guerra, tutto sommato, pur con i condizionamenti di quelle che allora
venivano chiamate le giudeo plutocrazie, rispondeva pur sempre ai classici
canoni delle guerre precedenti, dove erano sempre stati preponderanti i
rispettivi interessi geopolitici delle singole nazioni, le strategie degli Stati
Maggiori, le politiche delle diplomazie e così via.
Ma questo, per quanto concerneva nazioni come l'Inghilterra e gli Stati Uniti,
era vero solo in apparenza perchè, in questi paradisi massonici, certe influenze
extranazionali erano, già all'epoca, predominanti.
Non era un caso che tutta la strategia bellica Alleata (a differenza delle
profonde e devastanti divergenze di quella del tripartito) era sempre stata
alquanto univoca e tenuta con mano ferma da quei poteri occulti e transnazionali
che la dirigevano, tanto è vero che, questa strategia, opportunamente ritardata
sul piano militare per consentire ai sovietici di occupare i territori che gli
erano stati assegnati in base agli accordi di Yalta, potette imporsi alle classi
politiche inglesi nonostante che, per gli inglesi, era assolutamente certo che
avrebbero perso l'Impero e la supremazia mondiale, a tutto vantaggio delle due
nuove superpotenze planetarie: la Russia e gli USA.
La carenza di una visione più introspettiva e realistica, ma anche metastorica
del suo momento epocale, quindi, non portava Mussolini a fanatizzare una guerra
totale, da fine del mondo, come invece accadeva in Hitler.
Non a caso il Führer da Berlino, in data 24 aprile, aveva emesso questo
proclama, che può apparire assurdo e fuori dalla realtà delle cose in quel
momento, ma che è indicativo per attestare una diversa concezione di quella
guerra: «La lotta per l'essere o il non essere ha raggiunto il suo punto
culminante. Impiegando grandi masse e materiali, il bolscevismo e il giudaismo
si sono impegnati a fondo per riunire sul territorio tedesco le loro forze
distruttive al fine di precipitare nel caos il nostro Continente. Tuttavia, nel
suo spirito di tenace sprezzo della morte, il popolo tedesco e quanti altri sono
determinati dai medesimi sentimenti, si scaglieranno alla riscossa, per quanto
dura sia la lotta, e con il loro impareggiabile eroismo faranno mutare il corso
della guerra in questo momento in cui si decidono le sorti dell'Europa per i
secoli a venire».
Questa incomprensione di Mussolini su le vere e occulte cause della guerra,
oltretutto, se da una parte gli determinava un evidente sdegno per essere stato
coinvolto in un immane conflitto, causato da altrui volontà e interessi, gli
faceva però anche sperare di riuscire a dimostrare la sua buona fede e ragioni,
gli faceva forse cullare l'idea, pur senza farsi troppe illusioni, di poter
quanto meno difendersi, ed al contempo difendere la nazione, di fronte ad un
ipotetico tribunale internazionale.
Tutte cose queste che forse sarebbero state possibili dopo gli esiti in una
guerra di altri tempi, non in un conflitto come quello determinato e
condizionato prevalentemente da forze occulte e condotto da strategie che ne
avevano già programmato il dopoguerra in un ottica "mondialista" di dominio
planetario, da raggiungere dopo una fase transitoria (durerà circa 40 anni) di
divisione del mondo in due sfere di influenza USA-URSS.
L'errore interpretativo del Duce sulla vera portata e incidenza delle forze
occulte che da dietro le quinte condizionavano gli avvenimenti politici e
bellici della seconda guerra mondiale, del resto, era al tempo alquanto comune
visto che determinati Organismi ed Istituti di natura mondialista, la cui
funzione poteva denunciare chiaramente la tendenza ad una ingerenza e ad un
trasversale dominio sugli Stati sovrani, erano al tempo in una fase embrionale,
oppure vennero costituiti solo a guerra conclusa.
Ancora negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, gli uomini di Stato, i
Governi e le Diplomazie si muovevano con una certa libertà di manovra e di
iniziative e gli interessi Nazionali e di Stato sembravano avere un minimo di
sopravvento rispetto a determinate influenze sotterranee che pur tendevano a
condizionarli. Sembravano, ma non era proprio così.
È logico quindi che Mussolini non valutasse appieno la portata e la consistenza
di questi condizionamenti sovranazionali e quindi la sua strategia politica e
militare e la conseguente condotta della guerra non poteva non essere
influenzata, in buona parte, dai canoni classici, da secoli consueti, della
geopolitica, della politica di Stato e da quelli della diplomazia.
3. Yalta ed il presunto anticomunismo di Churchill
In un contesto di difficile interpretazione dei veri motivi che stavano alla
base del secondo conflitto mondiale, rientrano anche i velleitari tentativi,
sperati da Mussolini, ma non solo da lui, di voler utilizzare l'«anticomunista»
Churchill per cercare di fare un fronte comune alla invasione sovietica
dell'Europa.
Tanto per cominciare, i Sovietici erano strategicamente necessari agli Alleati
per una ben programmata condotta bellica della guerra, ma soprattutto erano
indispensabili nei disegni futuri inerenti la spartizione e l'occupazione
dell'Europa.
Questi disegni, che sfociarono poi negli accordi di Yalta, del febbraio 1945,
erano presenti già da tempo nelle strategie belliche degli Alleati i quali,
anzi, come accennato, attardarono appositamente alcune loro iniziative belliche
in Europa proprio per consentire ai sovietici di arrivare ad occupare per primi
le aree di influenza che dovevano poi essergli definitivamente assegnate in
futuro.
L'occupazione sovietica dell'Europa era stata quindi voluta e pianificata
proprio dagli Alleati, dietro una sottile strategia mondialista di stampo
massonico.
Era un mezzo per dividere il mondo in due sfere di influenza e tenerlo in tal
modo assoggettato, scompaginando al contempo definitivamente l'Europa che
sarebbe stata divisa in due entità, con Stati, governi, popoli e partiti
politici, apparentemente contrapposti (cosiddetto mondo libero e cortina di
ferro), ma in realtà dominati dagli USA e dall'URSS perfettamente cooperanti nel
mantenimento dello status quo (la coesistenza pacifica). Non ci sono dubbi in
proposito.
Ogni screzio, ogni resistenza apparente che si ebbe a verificare nella
Conferenza di Yalta e nei mesi successivi era solo di ordine tattico o
settoriale, così come solo di ordine tattico, ovvero di contenimento delle aree
di influenza e di dominio in tal modo assegnate e delimitate, furono i dissidi
del dopoguerra che portarono alla guerra fredda.
Gli americani a Yalta tennero la parte dei finti ingenui che non si rendevano
conto del pericolo sovietico, e gli inglesi quella di chi pone una certa
resistenza in virtù dei propri interessi nazionali e di un generico
anticomunismo, ma le cose stavano ben altrimenti e Churchill, manovrato da
determinati poteri occulti, lo sapeva perfettamente ed era interno a questa
strategia, qualunque potesse essere il suo anticomunismo di facciata.
Credere che Churchill sarebbe sceso a patti, perché da antibolscevico e/o per i
propri interessi strettamente nazionali (limitazione dell'ingerenza sovietica in
Europa), poteva avere una certa logica, ma era completamente inconsistente ed
irrealizzabile nel quadro geopolitico che le forze interessate alla definizione
della seconda guerra mondiale avevano programmato.
Churchill, qualunque potesse essere il suo pensiero conservatore ed
anticomunista, qualunque possano essere stati i suoi atti e dichiarazioni tese a
difendere gli interessi britannici o ad affermare la sua visione anticomunista,
sostanzialmente stava dentro queste strategie mondialiste, manovrato com'era
dalle lobby che, sottotraccia, orchestravano e dirigevano tutta la strategia
bellica degli alleati e, da Yalta in avanti, imposero gli assetti nazionali post
bellici.
Certamente l'avanzata sovietica in Europa, che si determinò non appena fu rotto
il fronte con i tedeschi, era una materia delicata e complessa e quindi è logico
che ci furono resistenze, incomprensioni, screzi, persino rischi di scontri tra
alleati, ma furono, quando ci furono, solo contrasti di ordine tattico e/o di
settore locale, non furono mai di ordine strategico.
Non a caso in Grecia i Russi non difesero i comunisti locali che erano insorti
contro gli Alleati, mentre gli inglesi, da parte loro, avevano scaricato in
Jugoslavia i partigiani antititini e filomonarchici di Mihajlovič.
Sempre a Yalta venne anche concordata, per la fine della guerra, la consegna ai
sovietici dei soldati ucraini e degli ex militari russi anticomunisti. In Italia
a Togliatti fu imposta da Stalin la svolta di Salerno (la "via democratica al
comunismo" nell'accettazione della collocazione occidentale), del resto gradita
ai dirigenti comunisti italiani, ecc.
E del pari furono di ordine tattico o contingente i contrasti generati nel
dopoguerra con la guerra fredda e determinati dalla necessità di contenere le
rispettive zone di influenza così come erano state stabilite a Yalta o gli
equilibri nel mediterraneo e nell'estremo oriente oppure le gravi problematiche
sorte in seguito all'imposto abnorme sviluppo dello stato di Israele.
Del resto le lobby che, sottotraccia detenevano con mani ferme tutta la
strategia bellica degli alleati erano lì, appunto, per fare in modo che queste
divergenze non travalicassero i confini di ordine tattico o locale.
Considerando tutto questo è ipotizzabile che il Duce abbia (e dobbiamo dire:
ingenuamente) pensato che, in qualche modo, aveva forse la possibilità di
difendere il suo operato di governo attestando le motivazioni dell'entrata in
guerra dell'Italia e trattando, al contempo, per delle più mitigate imposizioni
al nostro paese da parte dei vincitori, visto che era, oltretutto, in possesso
di un ampia ed incontrovertibile documentazione comprovante le sue buone
ragioni.
Le influenze di certe forze occulte e gli accordi di Yalta, invece, rendevano
impraticabile questa condotta. Le nazioni europee non si sarebbero ricomposte
attraverso i consueti e pur pesanti trattati di pace tra vincitori e vinti, ma
tutta l'Europa sarebbe stata inesorabilmente divisa in due sfere d'influenza
russo - americana. Non c'era alcuno spazio per una trattativa di resa e la fine
drammatica di Mussolini è stata un fatto consequenziale.
Maurizio Barozzi
Roma, Luglio 2008
NOTE
[1] Romualdi, accennando a Pavolini, scrisse: «Se avessimo avuto tutti la sua
decisione e la sua indomabile fierezza, malgrado gli errori inevitabili ed
evitabili, saremmo trovati, come avevamo sognato, uniti intorno a Mussolini, per
difendere ad oltranza la vita dei nostri uomini e la dignità della nostra
bandiera».
In queste parole traspare evidente l'affetto verso Mussolini, Pavolini, e i
tanti camerati, nonchè il senso dell'onore della bandiera: manca però la
convinzione ideologica e rivoluzionaria di una estrema difesa delle conquiste
sociali rivoluzionarie e antioccidentali del fascismo e della RSI.
[2] Non si può comunque non sottolineare il fatto che dalla fine della guerra in
avanti, con l'Italia sconfitta ed occupata dagli anglo americani che imposero,
oltre alle loro condizioni di guerra, la colonizzazione totale del paese:
militare, economica e soprattutto culturale, devastandone costumi e tradizioni
attraverso l'importazione della way of life americana ed obbligandoci ad
inserirci, in via subordinata, nelle strutture della NATO, ogni collaborazione
con l'Occidente e ogni politica filo atlantica, qualunque potessero essere le
scusanti tattiche addotte, costituiva un vero e proprio tradimento degli
interessi nazionali.
[3] L'OSS americano, ovviamente, non si lasciò di certo sfuggire l'occasione,
per l'utilizzo di questi elementi e iniziò da subito il loro "arruolamento" per
una funzione antisovietica e anticomunista nel dopoguerra. Una funzione da
truppe cammellate, eminentemente tattica, non strategica, ovvero solo per
contenere la Russia nei limiti stabiliti a Yalta, perchè in realtà la vera
funzione strategica di Yalta era la cooperazione USA-URSS nella spartizione
dell'Europa.
[4] Ancora il 20 aprile l'ambasciatore tedesco Rahn nella sua ultima visita al
Duce nascose le trattative di resa con gli Alleati che oltretutto erano entrate
nella loro fase conclusiva. Il giorno dopo Mussolini, in base a quella visita,
disse a Bruno Spampanato: «L'iniziativa è ormai sua (del nemico). Ma un esercito
come quello tedesco e coi nostri soldati, può ancora ridurre il danno
dell'inconcepibile caduta di Bologna».
[5] In un testo la cui autenticità è stata messa in dubbio e probabilmente in
alcune sue parti fu manipolato e artatamente confezionato quale falso
testamento, ma che comunque, almeno in quanto segue, è nello stile di Mussolini
e rende perfettamente l'idea di una indiscutibile realtà storica, si leggono
queste sue parole: «Tutti i dittatori hanno sempre fatto strage dei loro nemici.
Io sono il solo passivo: tremila morti (tra le camice nere - N.d.R.) contro
qualche centinaio. Credo di aver nobilitato la dittatura. Forse l'ho
svirilizzata, ma le ho strappato gli strumenti di tortura. Stalin è seduto sopra
una montagna di ossa umane. È male? Io non mi pento di avere fatto tutto il bene
che ho potuto anche agli avversari, anche nemici, che complottavano contro la
mia vita, sia con l'inviare loro dei sussidi che per la frequenza diventavano
degli stipendi, sia strappandoli alla morte. Ma se domani togliessero la vita ai
miei uomini, quale responsabilità avrei assunto salvandoli? Stalin è in piedi e
vince, io cado e perdo. La storia si occupa solamente dei vincitori e del volume
delle loro conquiste ed il trionfo giustifica tutto. La rivoluzione francese è
considerata per i suoi risultati, mentre i ghigliottinati sono confinati nella
cronaca nera».
[6] Come noto, la politica di Mussolini quale capo di Stato, tesa a mettere il
Fascismo al servizio della Patria (tra l'altro il Duce non aveva mai dato un
eccessivo potere ad uomini di partito attestati su posizioni estreme come
Farinacci o Preziosi e neppure a Pavolini durante la RSI, proprio per
privilegiare, in momenti delicati, l'interesse nazionale su quello di parte)
venne considerata unilateralmente da traditori e pusillanimi che il 25 luglio
1943 ed il 25 aprile 1945, con la falsa e comoda scusa di anteporre la Nazione
alla fazione (il Fascismo), si defilarono dai loro impegni e dal loro dovere di
Fascisti, finendo per danneggiare l'Idea e la Patria. Il Fascismo al servizio
della Nazione non poteva, infatti, essere inteso al servizio dell'Italia
badogliana nata da un colpo di stato antifascista né, tantomeno, di quella del
CLN quale rappresentante di un governo al servizio dell'occupante!
[7] A parte i tentativi di Mussolini di convincere Hitler a chiudere il fronte
russo, ed anche i sovietici in alcuni delicati frangenti (1943) sembra che
cercarono una mediazione attraverso il Duce, è prevedibile e in parte noto che
Mussolini dopo il suo riconoscimento dell'URSS nel 1923 conseguì alcuni accordi
o intese segrete che evitarono all'Italia atti di terrorismo dalle cellule
comuniste durante il ventennio e fino al 1941 (guerra con la Russia).
[8] Quello che lascia veramente a pensare è il fatto che nessuno dei tedeschi
che si trovava sul camion con Mussolini, non intese mai rilasciare interveste,
neppure in quegli anni '50 quando cronisti e non solo italiani, scatenati a
caccia di scoop giornalistici erano disposti a pagare cifre rilevanti per
qualche indiscrezione. Solo negli anni '80 il fantomatico Fallmeyer diede
qualche notizia di sè, oltretutto molto reticente, allo scrittore tedesco Erich
Kuby.
[9] Il Duce non era poi proprio così ignaro di certi condizionamenti
sovranazionali, ma finiva poi per non dargli quella valenza decisiva che invece
avrebbero dovuto avere.
Per esempio, in un ultimo scritto, anche questo da alcuni messo in dubbio, ma
comunque rispondente allo stile ed al pensiero di Mussolini, si può leggere:
«Tra le cause principali del tracollo del fascismo io pongo la lotta sorda ed
implacabile di taluni gruppi industriali e finanziari, che nel loro folle
egoismo temevano ed odiano il fascismo come il peggior nemico dei loro inumani
interessi. Devo dire per ragioni di giustizia che il capitale italiano, quello
legittimo, che si regge con la capacità delle sue imprese, ha sempre compreso le
esigenze sociali, anche quando doveva allungare il collo per far fronte ai nuovi
patti di lavoro». Ed ancora, in una sua sottolineatura a matita, come era uso
fare, di un discorso di Churchill ai Comuni del maggio 1944, Mussolini evidenziò
quanto segue: «La giustizia dovrà essere fatta ed il castigo cadrà sui malvagi e
sui crudeli. Gli sciagurati che hanno macchinato per soggiogare prima l'Europa e
quindi il Mondo devono essere puniti. Così dovranno esserlo anche i loro agenti
che in tante nazioni hanno perpretato orribili delitti. Essi devono essere
condotti ad affrontare il giudizio delle popolazioni che hanno oltraggiato,
sulle stesse scene delle loro atrocità».
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